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Recensione del romanzo “Confidenza” di Domenico Starnone (Einaudi 2019).

Il romanzo breve (appena 140 pagine) di Domenico Starnone “Confidenza” (Einaudi 2019), dal quale è stata recentemente ricavata la sceneggiatura di un film con Elio Germano protagonista, è bello.

Degno della migliore scrittura di questo autore, di cui mi piacciono sia le problematiche che affronta, sia il modo con cui ce le racconta.

Il romanzo, anche questa volta, ruota attorno a una vicenda familiare; sono chiari – conoscendo Starnone – i riferimenti autobiografici.

È la storia – quasi la biografia – di un uomo, Pietro Vella, un insegnante di liceo nato a Napoli, ma trasferitosi a Roma dopo la laurea, dove vive e lavora.

Che si innamora una prima volta di una sua allieva, Teresa, che ha almeno una decina di anni meno di lui e con la quale intreccia una tempestosa relazione, fatta di amore e di odio.

E poi, una volta conclusa – per sfinimento – questa prima relazione, ne inizia una nuova con una collega coetanea, Nadia, insegnante di matematica, con ambizioni di carriera universitaria ben presto naufragate.

Il rapporto con Nadia è tutto l’opposto di quello con Teresa; tanto tempestoso e lancinante era quello con Teresa, tanto tranquillizzante e rassicurante è quello con Nadia.

Che, infatti, “regala” a Pietro tre figli e, soprattutto, accudimento, cura e, pertanto, la libertà di dedicarsi ai suoi principali interessi: professionali, culturali e politici.

Così Pietro, da oscuro insegnante di liceo, diventa un saggista abbastanza noto che pubblica due libri e svariati articoli, viene invitato a dibattiti e convegni e, soprattutto, entra nel mondo dell’editoria, dove conosce un importante pedagogista, Stefano Itrò, e una editor avvenente, benestante e colta, Tilde, con la quale, grazie anche alla intensa frequentazione, vive una sorta di (anche se solo platonico) flirt.

Su queste tre relazioni – quella con Nadia (la moglie), quella con Teresa (la prima amante) e quella con Tilde (l’amica) – Starnone costruisce un’avvincente intreccio emotivo-sentimentale, profondamente erotico e persino – almeno a tratti – passionale, che ci porta a scandagliare la complessità, le ambiguità e le contraddizioni che caratterizzano i rapporti tra gli esseri umani, soprattutto quelli tra i due sessi, e in fondo la complessità, le ambiguità e le contraddizioni dello stesso animo umano, di cui quelle relazionali in fondo non sono altro che il riflesso.

Viene fuori, ad esempio, la complessità delle dinamiche legate a termini quali “fedeltà” e “tradimento”.

Il protagonista Pietro Vella tradisce più volte la moglie Nadia con la mente e col desiderio, “con discrezione, forse addirittura castamente” (p.121); e – almeno in una situazione – riesce ad evitare di farlo anche concretamente, fisicamente (con Tilde), per puro caso, perché distratto/attratto da un altro “tradimento” (con Teresa) di natura puramente mentale.

La stessa moglie Nadia – che pure sembra il ritratto della donna tranquilla, tutta casa e lavoro, ma soprattutto fedele – sul finale del romanzo confessa alla figlia: “… tuo padre mi è così indispensabile che, per poter restare con lui, ho dovuto tradirlo moltissime volte, secondo tutte le possibili accezioni lecite del tradimento.” (p. 121).

Per cui la figlia Emma così ne riassume la vicenda emotivo-affettivo-sentimentale-matrimoniale: “… mi è sembrato tutto sommato bello che questi due vecchi… per poter vivere insieme tutta la vita, avessero dovuto inventarsi una pratica innocente del tradimento che permettesse loro di non dirsi: non ci vediamo più.” (p. 121).

Come se un matrimonio, per reggersi, per durare nel tempo, avesse bisogno necessariamente, indispensabilmente di tradimenti reciproci dei due partner; reali o solo mentali, effettivi o sessualmente casti qui ha poca importanza.

Viene, quindi, fuori in questo romanzo, in maniera paradigmatica a me sembra, una delle lezioni fondamentali di Jung: ciascuno di noi è fatto di una “persona” – la maschera che mostriamo agli altri – e di una “ombra” – il nostro lato oscuro, quello che tendiamo a nascondere, non solo agli altri, ma anche a noi stessi.

Ciascuno di noi ha quindi, molto probabilmente, una qualche “confidenza” (non a caso è questa la parola che dà il titolo al romanzo), fatta in un momento di particolare intimità (o debolezza) a qualcuno/a, di qualcosa di cui prova vergogna, con le conseguenti paura, preoccupazione, ansia, in certi momenti vero e proprio terrore, che l’altro/a possa portarla allo scoperto, rivelandola in pubblico.

L’altro/a, in questo caso, è la metafora della nostra coscienza (più o meno) sporca, con la quale ciascuno di noi deve fare i conti.

Aggiungo su questo punto solo un ultimo elemento di riflessione: alcuni – di quello che siamo – vedono solo o prevalentemente il bello e il pulito, altri solo o prevalentemente il brutto e lo sporco.

Mentre forse ciascuno di noi non è né solo e totalmente il primo, né solo e totalmente il secondo, ma un impasto complicato, complesso, del primo e del secondo, nel quale è difficile distinguere il primo dal secondo.

© Giovanni Lamagna

L’aggressività nel rapporto di coppia.

Perché – in molti casi – si diventa estremamente aggressivi nel rapporto di coppia?

Per la ragione molto semplice, persino banale, che il rapporto di coppia è quello nel quale la maggior parte delle persone investe di più.

Come in nessun altro rapporto.

In altre parole noi nel rapporto di coppia – specie all’inizio – tendiamo a ricercare le stesse gratificazioni che abbiamo sperimentato nel rapporto coi nostri genitori, specie nel rapporto con nostra madre.

Anzi tendiamo a cercare perfino le gratificazioni che non siamo riusciti a sperimentare allora, le gratificazioni che ci sono mancate, che non abbiamo ricevuto in quella fase decisiva della nostra vita affettiva.

Vorremmo così riempire – attraverso il rapporto di coppia –  dei vuoti – qualcuno parla addirittura di ferite – che ci portiamo appresso da quando eravamo bambini.

Sta tutta qui la estrema complessità e difficolta dei rapporti di coppia.

E la ragione dei loro numerosi e frequenti fallimenti.

© Giovanni Lamagna

Linguaggio e contenuti.

La prosa di Sigmund Freud è – quasi sempre – di una chiarezza adamantina, esemplare.

Eppure è utilizzata per esprimere concetti niente affatto semplici, meno che mai banali, anzi spesso molto complessi.

Dovrebbe essere di lezione, quindi, per quanti fanno generalmente ricorso ad un linguaggio oscuro, anche per esprimere concetti tutto sommato abbastanza semplici o, addirittura, elementari.

Come se si compiacessero nel non essere compresi.

E come se l’acutezza, la profondità e la complessità dei contenuti si misurassero dal linguaggio poco chiaro o addirittura incomprensibile ai più.

© Giovanni Lamagna

Sulle somiglianze e sulle differenze tra gli uomini e gli animali.

Ieri mattina ho pubblicato su facebook questo post:

Vita e consapevolezza della vita.

La Vita vive e va avanti di per sé, a prescindere dalla consapevolezza che ne abbiamo.

Tanto è vero che già esisteva prima che nascessimo ed esisterà anche dopo che saremo morti.

Addirittura anche dopo che il mondo (il nostro piccolo mondo, il pianeta Terra) si sarà estinto.

Come siamo piccoli ed infinitesimali di fronte al mistero infinito della Vita!

E, però, la Vita comincia ad acquisire un senso (che è poi l’unica cosa che conta davvero per noi) solo nel momento in cui cominciamo a dare un nome alle cose, ad utilizzare il linguaggio, ad avere quindi consapevolezza del nostro essere vivi.

Sta tutta qui la differenza (e che differenza!) tra noi e una pietra, tra noi e una pianta, tra noi ed un animale.

Gli animali vivono e muoiono senza aver avuto nessuna consapevolezza di aver vissuto.

Non so – a dire il vero – se questo sia un bene o un male; ma così è, senza ombra di dubbio.

Una mia amica (D. M.) lo ha commentato così:

“Sul fatto che gli animali non si rendano conto di essere vivi però non sono d’accordo. Sanno dimostrare gioia, tristezza ed empatia, sanno quando devono morire e hanno paura della morte, direi che sono molto più consapevoli di quanto possa sembrare.”

Da questo commento è scaturito un dialogo che riporto integralmente, perché mi è apparso di un certo interesse:

G. L.: Non ho detto che gli animali non hanno sentimenti… ma la consapevolezza, a mio modesto avviso, è altra cosa dalle emozioni e dai sentimenti…

D. M.: Secondo me invece sono strettamente collegati. Forse la forma mentale in cui questa consapevolezza li abita è diversa da qualcosa che noi immaginiamo, ma io non credo affatto che in loro non ci sia.

G. L.: L’animale non SA di dover morire… SENTE che sta morendo, quando viene il suo momento… ma “sentire” e “sapere” sono due cose diverse, molto diverse…

D. M.:Quando arriva il veterinario a casa e il cane sceglie un posto dove stendersi vicino ai famigliari, decide chi vuole vicino nel momento in cui morirà. Se non è consapevolezza questa.

G. L.: Sapere significa anche prevedere… sapere di dover morire significa in qualche modo “vivere per la morte”, come diceva Heidegger… questo atteggiamento è totalmente precluso all’animale… il quale sicuramente soffre, se vede un suo simile morire… ma non sa che prima o poi toccherà anche a lui la stessa sorte… poi quando starà in fin di vita, in agonia, forse in quel momento sentirà di stare per morire… si renderà conto di qualcosa di cui fino ad allora, però, non aveva avuto consapevolezza…

D. M.: La mia esperienza con gli animali dice cose diverse, rispetto il tuo punto di vista, ma per me la cosa è diversa.

G. L.: Anche io rispetto il tuo, ma con tutta la considerazione che ho per gli animali, faccio fatica a non vedere (e mi meraviglio che tu non la veda) la profonda differenza che passa tra la natura dell’animale e quella dell’uomo… con i vantaggi e gli svantaggi che esse comportano per gli uni e per gli altri…

D. M.: Il fatto che siano diversi non vuol dire inferiori o privi di coscienza. La natura ci accomuna agli animali molto più di altre cose che noi siamo riusciti ad inventarci per credere di essere diversi, “superiori”…

G. L.: Non ho mai detto che siano “inferiori”; in natura ogni essere e persino ogni cosa ha il suo ruolo e la sua funzione… non ha senso, quindi, parlare di “inferiori” e “superiori”… riconosco che anche gli animali hanno una qualche forma di coscienza… e, infatti, noi apparteniamo al loro stesso genere… ma, certo, la “coscienza” degli altri animali non raggiunge i livelli di complessità dell’animale uomo…

© Giovanni Lamagna

Volontà di vivere.

La semplice “volontà di vivere” (alla Schopenhauer, per intenderci) non basta a dare di per sé un senso alla vita nella sua complessità.

La “volontà di vivere” motiva la vita biologica (il “bios”).

Ecco perché anche i disperati, cioè coloro che non trovano un senso alla loro vita, sono attaccati, nonostante tutto, alla vita biologica.

E, infatti, non si suicidano.

Ma la schopenhaueriana “volontà di vivere” non è in grado di motivare anche la vita spirituale.

Questa ha bisogna di trovare un senso che vada al di là dell’istinto, della pura spinta biologica a restare in vita.

Quella di cui parla Schopenhauer è più una volontà di sopravvivere che una vera volontà di vivere.

© Giovanni Lamagna

L’essere umano o è “religioso” o semplicemente non è.

Chi rigetta, in modo frettoloso e saccente, non solo le religioni storiche, ma anche la stessa “dimensione religiosa dell’esistenza”, in nome dello scientismo, del laicismo, dello sviluppo del pensiero umano (in modo particolare di quello filosofico), della secolarizzazione delle società moderne, dimostra, a mio avviso, di essere persona superficiale, banale, che non tiene conto della complessità della Storia e dell’animo umano.

Non ci sono dubbi (chi può negarlo? manco l’uomo di fede può farlo!) che le religioni storiche (soprattutto in certe epoche storiche e in certi contesti geografici) abbiano prodotto disastri immani, abbiano in molte occasioni coartato il libero pensiero e le potenzialità dell’umano, provocato carneficine e oppressioni orrende.

Ma non ci sono manco dubbi che esse siano state per una lunga fase della vicenda umana una delle componenti principali, se non la principale, del suo sviluppo, della sua crescita, del suo porsi domande e tentare di darsi risposte, senza le quali l’essere umano non può definirsi tale, si riduce al semplice genere di cui pure è parte.

Le religioni storiche hanno indubbiamente partorito molti mostri e angherie, ma hanno anche ispirato innumerevoli eroi ed atti eccelsi di santità.

Non a caso è nell’ambito della vicenda storica delle religioni che è maturata la regola aurea del “Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te e non fare loro ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso”, su cui si fondano tutte le etiche umane, nelle loro varie e molteplici forme, sotto qualsiasi parallelo e lungo qualsiasi meridiano.

Certo poi le religioni storiche hanno spesso dato origine anche a contrasti e conflitti asprissimi, feroci, perfino a guerre interreligiose, che è il colmo dei colmi.

Ma questa è solo l’altra faccia della Luna, quella in ombra; che non può farci dimenticare la sua prima faccia, quella a noi visibile; o viceversa, a seconda di come vogliamo valutare le luci e le ombre che si accompagnano in ogni vicenda umana, quindi anche in quella storica delle religioni.

Negare o banalizzare la stessa “dimensione religiosa dell’esistenza” (con le domande fondamentali sul “senso della vita” che essa pone), andando ben oltre l’analisi e la critica delle forme da essa assunta nella storia e nella geografia, significa negarsi, chiudersi ad una dimensione che è la più profonda che possa sperimentare l’essere umano, a prescindere dalle risposte che egli sarà (o non sarà) in grado di darsi.

Domande alle quali nessuna scienza, nessun nuovo ritrovato tecnologico e manco le strutture sociali e politiche riusciranno mai (come la Storia, soprattutto quella recente, ha dimostrato in abbondanza) a trovare risposte; perché queste riposano, sono nascoste nel cuore di ogni singolo individuo.

E niente e nessuno mai potrà scovarle al suo posto, risparmiargli il cammino (spesso faticoso e sofferto, a volte persino drammatico) della ricerca e del ritrovamento, che non sarà mai scontato, mai certo, ma affidato sempre ad un incedere precario e incerto, del tutto individuale e personale.

In altre parole, una cosa è demitizzare il mito (o i miti) che si nascondono dietro le religioni storiche, ne hanno fondato la nascita e perpetuato la durata nel tempo; altra cosa è negare la verità profonda, la funzione simbolica, che si nasconde sempre dietro ogni mito, tutti i miti che hanno accompagnato da sempre la vicenda umana.

Infine, una cosa è aggiornare e modernizzare i rituali che fanno parte delle religioni storiche e che hanno arricchito e vitalizzato, pur con tutti i loro limiti e le loro contraddizioni. la vita delle società trascorse, altra cosa è eliminare del tutto i rituali, l’idea stessa del rito, dalle nostre società contemporanee.

O banalizzarli (che cosa sono alcuni happening mondani – esclusivi o di massa che siano – o alcune manifestazioni sportive se non dei rituali dell’epoca d’oggi?) al punto da renderli ininfluenti o del tutto insignificanti dal punto di vista delle risposte che i riti di una volta intendevano dare alle domande di senso che provenivano dagli individui e dalle società di cui erano prodotti storici.

L’uomo (anche l’uomo contemporaneo, ipermoderno, postmoderno) non può fare a meno né di miti né di riti; ne va della sua vita spirituale, che senza di essi ne risulta gravemente impoverita.; e cosa sono i miti e i rituali se non l’essenza, l’anima stessa della “dimensione religiosa dell’esistenza”?

Per cui – ritornando a bomba – il rapporto dell’uomo con la/e religione/i non può essere quello di chi butta il bambino con l’acqua sporca quando svuota la vasca da bagno.

L’uomo certamente non può fare a meno di interrogarsi – continuamente e in maniera lucidamente, spietatamente laica – sul suo “essere religioso”; ma alla fin fine non può fare a meno di rinunciare del tutto a questa sua natura profondamente, intrinsecamente religiosa.

Perché il suo stesso interrogarsi, porsi dubbi e domande, il suo stesso depurare miti e rituali di un tempo, fanno parte intrinseca di questa sua connaturata e profonda religiosità.

Che tende a “rilegare” (sta qui l’etimo della parola “religione”) tutte le cose, anche quelle apparentemente lontanissime tra di loro; a trovare – in altre parole – l’essenza e l’unità del Tutto.

© Giovanni Lamagna

Semplicità e semplicismo

Credo che occorra essere molto rigorosi e netti nel fare questa distinzione: una cosa è la semplicità, altra cosa è il semplicismo.

E che occorra perseguire (con costanza, con metodo, con tenacia) la semplicità come stile di vita.

Ma che sia necessario allo stesso tempo fuggire (con uguale costanza, tenacia e metodo) il semplicismo.

La semplicità, infatti, non si propone e, meno che mai, si sogna di negare la complessità, la difficoltà dei problemi, anzi della vita stessa.

Il semplicismo invece è proprio questo: la negazione, la rimozione della complessità, in nome dell’approssimazione, della faciloneria, del ricorso alle soluzioni (o, meglio, pseudosoluzioni) che a volte quasi sembrano voler negare l’esistenza stessa dei problemi.

La semplicità non nega la complessità e non parte dal presupposto che già sia tutto chiaro, anzi semplice, in partenza.

La semplicità ha come suo primo obiettivo quello di rendere chiaro il problema, che all’inizio, in molti casi, non lo è affatto.

E, per raggiungerlo, non si limita solamente a semplificare il linguaggio; cosa che, almeno in certi casi, è del tutto impossibile.

Cerca solo – almeno ci prova – di rendere il linguaggio quanto più accessibile al maggior numero di persone possibile.

Senza però mai farlo scadere al livello della superficialità, dell’approssimazione, se non della vera e propria banalità.

La semplicità, inoltre, non nega, né rimuove le contraddizioni (logiche, filosofiche, teoriche, materiali, economiche, sociali, culturali, politiche…) ed i conflitti che da esse derivano.

Prova solo ad individuare i percorsi, i metodi più adatti ed efficaci per affrontarle e possibilmente risolverle.

Nel suo procedere non fa mai credere, anzi non dà mai neanche lontanamente a intendere, che il suo cammino sia tutto rose e fiori, solo avanzamenti e successi, applausi e premi.

Ammette e riconosce i fallimenti, i punti di crisi, le sbandate, gli arretramenti, così come evidenzia gli avanzamenti e i risultati ottenuti.

Per concludere, la semplicità non è una dote di natura, quasi fosse costitutiva del codice genetico di una persona.

Ma è il frutto di una vera e propria ascesi, di un lavoro faticoso, a volte duro, innanzitutto su stessi.

La semplicità, in altre parole, è il punto di arrivo di un percorso intellettuale, etico e, perciò, spirituale, che tende ad affinarsi ed elevarsi sempre più nel corso del cammino; non è mai il punto di partenza di una vita.

Può e deve essere considerata, dunque, una virtù e non una qualità innata, come lo sono (per fare degli esempi) la bellezza fisica o il quoziente intellettuale.

Si diventa semplici, così come si diventa colti, saggi, educati, buoni…

Si nasce infantili e si corre il rischio di rimanere tali o di diventare dei sempliciotti, se non si fa un lavoro serio e, in molti momenti, duro su se stessi.

Non si nasce semplici, come qualcuno crede, confondendo (semplicisticamente, appunto!) la semplicità con la semplicioneria.

© Giovanni Lamagna

I buoni e i cattivi.

Ci sono quelli (e sono molti)

che amano dividere il mondo in buoni e cattivi,

in umani e disumani.

 

Loro ovviamente sono i buoni,

gli altri i cattivi.

Loro sono gli umani,

gli altri i disumani.

 

Sono gli stessi che, magari,

di fronte a delitti efferati,

trovano mille ragioni

sociologiche o psicologiche per

non dico giustificare

ma quantomeno comprendere

gli autori dei delitti commessi.

 

Come a dire:

la colpa è sempre della società.

Insomma (verrebbe di dire)

utilizzano due pesi e due misure!

 

Chi è abituato a giudicare così

si rifiuta o magari è incapace

di guardare la complessità.

Soprattutto ha bisogno di vedere il mostro fuori,

negli altri,

per non vedere e non riconoscere

il mostro che ha dentro,

che abita in lui.

 

Ha bisogno di sentirsi superiore,

immune da egoismi e paure.

E non si accorge che,

mentre dice di amare e avere compassione di alcuni,

in cuor suo sta profondamente odiando

o, quantomeno, disprezzando altri.

 

Il suo odio e il suo disprezzo sono esattamente speculari

a quelli di coloro che condanna con ardore

perché (egli dice) odiano e disprezzano gli altri.

 

Giovanni Lamagna

Superficialità, profondità e leggerezza.

16 agosto 2015

Superficialità, profondità e leggerezza.

Un amico mi pone la domanda: “La superficialità è sempre un difetto?” Provo a rispondere, perché mi pare una domanda molto intrigante.

Sì, per me la superficialità è sempre un difetto.

La superficialità, infatti, almeno nel senso letterale del termine, è il modo di essere di chi vive alla superficie delle cose, che è indubbiamente un aspetto della realtà (come la buccia della mela è una parte della mela), ma non è né l’unica né tutta la realtà (così come la buccia della mela non è tutta la mela).

Ora chi vive alla superficie delle cose (nel senso che vive alla giornata, così come viene, senza mai porsi domande sul senso delle cose, senza mai problematizzare la realtà: e ci sono persone che vivono così; non si tratta di giudicarle, si tratta di guardarle per come sono) si impedisce di conoscere la realtà nella sua complessità.

Ovviamente può farlo. E’ liberissimo di farlo. Non ci sarà nessun Dio che lo condannerà per questo. Né alcuno di noi, che non si riconosce in questo atteggiamento, avrà titolo a farlo.

Però si perderà molte delle cose buone e belle della vita. Per restare nella metafora, si accontenterà di mangiare solo la buccia della mela, senza mangiare tutta la mela.

E lo farà il più delle volte senza esserne cosciente. Perché questa è una delle caratteristiche della persona superficiale: che non è mai pienamente consapevole di sé e di quanto lo circonda. Vive come se fosse addormentata o in uno stato di semi-veglia.

Altra cosa è la leggerezza. Che è una caratteristica del tutto diversa dalla superficialità, anche se spesso (ma erroneamente) viene accostata o, addirittura, assimilata alla superficialità.

La leggerezza, infatti, è perfettamente compatibile con la profondità, che è invece l’opposto, l’antitesi della superficialità.

La leggerezza è il contrario della pesantezza (cioè della verbosità, della prolissità, della noiosità, dell’intellettualismo, dell’eccesso di razionalismo, dell’accademismo…) non della profondità (nelle sue varie forme: emotiva, affettiva, sentimentale, intellettuale, spirituale…).

Infatti, si può essere profondi e leggeri, pensosi e leggeri, seri e leggeri, addirittura tristi, addolorati e leggeri. Si può avere il senso del tragico e viverlo con leggerezza. Come ci spiega molto bene Italo Calvino nella prima delle sue “Lezioni americane”.

Mentre chi è superficiale non è leggero; è semplicemente frivolo, futile, banale, ripetitivo; e, in buona sostanza, noioso; spesso è narcisista, egocentrico, talvolta perfino egoista e cinico.

La superficialità è, dunque, per me sempre e comunque un difetto.

La leggerezza è, invece, all’opposto una vera e propria virtù. E beato chi la possiede!

Che si esprime, ad esempio, nell’allegria, nel senso dell’humor (che, come ci ricorda sempre Calvino, è altra cosa dalla comicità), nel senso della misura e delle proporzioni.

Purtroppo, non tutte le persone (pur magari dotate di altre qualità importanti, come la serietà, la cultura, la profondità…) ne sono dotate. E non si tratta di una piccola mancanza!

Per finire: non si può mettere a mio avviso (come invece alcuni sostengono) la superficialità sullo stesso piano della profondità (quasi fossero interscambiabili) e fare (per così dire) di tutte le erbe un fascio.

Infatti, chi va in profondità deve passare per forza di cose per la superficie; mentre non vale l’opposto.

Quando vado a mare, io posso farmi un bagno mantenendomi semplicemente alla superficie, senza scendere sott’acqua, né di poco né in profondità. Chi decide invece di immergersi in profondità deve per forza di cose passare per la superficie del mare.

Ovviamente io sono libero di fare la prima cosa senza fare la seconda. Ma mi perderò la seconda. Mentre chi farà la seconda godrà anche della prima.

Le due scelte, quindi, (a me pare, con tutta evidenza) non possono essere messe sullo stesso piano.

Giovanni Lamagna