Archivi Blog

L’uomo non è né angelo né diavolo, ma diavolo e angelo allo stesso tempo.

Freud, ne “Il disagio della civiltà” (1929), così scrive:

… l’uomo non è una creatura mansueta, bisognosa d’amore, capace, al massimo, di difendersi se viene attaccata; ma … occorre attribuire al suo corredo pulsionale anche una buona dose di aggressività.

Ne segue che egli vede nel prossimo non soltanto un eventuale aiuto e oggetto sessuale, ma anche un invito a sfogare su di lui la propria aggressività, a sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, ad abusarne sessualmente senza il suo consenso, a sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, ad umiliarlo, a farlo soffrire, a torturarlo e a ucciderlo.

Homo homini lupus: chi ha il coraggio di contestare quest’affermazione dopo tutte le esperienze della vita e della storia?

Questa crudele aggressività è di regola in attesa di una provocazione, oppure si mette al servizio di qualche altro scopo, che si sarebbe potuto raggiungere anche con mezzi più benigni.

In circostanze estreme che le sono propizie, quando le forze psichiche contrarie che ordinariamente la inibiscono cessano di operare, essa si manifesta anche spontaneamente e rivela nell’uomo una bestia selvaggia, alla quale è estraneo il rispetto per la propria specie.”

Vorrei commentare brevemente queste tesi freudiane.

Non certo per mettere in discussione che molte delle affermazioni sostenute qui da Freud corrispondano alla verità.

Ma solo per contestare che esse siano del tutto vere, l’unica verità sulla natura umana.

Io concordo che l’uomo non sia una creatura (solo o del tutto) mansueta: sarebbe certamente una falsità affermarlo.

Indubbiamente – come dice Freud – al suo corredo pulsionale appartiene (anche) una buona dose di aggressività.

Contesto, invece, che l’uomo sia solo un lupo in mezzo ad altri lupi (homo homini lupus), come sembra concludere Freud nel passo sopra citato, riprendendo una famosa tesi di Hobbes.

No, io – onestamente, proprio guardando alle esperienze della mia vita e alla storia, come ci invita a fare Freud – non riesco a condividere una tale tesi.

Che mi appare anch’essa estrema e unilaterale, come quella opposta e speculare dell’uomo naturalmente buono di – per citare un solo nome – Rousseau.

D’altra parte lo stesso Freud sembra (almeno in parte) contraddirla, quando riconosce che ordinariamente ci sono nell’uomo forze psichiche che inibiscono la sua aggressività, la quale esplode solo “in circostanze estreme”.

Questo mi porta a pensare: se esistono nell’uomo forze psichiche che normalmente inibiscono la sua aggressività, da qualche parte esse devono pur scaturire.

E da dove scaturirebbero, se esse non facessero parte intrinseca della sua natura?

La mia tesi, pertanto, è che l’uomo non sia né tutto buono, né tutto cattivo, né sempre mansueto come un agnellino, né sempre feroce come un lupo.

Ma costituisca un impasto complesso di mansuetudine e di aggressività, di amore e di odio, di tensione alla cooperazione, alla generosità e al rispetto per gli altri e, allo stesso tempo, di propensione alla competizione, allo sfruttamento, all’invidia e alla gelosia.

La constatazione che in alcuni uomini prevalgano nettamente la cattiveria e la malvagità (la Storia ce ne mostra indubbiamente infiniti esempi) non smentisce e non annulla il fatto che in altri uomini (la stessa Storia ce ne mostra altrettanto numerose testimonianze) prevalgano la bontà e la dedizione agli altri.

Ne deduco, in conclusione, che questo è l’Uomo: né angelo, né diavolo, ma angelo e diavolo allo stesso tempo!

© Giovanni Lamagna

Thomas Hobbes e la mia visione del mondo.

Voglio riportare qui alcune affermazioni, tra le più esemplificative, di Thomas Hobbes (1588-1679) per confrontarmi col suo pensiero e definire, anche grazie a questo confronto, chiaramente il mio di pensiero, sulle questioni da lui – nei passi citati – affrontate:

La condizione dell’uomo è una condizione di guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo. In questo caso, ognuno è governato dalla propria ragione e non c’è niente di cui egli può far uso che non possa essergli di aiuto nel preservare la sua vita contro i suoi nemici… Ne segue che in una tale condizione ogni uomo ha diritto ad ogni cosa, anche al corpo di un altro uomo.” (dal “Leviatano”; I, IV).

 “Vi è in primo luogo, come una inclinazione generale di tutta l’umanità, un desiderio perpetuo e senza tregua di un potere dopo l’altro che cessa solo nella morte.” (dal “Leviatano”; I, XI).

 “È vero che certe creature viventi, come le api e le formiche, vivono in società fra loro, e per questo sono da Aristotele annoverate fra le creature politiche, e tuttavia non hanno altra guida che quella del loro particolare giudizio o desiderio, non hanno la parola con la quale ognuna di esse possa indicare a un’altra ciò che ritiene di utilità comune per loro; di conseguenza qualcuno forse desidererà sapere perché l’umanità non possa fare allo stesso modo. Al che io rispondo: in primo luogo gli uomini sono in continua competizione per l’onore e la dignità, cose che quelle creature non conoscono nemmeno, e di conseguenza fra loro sorgono per questa ragione invidia e odio e infine guerre: fra quelle creature invece niente di tutto questo; in secondo luogo fra quelle creature il bene comune non differisce da quello privato, per cui essendo esse per natura spinte a cercare il loro bene privato procurano per ciò stesso il bene di tutti.” (dal “De cive”).

Molti studiosi hanno esaltato in passato ed esaltano ancora oggi il pensiero di questo filosofo britannico, considerato uno dei principali punti di riferimento del pensiero politico moderno, come esaltano quello di Machiavelli (1469-1527), col quale esso ha molte concordanze.

Io, invece, non riesco ad apprezzarlo profondamente, meno che mai a condividerlo.

La sua, infatti, mi appare una visione del tutto unilaterale e parziale dell’Umanità; apparentemente e fintamente aderente alla realtà, in realtà molto deformante della realtà.

Non ci sono dubbi che molti uomini sono come li descrive Hobbes; ma questo non vuol dire che tutti gli uomini lo siano.

Non è affatto vero, infatti, che tutti gli uomini desiderino “senza tregua… un potere dopo l’altro”.

Non è affatto vero che tutti gli uomini siano in “continua competizione”tra di loro.

Infatti, ci sono oggi e ci sono stati in passato tanti uomini e donne (la Storia ne è piena; io stesso ne ho conosciuti tanti e tante di persona) che non ambiscono affatto ad avere più potere; il fine della vita per loro non è il potere, ma altro, ben altro!

Come ci sono tanti uomini e donne che vivono in spirito di collaborazione e cooperazione (in certi casi perfino di solidarietà, amicizia ed amore) coi loro simili, senza alcuno spirito di prevaricazione o invidia o gelosia, meno che mai in un clima di odio o conflitto.

Hobbes vede e descrive solo una parte dell’Umanità, non vede e non descrive un’altra parte di umanità, che pure esiste e che, forse, è addirittura maggioritaria.

In ogni caso è quella che, nonostante tutto, da sempre tiene in piedi il mondo, impedendo che esso vada in rovina.

Perlomeno ha impedito finora che andasse in rovina.

La realtà non è solo quella che ha descritto Hobbes (“homo homini lupus”, in guerra continua l’uno con l’altro; il mondo come una giungla), ma anche quella di tanti uomini e donne che si vivono come fratelli, impegnati nella costruzione di comunità dove regna la pace e la cooperazione.

© Giovanni Lamagna

Tendenza alla cooperazione e tendenza alla competizione.

Che nell’uomo prevalga la tendenza alla cooperazione costruttiva, che è in lui, anziché quella alla competizione distruttiva, che pure è in lui (e che forse filogeneticamente viene prima dell’altra), conviene alla crescita e alla evoluzione positiva dell’’Umanità.

E, quindi, anche ad ogni singolo membro della compagine umana.

Anche se questo comporterà, come ci insegna Freud ne “Il disagio della civiltà”, il pagamento di costi (a volte anche molto elevati) in termini di sacrificio della propria vita pulsionale individuale.

Ogni uomo, quindi, fa/farebbe bene a coltivare la prima (la tendenza alla cooperazione) e a tenere a bada – limitandola, controllandola – la seconda (la tendenza alla competizione).

© Giovanni Lamagna

Alcune considerazioni sul Cristianesimo

Un amico mi scrive: “Secondo me, amare i propri nemici è una follia contro natura e uno dei motivi per cui il cristianesimo è in via di estinzione. Anzi il vero cristianesimo è già estinto da secoli. Quello che sopravvive è un cristianesimo fai-da-te e ipocrita.”

Qui di seguito la mia risposta.

Caro B., amare i propri nemici sarebbe contro natura, se nell’uomo ci fossero solo pulsioni che tendono alla competizione e alla sopraffazione, per cui all’invidia, all’aggressività, all’odio non si può che rispondere con altrettanto odio e aggressività; in altre parole se fosse vero che “occhio per occhio, dente per dente”.

Come forse ritieni tu. Ma – devo riconoscere – non sei certo il solo: nella storia ti hanno preceduto caterve di uomini di pensiero illustri, quali – per fare solo quattro nomi – Machiavelli, Hobbes e, per molti aspetti, Nietzsche e Freud.

Io, invece, penso (ma mi sento, a mia volta, in buona compagnia, con fior di altri illustri pensatori) che nell’uomo esistano indubbiamente le pulsioni (negative e distruttive) di cui sopra, ma esistano anche quelle (positive e costruttive) che tendono alla compassione, alla cooperazione e persino all’amore.

Il “vero cristianesimo” (come lo definisci tu) mirava a che le seconde superassero, annullassero o, quantomeno, integrassero le prime in ogni singolo uomo; perciò invitava, sollecitava, ad una vera e propria conversione del cuore.

E questo non è, certo, facile da realizzarsi, ma, almeno a mio avviso, non è neanche del tutto impossibile o, addirittura, una follia, perché radicalmente “contro natura”, come invece sostieni tu.

Il Cristianesimo, il vero Cristianesimo, si è estinto da tempo?

Questo è forse il tuo auspicio, ma a me (e, a dire il vero, non solo a me) non sembra affatto; del resto, quando sembra morto, il Cristianesimo rinasce dalle sue ceneri.

Intanto sono vive e ancora abbastanza vegete le Chiese, che, pur con tutte le loro infinite contraddizioni (e, in certi casi, persino misfatti; pensiamo agli ultimi, recenti, episodi venuti alla luce di pedofilia tra i preti), al Cristianesimo si richiamano.

Questo è, che ci piaccia o no, un dato storico inoppugnabile; ora, mi sai dire quali altre istituzioni, che abbiamo conosciuto nella Storia, sono state in grado di durare così a lungo nel tempo?

Ma soprattutto il Cristianesimo ha gettato un seme profondo, ritengo oramai indelebile, che vive nella coscienza morale di tanti, tantissimi, uomini di spirito, che ne hanno colto e si sforzano di praticare il suo messaggio essenziale.

Perfino uomini che non si sono riconosciuti ieri e non si riconoscono oggi nelle Chiese che al Cristianesimo facevano e fanno riferimento; perfino uomini (tra i quali metto immodestamente il sottoscritto) che si dichiarano non credenti, che non si riconoscono in nessuna fede religiosa.

Basti pensare a uno per tutti, a Benedetto Croce, che su questo argomento scrisse un piccolo saggio diventato poi famoso e spesso citato: “Non possiamo non dirci cristiani”; e lui non era certo un “uomo di fede”, almeno nel senso classico e tradizionale che ha assunto questa espressione.

© Giovanni Lamagna

L’essere umano e la dimensione religiosa della vita

Mi sto facendo sempre più convinto, con gli anni, che l’uomo senza una qualche forma di sensibilità e di pratica religiosa non possa stare bene, non possa vivere bene.

In altre parole, che la dimensione religiosa è strutturale, congenita all’essere umano. Così come il respirare, l’aver bisogno di cibo, del dormire.

Il bisogno religioso è dunque un bisogno fondamentale come gli altri bisogni. Ancora più del sesso, che in realtà non è manco un vero bisogno, ma qualcosa al confine tra bisogno e desiderio.

Per cui, a mio avviso, si può vivere (e anche abbastanza bene) senza sesso, mentre non si può vivere, perlomeno non si vive bene, senza soddisfare il bisogno religioso che alberga in ognuno di noi.

A questo punto però sento la necessità di chiarire bene cosa intendo io per bisogno religioso, per dimensione religiosa della vita.

Chiarisco in premessa: nulla che abbia a che fare necessariamente con l’adesione ad una determinata fede e ad una religione storicamente date. Anche se queste possono essere intese come risposte (alcune delle risposte possibili) al bisogno religioso, che – come dicevo prima – è connaturato all’uomo, nasce con lui.

Allora quali sono le caratteristiche (in positivo) del bisogno religioso?

Io direi che la prima caratteristica è data dal bisogno che ha l’uomo di trascendersi, di andare oltre il puro dato materiale dell’esistenza.

L’animale, oltre al bisogno di procurarsi da bere, del cibo, una tana o un nido (soprattutto per i suoi cuccioli), di accoppiarsi per riprodurre la sua specie, di giocare di tanto in tanto, di riposare e dormire il tempo necessario riprendere le forze, non ha altre ragioni per vivere. In altre parole possiamo dire che l’animale vive per sopravvivere.

L’uomo no. Le ragioni puramente biologiche che bastano agli altri animali, a lui non bastano. Egli ha bisogno di trovare un senso, di dare un senso alla sua vita. Ha bisogno dunque di andare oltre la pura sussistenza, oltre la dimensione puramente materiale della vita, ha bisogno dunque di trascendere la sua natura animale.

E che cosa può dare un senso e un significato alla vita dell’uomo, capaci di farlo trascendere, andare oltre il puro dato biologico?

Una prima risposta può essere questa: il successo, la fama, la gloria, il riconoscimento sociale, il potere.

Una seconda risposta è la ricchezza, la “roba”, l’accumulo e il possesso di quanti più beni materiali è possibile.

Questi fattori (il successo, la fama, il potere, il prestigio sociale, la ricchezza…) possono essere considerati a tutti gli effetti dei “valori”, cioè realtà a cui gli uomini (almeno alcuni uomini) danno grande valore Quindi in grado di fondare una vera e propria religione; una religione del tutto laica ovviamente, ma pur sempre una religione.

Religione da questo punto di vista è un qualsiasi orientamento esistenziale che si unifica, concentra attorno a dei valori fondamentali, che in una ipotetica gerarchia hanno più peso degli altri.

La religione del successo sociale e della ricchezza è una religione che assume come suo carattere fondante quello della competizione, anche esasperata, tra gli esseri umani.

Il mio successo, infatti, dipende dal tuo insuccesso, dalla tua sconfitta. Così la mia maggiore ricchezza dipende dal tuo impoverimento. Si potrebbe anche dire che questa è la religione dell’ “homo homini lupus” e del “mors tua vita mea”.

Questa religione, però, a pensarci bene non è molto diversa da quella che indubbiamente ad altri livelli e in altre forme, praticano anche gli animali. Anche tra gli animali, infatti, c’è quello che tende a prevalere sugli altri, ad accaparrarsi le femmine migliori e le porzioni di cibo più abbondanti. Anche tra gli animali insomma vige la “legge del più forte”.

La religione del successo e della ricchezza si situa quindi ad un livello basso della scala evolutiva dell’homo sapiens. E’ propria dell’homo sapiens, che si è ben poco trasceso rispetto ai primi ominidi da cui deriva per via evolutiva e in fondo anche dalle altre specie animali.

L’uomo, però, nel corso dei secoli, anzi dei millenni (non si capisce bene perché, però è questo un dato di fatto da registrare) ha sentito il bisogno di trascendersi ulteriormente, di passare da una religione fondata sui valori della lotta e della competizione ad una fondata sui valori della pace, della solidarietà, della compassione verso il più debole, della fraternità non solo verso i consanguinei che è propria di ogni specie animale, ma verso l’uomo in quanto uomo, cioè della fraternità universale…

In nome della consapevolezza che ciascuno di noi è parte di un Tutto e che, quindi, le varie parti del Tutto non possono stare bene (raggiungere il benessere spirituale, ma a volte anche quello fisico) se il bene dell’una parte va a scapito dell’altra.

In nome della consapevolezza, insomma, che la mia vita non solo non si oppone quella degli altri, ma anzi è profondamente connessa con la loro. Altro che “mors tua vita mea”! Secondo questa visione religiosa del mondo, dunque, “mors tua etiam mors mea”, mentre “vita tua etiam vita mea”.

Sono questi i valori (chi più e chi meno, coniugati in forme e modi diversi) che, non a caso, caratterizzano la maggior parte delle religioni che si sono affacciate nei vari punti del pianeta nel corso della Storia.

Ma sono ancora questi i valori che hanno caratterizzato le varie forme di religiosità laica che hanno caratterizzato alcune culture che abbiamo conosciuto, soprattutto in questi ultimi cinque/sei secoli: in modo particolare, l’Umanesimo, l’Illuminismo e il Socialismo.

Per coltivare tali valori, gli uomini hanno dovuto sviluppare quella che di solito si definisce “la vita interiore”. Che non è una vita altra e alternativa rispetto a quella bio-fisiologica, ma è una vita distinta, che non si riduce alla prima.

La vita interiore, che altro non è che la vita dello spirito, ha, infatti, bisogno, per essere coltivata, di alcune condizioni, potremmo dire anche pratiche o abitudini, così come la vita del corpo ha bisogno degli alimenti, del riparo dalle intemperie, del riposo e del sonno giornaliero e, quando si ammala, delle giuste medicine.

Quali sono le pratiche di cui ha bisogno la vita interiore? Ne elenco alcune e so di dimenticarne altre. Indico quelle che a me sembrano le più importanti. La vita interiore o spirituale che dir si voglia ha bisogno di:

-silenzio e raccoglimento, laddove l’uomo, che vota la sua vita al successo e all’accumulo di beni, preferisce il chiasso e lo stordimento del mondo esteriore;

– di letture, riflessioni, meditazione, perché la pratica di certi valori non è spontanea, ma abbisogna di un esercizio continuo che in qualche modo va contro gli impulsi spontanei e gli istinti;

– di riti individuali ma anche collettivi, che rafforzino il sentire comune e condiviso dei valori scelti a livello individuale.

Non a caso queste tre pratiche spirituali sono presenti in tutte le forme di religiosità che l’uomo ha finora conosciuto nella sua storia, perfino in quelle che non si riconoscono esplicitamente come espressione di religiosità, ma che per me in qualche modo comunque lo sono, anche se sono forme di religiosità del tutto laiche.

Per concludere e riepilogare, sono convinto che:

1) l’uomo non possa prescindere dal formarsi una sua visione del mondo, una sua weltanshaung, quindi una sua visione religiosa del mondo;

2) questa visione del mondo può essere fondamentalmente di due tipi: o competitiva o solidaristica;

3) la prima assicura (talvolta) un benessere immediato ed effimero, ma allo stesso modo (e più spesso) procura ansie e perfino angosce nel lungo periodo;

4) la seconda, invece, non garantisce il benessere immediato e materiale, ma assicura un benessere interiore di lungo respiro e molto superiore alla prima;

5) per operare secondo i principi di questa seconda visione del mondo, l’uomo ha bisogno di silenzio interiore, raccoglimento, meditazione, di riti individuali e, soprattutto, collettivi.

© Giovanni Lamagna

Il desiderio dei desideri

Qual è il cuore di tutti i nostri desideri, quello che potremmo chiamare “il desiderio dei desideri”?

A me sembra che il primo desiderio, la pulsione fondamentale (quella che vive, ad esempio, il bambino appena nato), siano quelli di ritornare nell’utero materno, di recuperare cioè la condizione di fusione totale (ed evidentemente di benessere e piacere assoluti) che era la vita intrauterina.

Questo desiderio naturalmente è del tutto impossibile da realizzare, innanzitutto per ovvie ragioni fisiche; e poi per ragioni di ordine psichico, di cui parlerò in seguito.

E allora il neonato lo soddisfa (anche se in maniera del tutto surrogatoria; o sublimatoria, per usare un aggettivo più vicino alla terminologia freudiana) ricercando un persistente contatto fisico con la mamma (vuole essere preso continuamente in braccio, carezzato, baciato…), ma soprattutto attraverso la suzione, l’atto cioè che continua a tenerlo legato alla madre, un po’ come il cordone ombelicale lo teneva legato alla madre durante i nove mesi di gravidanza.

Il desiderio fondamentale, quindi, è innanzitutto un desiderio di fusione; o, meglio, di recupero della primitiva fusione, quella intrauterina.

E’ un desiderio, perciò, destinato a rimanere definitivamente e, quindi, strutturalmente frustato: potrà essere soddisfatto solo attraverso atti e modalità surrogatori o di sublimazione pura.

La “Cosa” (per usare un termine lacaniano), cioè il ritorno nell’utero materno, sarà per sempre preclusa al bambino oramai nato; il suo godimento, quindi, non potrà mai più essere perfetto ed assoluto, soffrirà sempre, per una quota parte, di insoddisfazione, di frustrazione, di mancanza.

Qualche anno dopo (tra i tre e i sette anni) il bambino tornerà alla carica: il suo desiderio fondamentale questa volta si appunterà, focalizzerà sul genitore di sesso opposto, per conquistarlo come proprio partner privilegiato e toglierlo, strapparlo al genitore del suo stesso sesso.

Questo desiderio acquisterà connotazioni, sensazioni, vagamente sessuali, erotiche: il bambino comincerà ad avere una prima percezione di che cosa è il sesso.

Ovviamente molto vaga e generica, perché gli mancano ancora gli stimoli ormonali (che matureranno parecchio più tardi, durante la fase puberale) per poterlo sperimentare appieno, nella forma che Freud definirà “genitale”.

Ma anche in questa fase (la famosa “fase edipica”) tale desiderio sarà frustrato, gli sarà impedito, da quella che ancora Lacan chiama “la legge della castrazione”; ovviamente una castrazione del tutto simbolica, tanto è vero che coglie non solo il desiderio del bambino nei confronti della madre, ma anche il desiderio della bambina nei confronti del padre.

Il(la) bambino(a) sarà allora costretto(a) a comprendere (salvo insane eccezioni) che il suo desiderio è impossibile da realizzare, perché il genitore che egli (ella) desidera è già legato all’altro genitore e non ha nessuna intenzione di tradirlo per lui/lei.

Il genitore di sesso opposto diventerà, quindi, per lui/lei un vero e proprio rivale, verso il quale proverà (e spesso manifesterà) la tipica aggressività di chi si sente in competizione: una vera competizione erotica, per l’amore esclusivo dell’oggetto desiderato.

In entrambe le situazioni (quella immediatamente post natale e quella edipica), il(la) bambino(a) sperimenterà una frustrazione, cioè una limitazione, una impossibilità, che si porterà appresso (come una sorta di nostalgia e rimpianto) per tutto il resto della sua vita, anche da adulto.

Ma queste saranno anche le condizioni, i passaggi ineludibili, perché egli (ella) possa aprirsi al mondo, attraverso il contatto con altri oggetti di soddisfazione libidica (che non siano il corpo della madre) e attraverso l’incontro con altri soggetti d’amore (in questo caso altre persone, che non siano il genitore di sesso opposto).

L’atto fisico della nascita con il taglio del cordone ombelicale e l’atto di castrazione simbolica della fase edipica costituiscono, dunque, come delle potature che consentono alla pianta di crescere.

Essi procurano vere e proprie ferite, da cui l’adulto non guarirà mai del tutto, ma sono ferite necessarie, potremmo dire chirurgiche, terapeutiche, perché il(la) bambino(a) non vada incontro ad un male peggiore: il ripiegamento narcisistico all’indietro verso l’utero materno, il sogno incestuoso e allucinatorio dell’amore esclusivo per la madre.

In questo modo quello che il(la) bambino(a) perde in intensità di sensazioni, emozioni e sentimenti (perché tutti concentrati su un’unica figura: quella materna) lo guadagna in estensione e varietà.

Il fanciullo – non più bambino – e poi l’adolescente e poi l’adulto diventeranno, via, via, sempre più capaci (se il loro processo di crescita affettiva e psicologica seguirà un iter naturale, normale) di stabilire una pluralità di relazioni: prima solo familiari, poi amicali, quindi anche erotiche e sessuali.

E, tuttavia, non possiamo dimenticare, non lo dobbiamo rimuovere, che questa pulsione socializzante è pur sempre nient’altro che la trasformazione/sublimazione della prima/primitiva/originaria pulsione.

Tutti i desideri, che ciascuno di noi proverà prima da fanciullo e poi da adolescente e poi da adulto, sono figli e frutti evoluti del primo desiderio: quello di ritornare nell’utero materno.

Da questo punto di vista Freud ebbe un’intuizione giusta quando paragonò la cosiddetta esperienza mistica all’esperienza che il bambino prova nell’utero materno.

Gli sfuggì però che l’esperienza mistica non è pura nostalgia di quella e, meno che mai, semplice (anche se solo metaforico) ritorno ad essa.

Perché tutte le esperienze di socializzazione, non solo l’esperienza mistica, anche quelle che non sfociano nella mistica, nascono in fondo pur sempre da quella nostalgia, sono sue figlie naturali.

Eppure Freud (giustamente) non solo non le critica, ma, anzi, le ritiene l’esito di un percorso del tutto naturale e, quindi, sano e, perciò, auspicabile.

L’esperienza mistica è un’esperienza di apertura al mondo e agli altri non molto diversa, in senso qualitativo e strutturale, dalle altre esperienze di socializzazione; le porta solo alle loro estreme conseguenze: ne è quindi diversa solo sotto l’aspetto quantitativo.

Porta alle estreme conseguenze quella che è una naturale e comune esigenza, presente in tutti gli esseri umani sani, non pervertiti da qualche insana tendenza regressiva: l’esigenza di conoscere ed esplorare il mondo e quella di fraternizzare, sperimentare cioè sentimenti di amicizia e di amore con i propri simili.

L’esperienza mistica nasce da un’esigenza di apertura al mondo, che arriva a diventare esigenza, desiderio di fusione con il “Tutto” (uomini e cose), di sperimentare il cosiddetto “sentimento panico” o il “sentimento oceanico” di cui lo stesso Freud ebbe modo di discutere in un interessantissimo scambio epistolare con lo scrittore francese, di cui divenne amico, Romain Rolland.

Sentimento panico (od oceanico), che avrà pure delle analogie (come del resto, lo ripeto ancora, tutte le esperienze di socializzazione) con il desiderio di ritornare nell’utero materno, ma ne differisce profondamente per un dato fondamentale e sostanziale.

Il desiderio di tornare nell’utero materno si rivolge all’indietro, il sentimento panico si proietta in avanti, il primo fa regredire, involvere, impigrire, rattrappire la personalità di colui (colei) che ne resti preda/vittima, il secondo, invece, la fa progredire, evolvere, la attivizza, la espande.

In altre parole l’esperienza mistica, lungi dall’essere (così come la vedeva Freud), un‘esperienza di regressione alla vita infantile, è (almeno a mio avviso) la possibilità estrema, massima che viene offerta agli esseri umani di realizzare pienamente se stessi, entrando il più possibile in sintonia con l’Universo mondo, nei suoi molteplici aspetti: fisico-materiali, emotivo-affettivi, intellettuali; spirituali, a voler usare un termine che per me li sintetizza tutti.

© Giovanni Lamagna

Crisi dell’istituto matrimoniale e ipotesi alternative alla coppia monogamica.

Con gli anni e l’esperienza sono arrivato alla conclusione che il matrimonio sia da sempre (praticamente da quando esiste sulla faccia della terra) un’istituzione debole, precaria, checché ne dicano i borghesi benpensanti, perché limitativa delle risorse libidiche e relazionali che uomini e donne avrebbero la possibilità di mettere a frutto nella loro vita, se non esistessero divieti e censure sociali oramai ataviche.

Una istituzione, quella del matrimonio, che da sempre, anche nel suo lontano oltre che recente passato, ha manifestato crepe e contraddizioni piuttosto vistose.

Ma che negli ultimi decenni si sono ulteriormente allargate, fino ad esplodere in maniera eclatante e in forme che, a questo punto, impongono (e molti oramai l’hanno avviata) una seria riflessione sulla tenuta futura di una struttura relazionale e giuridica, che ancora oggi e con grande miopia viene da molti considerata addirittura la cellula base della società, senza realistiche alternative.

Due a mio avviso sono i fattori che segnalano e comprovano questa crisi, che per me è oramai irreversibile, arrivata ad un punto di non ritorno.

Crisi che, intendiamoci e sia detto tra parentesi, non è solo dell’istituto giuridico-formale del matrimonio, ma della stessa struttura sociopsicologica della coppia, anche quando non è sanzionata da un legame giuridico formale.

Il primo fattore: lo stato emotivo, affettivo, sessuale e spirituale in senso lato (caratterizzato nel migliore dei casi da una cameratesca amicizia, nel peggiore da una separazione di fatto) nel quale si riducono la maggior parte delle coppie (unite in matrimonio o anche solo realtà di fatto: qui la distinzione ha poca importanza), dopo un certo numero di anni di convivenza; anche coppie che si erano formate in seguito ad una forte attrazione reciproca e avevano vissuto, prima di mettersi a vivere assieme, una fase di intensa passione e di autentico innamoramento.

Il secondo fattore: i fenomeni frequentissimi di adulterio o, peggio, di ricorso alla pornografia e alla prostituzione (soprattutto da parte dei maschi, ma da qualche tempo il fenomeno, almeno in alcuni ambienti sociali, si sta estendendo anche alle femmine), che, salvaguardando in maniera solo formale, esteriore ed ipocrita, il “vincolo” della fedeltà, segnalano in maniera evidente l’insoddisfazione profonda, se non la vera e propria crisi del legame matrimoniale o della coppia di fatto.

Di qui la necessità di pensare e (perché no?) cominciare a sperimentare soluzioni alternative al profondo bisogno umano di rapporti affettivi e sessuali solidi e continuativi, che superino però i limiti e risolvano (almeno in parte) le contraddizioni, manifestate dall’istituto giuridico-formale del matrimonio e dalla stessa struttura informale della coppia di fatto.

L’alternativa, a mio avviso, sta in strutture relazionali che provino a dare soluzioni ai problemi evidenziati nelle diverse epoche storiche e nelle diverse società dal rapporto monogamico su cui si fonda il matrimonio.

Problemi che potremmo dire (ancora di più oggi, col senno del poi) si evidenziavano in maniera vistosa già nella radice etimologica del termine (mater: madre, genitrice+ munus: compito, dovere); come se nel matrimonio i doveri fossero essenzialmente della donna e il maschio potesse vantare soprattutto diritti; segno inequivocabile della genesi e quindi natura profondamente patriarcale di tale istituto giuridico.

Una coppia aperta, cioè un legame non più fondato sull’esclusività del rapporto, quindi sull’idea che l’altro/a sia una mia esclusiva proprietà (non a caso al matrimonio è collegato il concetto di patrimonio: da pater: padre, genitore + munus: dovere, compito), potrebbe già cominciare ad essere un embrione di alternativa al matrimonio.

Perché, a mio avviso, in primo luogo limiterebbe (se non addirittura estinguerebbe) il fenomeno (squallido) dell’adulterio, che già rappresenta in fondo un’apertura della coppia, che si realizza di fatto, ma nella clandestinità, con l’inganno del partner, e nella ipocrisia, con la salvaguardia solo formale ed apparente della fedeltà.

Il fenomeno dell’adulterio ha accompagnato sempre e su scala abbastanza estesa, in tutte le epoche e in tutti i contesti geografici, la storia del matrimonio: tutti lo sanno ma i più si ostinano a non volerlo riconoscere.

In secondo luogo, l’apertura della coppia ridarebbe vitalità ed energie sempre fresche e nuove ad un rapporto che col tempo tende fatalmente a diventare abitudinario e perciò monotono e noioso.

Gli ridà aria laddove i rapporti di coppia tendono ad essere (o a diventare) asfissianti. Impedisce che gli interessi sessuali, emotivo-affettivi, intellettuali, spirituali di una persona si concentrino (a volte in maniera ossessiva) su un solo partner e ne impediscano il necessario distanziamento e il benefico respiro.

Crea momenti di allontanamento momentanei che, se vissuti serenamente e senza ingiustificate angosce, rinfocolano il desiderio reciproco, laddove una vicinanza ininterrotta, esagerata, tende a indebolirlo e prima o poi a spegnerlo.

L’apertura della coppia introdurrebbe poi all’interno della relazione un fattore di sana e naturale competizione, che, lungi dal metterla in crisi, laddove i due coniugi fossero in grado di superare e di vincere i naturali sentimenti di gelosia e di possesso (come, a mio avviso, è possibile), la movimenterebbe e quindi la vivacizzerebbe, rinnovandola e dandole sempre nuovi stimoli, utili ad una sua evoluzione continua.

Un’altra struttura alternativa al matrimonio o alla coppia monogamica di fatto potrebbe essere la costituzione di piccole o grandi comunità promiscue (un tempo si chiamavano “comuni”), che avrebbero il vantaggio di garantire una certa stabilità/continuità e quindi profondità di rapporti affettivi (in qualche modo paragonabile a quella dei matrimoni) senza avere però il limite della monogamia, che è causa di ingiustificata repressione libidica e quindi di logoramento della coppia chiusa ed esclusiva.

So molto bene che la grandissima maggioranza di queste esperienze tentate in passato hanno avuto esiti disastrosi. Non hanno retto cioè alle dinamiche di competizione, soprattutto di gelosia e di possesso (sentimenti connaturati all’animo umano), che inevitabilmente insorgono prima o poi  anche in comunità nate con le migliori e più lodevoli intenzioni.

Questo, però, a mio avviso, non esclude che possano essere riprovate, risperimentate, magari traendo insegnamenti proprio dai limiti evidenziati dalle esperienze finite male.

In fondo la scienza (ma anche l’evoluzione storica) procede per tentativi ed errori. Perché ritenere allora il matrimonio (e, a maggior ragione, la coppia monogamica) realtà immutabili, eterne e del tutto irrealizzabili ipotesi di convivenza alternative?

© Giovanni Lamagna

Siamo sia angeli che demoni. Alla fine di questo tempo di corona virus saremo più angeli o più demoni?

Nel numero del 17 aprile 2020 de “il venerdì di Repubblica” è comparso un articolo, a firma di Alex Saragosa, dal titolo “Siamo buoni per natura (quasi come le formiche)”, nel quale vengono riportate (ovviamente in forma molto sintetica) le tesi di Edward Wilson, 91enne professore emerito ad Harvard e padre della sociobiologia, una disciplina che si colloca a metà fra la biologia e la sociologia, fra le scienze naturalistiche e quelle umanistiche.

Lo riporto quasi integralmente (con piccole modifiche) e quasi interamente, per poi utilizzarlo come (pre)testo per una riflessione su un tema che mi sta molto a cuore, uno dei temi classici della filosofia: l’uomo è prevalentemente buono o prevalentemente cattivo?

“Nel suo “Le origini profonde delle società umane” (Raffaello Cortina Editore), Wilson identifica sei tappe nell’evoluzione del mondo vivente, ognuna caratterizzata dall’apparizione di strutture di complessità superiore: si comincia (1) con la comparsa stessa della vita e si prosegue (2) con la formazione delle cellule eucariote, nate dalla fusione di più rudimentali cellule batteriche, (3) lo sviluppo del sesso, che crea nuovi individui mescolando il genoma di altri, (4) l’apparizione di esseri viventi multicellulari e poi (5) quella delle società animali.

Al vertice di queste società – spiega Wilson – ci sono quelle delle specie eusociali: qui gli individui sono disposti a sacrificare la riproduzione o persino la vita per il bene comune del gruppo a cui appartengono, come accade per termiti, formiche, api, ma anche per Homo sapiens, l’unica specie che abbia raggiunto anche la sesta tappa della complessità, lo sviluppo di un linguaggio simbolico astratto che consente un eccezionale coordinamento fra gli individui.

Questo primato, secondo Wilson, non ci deve però dare l’illusione di essere “speciali”: siamo, come tutti gli altri viventi, solo frutto di circostanze fortuite.

Il nostro successo deriva soprattutto dall’avere agili mani da primate, liberate poi dal camminare eretti, che ci hanno avvantaggiato nell’uso di oggetti su chi ha pinne, ali o artigli, e dall’aver ereditato il cervello di scimmie sociali, quindi già predisposto per la comunicazione e la decifrazione di emozioni e intenzioni altrui.

E’ con queste poche qualità che, circa cinque milioni di anni fa, abbiamo affrontato la savana, un ambiente ricco ma pericoloso, in cui la salvezza poteva venirci solo dall’agire collettivamente. Ciò ci ha spinto verso lo sviluppo ulteriore di comunicazione, solidarietà ed empatia, fino al sacrificio dei singoli a vantaggio del gruppo.

Nella savana abbiamo anche costruito i primi rifugi, dove alcuni badavano alla prole, e iniziato a usare il fuoco, che certo solo certi individui sapevano come gestire.

La presenza di un altruismo estremo, di un nido da difendere e di caste specializzate in certi compiti sono tutti segni di eusocialità” spiega Wilson.

Insomma i gruppi di ominidi, una volta nella savana, sono riusciti a sopravvivere solo diventando superorganismi sociali, come formicai o alveari, in grado di battere qualsiasi avversario e, con il tempo, hanno evoluto un linguaggio simbolico di gesti e suoni sempre più complesso, che ha consentito loro di mettere in comune anche le menti e, quindi, idee, ricordi e scenari futuri.

Ciò ha instaurato un circolo virtuoso fra crescente abilità nella caccia, più carne nella dieta, sviluppo di cervello e abilità cognitive, fino ad arrivare a Homo sapiens.

Uno scenario suggestivo, che però sembra avere un problema: noi non siamo insetti dall’altruismo geneticamente obbligato, possiamo scegliere se esserlo o meno. Se è l’eusocialità il segreto del nostro successo, come abbiamo fatto ad evitare la “trappola dell’altruismo” per cui, se in un gruppo ci sono altruisti ed egoisti, i secondi prosperano a spese dei primi, diffondendo di più i loro geni?

Questo è un punto molto dibattuto da decenni – risponde Wilson – La soluzione è arrivata con la teoria della selezione di gruppo, che in sintesi si può definire così: all’interno di un gruppo gli egoisti vincono, ma nella competizione fra gruppi vincono quelli con più altruisti.

In altre parole , la selezione individuale premia i più capaci ad accaparrarsi risorse e partner; ma se, come ci è accaduto nella savana, si ha bisogno di un gruppo solidale per sopravvivere, quelli con tanti egoisti dentro non ce la fanno, mentre quelli ricchi di altruisti prosperano, diffondendo, con gli scambi riproduttivi fra i gruppi, i geni della cooperazione e dell’empatia.

Con il tempo l’altruismo è diventato regola – premiare generosità e reciprocità accomuna tutte le società umane – con punizioni per chi non le rispetta. (…)

(…) Per Wilson è questo il punto chiave: è la contraddittoria “doppia selezione” a cui siamo stati sottoposti ad averci fatti diventare “sia angeli che demoni”.

Il dilemma del Bene e del Male è nato da questo contrasto.

La selezione individuale, che premia i singoli più capaci di riprodursi modellando istinti egoistici, è responsabile di buona parte di ciò che chiamiamo Peccato.

La selezione di gruppo, che premia le comunità più abili a sfruttare le risorse del territorio e modella istinti altruistici, è responsabile di buona parte di ciò che chiamiamo Virtù.

Il problema è che la virtù si esprime solo all’interno di ciò che consideriamo la nostra comunità: al di fuori tornano a dominare le pulsioni più egoistiche e distruttive.

Così, quando il gruppo è minacciato da un “nemico esterno”, contro di esso diventa ammissibile tutto ciò che puniamo all’interno del gruppo: omicidi, furti, stupri, torture.

Per evitarlo bisognerebbe riconoscere l’intera umanità come “nostro gruppo”, cosa intuita da varie filosofie e religioni.

Purtroppo la storia, con i suoi massacri, la cronaca – pensate agli scontri fra tifosi – e vari esperimenti psicologici dimostrano che amiamo tanto dividerci in comunità ristrette, separate da etnia, fede, ideologia, persino mode, e diffidenti delle altre.

Anche ai tempi di facebook e degli amici virtuali, il cerchio di quelli per cui ci sacrificheremmo resta limitato quanto quello di un cacciatore paleolitico, di cui in fondo abbiamo ancora geni e cervello.

In tempi in cui Homo sapiens decide dei destini della biosfera, superare il tribalismo è però questione di vita o di morte.

Sarebbe l’unico modo per trovare soluzioni globali a problemi globali come pandemie o cambiamento climatico, superando gli egoismi. Ma oramai dubito che ci riusciremo.

Sarebbe stato allora preferibile un’umanità-formicaio, con individui del tutto altruistici?

Forse, ma non avrei voluto viverci: è dalla spinta egoistica a migliorare la propria condizione che sono nate tante idee utili per tutti, mentre è dalla dualità bene/male che deriva gran parte della nostra produzione artistica.

Le formiche costruiscono città meravigliose, certo, ma non hanno uno Shakespeare che ne racconti i tormenti interiori.

…………………………………….

E adesso vorrei riportare le mie riflessioni nel merito delle affermazioni contenute nell’articolo.

1.La prima che mi viene è relativa al termine stesso “sociobiologia”, che mi piace molto, in quanto anche per me l’uomo (qualsiasi uomo, di qualsiasi contesto geografico e di qualsiasi epoca storica) è il frutto/risultato, la combinazione, sia di fattori genetici, biologici, sia di fattori ambientali, storico/culturali.

  1. Anche io penso che la caratteristica più tipica dell’homo sapiens, rispetto alle altre specie animali, sia il linguaggio. Tanto è vero che più è povero il suo linguaggio e tanto più l’essere umano si avvicina o si differenzia poco dalle altre specie animali.
  2. Concordo anche sul fatto che la necessità di affrontare i rischi di un ambiente esterno, ricco ma pericoloso, abbia stimolato nei primi ominidi lo spirito collaborativo. Anche se ritengo che non devono essere mancate anche a quell’epoca situazioni di conflitto e di aggressività all’interno dei gruppi ominidi.
  3. Ma sicuramente la tesi per me più interessante esposta da Wilson, alla quale vorrei dedicare la parte principale di questa mia riflessione, è quella della “doppia selezione”: la selezione che avviene all’interno dei gruppi e quella che avviene nella competizione tra i gruppi.

La prima favorisce gli “egoisti”: coloro che sanno appropriarsi della maggiore quantità di beni disponibili nell’ambiente e congiungersi alle donne più belle, più sane e più fertili.

La seconda favorisce gli “altruisti”, cioè coloro che hanno maggiore spirito collaborativo, che quindi sono più capaci di tenere il gruppo coeso, condizione questa necessaria per poter competere (e vincere) con gli altri gruppi.

Il dilemma del Bene e del Male è nato da questo contrasto”, dice Wilson. E, a mio avviso ha perfettamente ragione. La sua teoria fa giustizia delle opposte tesi che si sono succedute e contrastate nel corso della storia del pensiero filosofico.

Quelle secondo le quali (la minoranza di esse) l’uomo sarebbe fondamentalmente buono e virtuoso. E quelle secondo le quali (la maggioranza di esse) l’uomo sarebbe principalmente cattivo e vizioso.

A mio modesto modo di vedere (e mi fa piacere che le tesi di Wilson lo confermino), l’uomo non è né solamente buono, né solamente cattivo, ma è buono e cattivo, angelo e demone allo stesso tempo, un impasto di bontà/generosità e di cattiveria/egoismo.

In certe situazioni prevale – come giustamente nota la sociobiologia – la prima caratteristica: quando il gruppo, di cui l’individuo è parte, deve fronteggiare un nemico esterno, ad esempio un gruppo ostile o un pericolo naturale.

In altre situazioni prevale la seconda caratteristica, quando il rischio esterno è vissuto dal gruppo come remoto o del tutto assente.

Mi pare che alcune situazioni della nostra storia recente (mi riferisco in questo caso al periodo che va dalla fine della II guerra mondiale ai giorni nostri) lo confermino plasticamente. Ne cito solo alcune, ma se ne potrebbero credo riportare molte altre, anche di altri periodi storici.

La prima che mi viene in mente è quella che dal 1945 fino al 1989 ha visto competere due blocchi di paesi, raggruppati attorno a due grandi superpotenze: il blocco dei paesi del mondo occidentale, sotto l’egemonia imperiale degli Stati Uniti, e quello dei paesi dell’Est europeo e in parte anche dell’estremo oriente asiatico, sotto l’egemonia, altrettanto imperiale, dell’allora Unione Sovietica.

La forte e minacciosa competizione esistente tra questi due blocchi determinò in quella fase, all’interno di ciascuno di essi, un altrettanto forte (certo, non del tutto privo di contraddizioni e conflitti, per carità) spirito di solidarietà e di collaborazione.

Non a caso i decenni compresi tra il 1945 e il 1975 sono passati alla storia con la definizione di “trentennio glorioso” o di “compromesso aureo” tra il capitale e il lavoro, almeno nei paesi del blocco occidentale.

Ma analogo fenomeno, anche se con caratteristiche del tutto diverse, si verificò in fondo anche nel blocco opposto.

Ulteriore e molto significativa conferma (tra l’altro collegata alla prima) della teoria sociobiologica la possiamo avere dal fatto che – una volta crollato, imploso su se stesso, il blocco dei paesi dell’Est, imperniato sull’URSS – nei paesi occidentali, è venuto ben presto meno quello spirito solidale e collaborativo che li aveva caratterizzati nel primo trentennio postbellico, il cui massimo frutto era stato il “welfare-state”.

A sostituirlo è emerso un forte spirito individualistico e competitivo, espresso “magnificamente” e simbolicamente dall’affermazione del primo ministro britannico Margaret Thatcher “la società non esiste, esistono solo gli individui”.

Una volta scomparso il nemico esterno, si è affermato un pensiero unico ultraliberista (o neoliberista che dir si voglia) tutto basato sulla competizione estrema tra gli individui, tra i soggetti organizzati (ad esempio, tra padronato e sindacati), tra le nazioni, persino tra quelle omologhe ed affini per struttura socioeconomica, cultura, storia, organizzazione istituzionale-politica.

Sono entrati in crisi organismi sovranazionali quali l’ONU (l’Organizzazione delle Nazioni Unite), che è diventata poco più che un simulacro e, perfino, la stessa Comunità Europea.

Che (non a caso, a mio avviso) ha rinunciato al nome troppo impegnativo di Comunità per assumere quello molto più generico e vago di Unione, laddove di “unione” c’è ben poco, mentre vi prevale, appunto, una notevole competizione.

E’ quasi inutile qui evidenziare che in un tempo di mondializzazione sfrenata, come quello in cui ci troviamo attualmente, in cui il nostro pianeta sembra essere diventato un unico villaggio globale, di solidarietà se ne veda ben poca.

Si sono accorciate enormemente le distanze che fino a pochi decenni orsono separavano in maniera quasi incolmabile i popoli tra di loro, ma paradossalmente l’umanità sembra essere diventata una specie di giungla, dove ciascun uomo è lupo per l’altro uomo, dove quindi alcuni (pochi) vincono e altri (moltissimi) perdono, con un allargamento conseguente  della forbice delle disuguaglianze da far paura.

Cosa dobbiamo dedurre da questa brevissima e molto sommaria ricostruzione della storia di questi ultimi 70/75 anni? Che nella lotta, da sempre esistita, tra il Bene e il Male, tra l’Angelo e il Demone presenti nell’uomo, hanno, almeno per il momento, prevalso, se non vinto, se non proprio trionfato definitivamente, il Male e il Demone?

A giudicare dallo “stato presente” delle cose sembra di sì. E, a voler tener conto della teoria della “doppia selezione” di Wilson, sembra poter essere questo il risultato finale e definitivo della antica contesa.

Mancando, infatti, un “nemico” esterno ed essendo diventata l’Umanità un unico gruppo globalizzato, tutto sembra dirci che, al suo interno, prevarranno gli “istinti egoistici”, la tendenza cioè di individui e (piccoli o grandi) gruppi ad accaparrarsi (a danno di altri) quante più risorse possibili di quelle che mette a disposizione il nostro pianeta, diventato oramai un piccolo villaggio, per quanto globale.

A cominciare da una risorsa elementare e basilare quale l’acqua; e qualcuno già prevede per un prossimo futuro persino l’aria.

Questo potrebbe dar ragione al pensatore americano, Francis Fukuyama, che qualche anno fa profetizzò la fine della Storia. Nel senso della fine della dialettica tra opposti principi (bene e male) e opposti soggetti (sfruttati e sfruttatori), con la vittoria definitiva (dico io) dei secondi sui primi.

Se non è già così, sarà probabilmente così in un prossimo futuro. A meno che non si verifichino due scenari, che potrebbero ancora modificare questo esito, prima che esso diventi davvero finale e, soprattutto, irreversibile.

Il primo lo definirei apocalittico e molto poco desiderabile, anche se potrebbe in qualche modo anch’esso alimentare nuovamente la antica “doppia selezione” di cui parla la sociobiologia: quella tutta interna ai gruppi e quella tra gruppi e gruppi.

Il secondo potrebbe essere definito pre-apocalittico, ma, a differenza del primo, avrebbe quanto meno l’effetto di mobilitare le energie migliori dell’umanità, quelle che la sociobiologia definisce eusociali.

Il primo scenario potrebbe essere quello della ricostituzione di nuovi blocchi di potenze imperiali che si contrappongano nella lotta per l’egemonia globale sul pianeta.

Questo scenario non è affatto irrealistico, anzi è molto probabile che si realizzi (se non si è già realizzato), vista l’ascesa impetuosa e travolgente che ha avuto la Cina in questi ultimi due o tre decenni. Prossima oramai a contrastare da pari a pari l’egemonia degli Stati Uniti, in atto da almeno un secolo.

Se questa ascesa andrà avanti (come tutto lascia supporre), allora potrebbe succedere che, all’interno dei nuovi blocchi contrapposti che verrebbero a formarsi, riprenda vigore quello spirito cooperativo e solidaristico, che abbiamo visto si afferma quando è in atto una competizione tra gruppi ostili.

La non piena desiderabilità o la totale indesiderabilità di un tale scenario è dovuta al fatto che esso potrebbe sfociare prima o poi (come sempre è successo nella storia dell’Umanità) in un conflitto mondiale di portata ancora più devastante dei due già esplosi nel secolo scorso.

Probabilmente definitivo (questo sì!) per la vita dell’Umanità, perché non solo sarebbe di dimensioni globali (di gran lunga superiori a quelle dei primi due conflitti mondiali), ma anche perché vedrebbe il ricorso ad armi enormemente devastanti, in grado di distruggere forse la gran parte della vita (non solo umana) sul pianeta.

Il secondo scenario che ipotizzavo si potrebbe affermare in seguito al profilarsi di un pericolo o di più pericoli comuni, cioè condivisi dall’intero genere umano, al di là delle pur grandi differenze economiche, sociali, culturali, ideologiche, politiche, che oggi lo contraddistinguono.

In questo caso l’interesse a fronteggiare un pericolo o pericoli comuni potrebbe stimolare nel “gruppo globale Umanità” quei sentimenti solidaristici che sempre nella storia dell’uomo, fin dai tempi dei primi ominidi, si sono manifestati quando un determinato gruppo doveva fronteggiare un gruppo ostile o un problema esterno.

Quali potrebbero essere questi pericoli condivisi in grado di mobilitare le energie migliori dell’Umanità, i suoi sentimenti eusociali? Si possono fare già adesso delle ipotesi, delle supposizioni, delle proiezioni probabili in vista di un futuro più o meno prossimo, più o meno remoto? Certo! Se ne possono fare!

Uno, forse, lo stiamo già sperimentando in questi giorni. La pandemia del Covid 19 è un mostro che minaccia non un singolo popolo o un gruppo ristretto di popoli della Terra, ma tutti i popoli del pianeta, chi più e chi meno e però tutti indistintamente. Non ce n’è uno solo che possa dirsi al sicuro dalla sua minaccia.

Ecco allora che questo pericolo potrebbe costringere l’Umanità ad una cooperazione forzata, anche non voluta, anche non desiderata, ma alla quale essa si potrebbe vedere costretta, per non correre il rischio (mortale) di una estensione del contagio che danneggerebbe tutti i popoli della Terra e non solo alcuni a vantaggio di altri.

Il secondo pericolo è stato ampiamente segnalato dalla (gran parte della) comunità scientifica già da alcuni decenni: quello del surriscaldamento dell’atmosfera che circonda la Terra, in seguito alla forte emissione di gas (specie CO2) prodotti dall’uomo.

Tale surriscaldamento sta provocando, almeno da una decina d’anni a questa parte, vistosi cambiamenti climatici, che potrebbero entro pochi decenni apportare gravissimi e molto probabilmente irreversibili danni all’ecosistema che ha finora reso possibile la vita dell’uomo su questo pianeta.

Di questo allarme le istituzioni politiche nazionali e sovranazionali sono state tutte ampiamente avvertite. Non tutte però lo condividono allo stesso modo: anzi alcune – ad esempio, l’attuale amministrazione americana e quella brasiliana – non lo condividono per niente. Tutte indiscriminatamente, invece, chi più e chi meno, hanno fatto finora ben poco per porre rimedio al pericolo che incombe.

Da meno di due anni in qua, un po’ in tutto il mondo, (sotto l’impulso dell’attivismo di Greta Thumberg, una giovanissima ragazza svedese, che dall’agosto del 2018 ogni venerdì, ha iniziato a manifestare davanti al Parlamento del suo Paese, ponendo il problema del cambiamento climatico) è nato, dal basso e in modo del tutto spontaneo, un movimento, in prevalenza formato da giovani, denominato “Fridays for future”, che ha posto all’attenzione dell’opinione pubblica generale le questioni di cui sopra.

C’è realisticamente da sperare che questo movimento si estenda sempre di più, che lo imponga all’ordine del giorno delle agende politiche delle Istituzioni ai massimi livelli perché attuino misure all’altezza, che quindi un pericolo come questo, del cambiamento climatico, possa far sì che l’Umanità arrivi a sentirsi un corpo unico, minacciato dallo stesso e comune pericolo, e che questo la stimoli a sviluppare quegli elementi di solidarietà e di eusocialità, che negli ultimi decenni sono sempre più venuti a mancare?

Il professor Wilson sembra dubitarne: si dimostra piuttosto scettico e pessimista al riguardo. Io, invece, non ho del tutto perso la speranza e l’ottimismo. Almeno quello della volontà, se non quello della ragione.

Mi dico e dico agli altri, anche in questo articolo: se non altro bisogna provarci; almeno fino a quando ci saranno margini, pur minimi, per crederci ancora.

© Giovanni Lamagna