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Sofferenza.

C’è in giro molto più sofferenza (e anche una sofferenza parecchio profonda) di quanto non appaia ad uno sguardo superficiale.

Anche laddove meno te lo aspetteresti.

© Giovanni Lamagna

Una vita senza infamia e senza lode.

Ci si difende dalla luce accecante del sole abbassando lo sguardo o dal calore ustionante allontanandosi dalla sua fonte.

Allo stesso modo molti, forse i più, preferiscono evitare piaceri e gioie troppo intensi e accontentarsi di piaceri e gioie tiepidi e non troppo forti.

In questo modo optano per una vita senza infamia e senza lode, non particolarmente eccitante, ma indubbiamente meno rischiosa e più rassicurante.

© Giovanni Lamagna

Figli e nipoti.

L’esistenza-presenza di figli e (soprattutto) di nipoti è uno sguardo prolungato (per quanto illusorio) sull’aldilà, oltre l’orizzonte della propria vita.

E ciò costituisce in qualche modo una consolazione, per quanto effimera: la nostra vita proseguirà, in una qualche forma, anche dopo la nostra morte.

© Giovanni Lamagna

Lutto e nostalgia.

Giustamente Massimo Recalcati, nel suo “La luce delle stelle morte” (Feltrinelli, 2022) distingue il sentimento del lutto da quello della nostalgia; anche se questi due sentimenti hanno molte cose in comune.

Entrambi si riferiscono ad una perdita; il sentimento del lutto, però, ad una perdita recente, quello della nostalgia ad una perdita (più o meno) lontana nel tempo.

Il lutto ad una perdita che non è stata (appunto perché troppo recente) ancora elaborata.

La nostalgia ad una perdita che è stata oramai elaborata, assorbita, accettata, anche se non del tutto superata; come non lo sono mai del tutto le perdite, secondo Recalcati.

Il lutto, infatti, si riferisce ad una ferita ancora aperta, che sanguina ancora.

La nostalgia ad una ferita che oramai si è chiusa, cicatrizzata, ma che comunque ha lasciato un segno indelebile sulla pelle.

Il lutto vive di un dolore atroce, in certi casi disperato; nel lutto ci si sente mancare la terra sotto ai piedi; si può arrivare a provare la sensazione che niente abbia più senso, addirittura che non abbia più senso continuare a vivere.

La nostalgia è anch’essa accompagnata comunque da un dolore, ma un dolore che si è addolcito, che ha trovato consolazione, al termine di un tempo, di un processo, più o meno lungo, mai comunque troppo breve (dice sempre Recalcati), di elaborazione del lutto.

Con la nostalgia la perdita è vissuta ancora indubbiamente come una mancanza, ma una mancanza che il ricordo rende in qualche modo ancora – anzi di nuovo – presenza.

Il dolore della nostalgia non è più, dunque, un dolore disperato, ma è un dolore che ha ritrovato il senso e la voglia, nonostante tutto, di vivere.

Nel momento del lutto la vita di chi ha subito la perdita in qualche modo si blocca, si ripiega su stessa, ha lo sguardo tutto rivolto al passato, un passato estinto, che non tornerà mai più; il lutto è segnato dal pianto, dalle lacrime, spesso disperate.

Il sentimento della nostalgia, invece, è compatibile con la ripresa del fluire della vita, con la capacità di guardare in avanti, di sorridere al futuro, sia pure con lo sguardo velato dalla tristezza di chi – al pensiero della perdita della persona cara – continua (ancora e, forse, per sempre) a sentirne la mancanza.

© Giovanni Lamagna

Aguzzare lo sguardo.

Per vedere, cogliere l’essenziale nelle cose, bisogna aguzzare, affinare lo sguardo.

Per non farsi distrarre dai tanti particolari che lo attorniano; e, spesso, lo nascondono.

E questo vale per la vista di ciò che è fuori di noi.

Ma ancora di più per la vista di ciò che è dentro di noi.

© Giovanni Lamagna

Noi e gli altri.

Gli altri sono per noi come degli specchi, nei quali ci riflettiamo, nei quali ricerchiamo il nostro volto, quello nel quale identificarci.

I rapporti con gli altri, attraverso questo gioco di specchi, ci aiutano a trovare il nostro “vero” volto, a costruire la nostra identità.

Per questo, soprattutto da un certo momento in poi, in genere dalla fine dell’adolescenza, le persone che hanno un significato profondo per noi si assomigliano un po’ tutte: perché ci raccontano più o meno la stessa storia, ci rimandano più o meno lo stesso volto, quello nel quale ci riconosciamo e che ci dà sicurezza, stabilità.

Tendiamo, perciò, a sfuggire le persone che invece ci chiedono cose (valori, ideali, scelte, comportamenti, gesti, posture…) diverse, che alludono ad altre identità.

Tendiamo a sottrarci al loro sguardo, perché questo crea dentro di noi una divisione, un conflitto, che minacciano la nostra stabilità.

Ecco perché, a mio avviso, è molto vero il vecchio adagio “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”!

E questa è la prima “verità” che riguarda il nostro rapporto con gli altri.

La seconda “verità” è questa: non si può piacere a tutti, perché le persone sono diverse, in alcuni casi molto diverse.

Se piaci ad una che ha certi gusti, certe preferenze, un certo stile di vita, una certa visione del mondo, non puoi piacere ad altre che hanno gusti, preferenze, stili di vita, visioni del mondo diversi, a volte opposti.

I simili o gli affini si attraggono, legano tra di loro, così come gli opposti e i diversi si respingono, fanno attrito, scintille.

Succede poi (ed è questa la terza “verità”, forse la più importante delle tre) che a volte incontriamo persone che ci rimandano un’immagine “altra” da quella nella quale siamo soliti riconoscerci.

Un’immagine che non ci piace, che quantomeno ci turba, che non vorremmo (almeno a livello conscio) fosse la nostra.

A volte perché essa ci ripugna decisamente, contrasta con l’idea che ci siamo fatti di noi stessi e con quello che vorremmo essere.

Altre volte, invece, proprio perché – sotto, sotto – noi vorremmo che essa ci appartenesse, ci corrispondesse, almeno come aspirazione, come desiderio inconsci.

In questo caso gli altri ci propongono un’immagine che ci attira (almeno ad un livello inconscio), ma che non riusciamo, malgrado qualche tentativo fatto, a rendere nostra.

Allora, quasi per un riflesso condizionato, sia nell’uno che nell’altro caso, tendiamo ad allontanarci da queste persone, a sfuggire loro.

O a viverle come ostili e quindi con aggressività.

La verità ci fa male, si sa; e non tutti riescono a reggere il dolore che a volte essa ci procura.

© Giovanni Lamagna

L’atteggiamento contemplativo.

Quando qualcuno col dito ci indica la luna, alcuni di noi guardano il dito, alcuni altri la luna.

Ma c’è anche una terza possibilità: quella di guardare contemporaneamente il dito e la luna.

E’ questo l’atteggiamento contemplativo, che ci consente di guardare contemporaneamente il vicino e il lontano, l’insieme e i suoi particolari.

Di concentrarci sul presente, conservando il ricordo del passato e proiettando lo sguardo verso il futuro.

© Giovanni Lamagna

C’è un Altro dentro ognuno di noi.

Lo sguardo rivolto all’Altro da sé, il colloquio con l’Altro da sé, col nostro Maestro interiore, ci rendono ogni giorno più umili, più modesti, più attenti, più riflessivi, più pazienti, più pacati, più pensosi, più prudenti, più dolci, più teneri, meno drastici nei nostri giudizi…

Insomma tirano fuori il meglio di noi.

E’ questo, in fondo, non ne diverge granché, lo stesso atteggiamento dell’uomo in preghiera, di fronte al suo Dio.

Io preferisco dire di fronte al Mistero (grande, perciò lo scrivo con l’iniziale maiuscola) della vita.

© Giovanni Lamagna

La vita è solo sofferenza?

Io non concordo con il presupposto fondamentale del Buddhismo, il punto da cui parte e si dipana l’intero pensiero del Buddha; e cioè che la vita sia sofferenza.

Per me, al contrario di Buddha, la vita non è solo sofferenza, ma è anche piaceri, gioie, in certi momenti (e per alcuni fortunati) addirittura felicità.

Basta vedere lo sguardo di un bambino, della maggior parte dei bambini (perfino, a volte, di quelli nati e cresciuti nelle situazioni più infauste) per rendersene conto.

Certo non posso e non voglio mica negare che nel mondo ci sia tanta, anzi tantissima, sofferenza, sia a livello dei corpi che delle anime: sarebbe da sciocchi o, meglio, ciechi negarlo.

Quello che non accetto però è l’idea (per me esagerata e, quindi, infondata) che nel mondo ci sia SOLO sofferenza.

D’altra parte, se fosse veramente così, non capirei perché nell’uomo (almeno nella grande maggioranza degli uomini) ci sia tanta voglia di vivere, fosse anche solo voglia di sopravvivere.

Se la vita fosse solo (o anche soprattutto) sofferenza, non sarebbe più naturale che l’uomo desiderasse di morire piuttosto che vivere, che desiderasse di farla finita subito e prematuramente, anziché aspettare il tempo naturale della morte?

In altre parole, la mia visione del mondo, al contrario di quella buddhista, di quella di tante (se non la maggior parte delle) religioni e di alcuni filosofi radicalmente pessimisti (come, per fare solo due nomi, i primi che mi vengono in mente: Schopenhauer e Cioran) non è né pessimista né ottimista.

Perché vede, registra, prende atto che nel mondo ci sono sia il bello che il brutto, sia il vero che il falso, sia il bene che il male, sia il piacere che il dispiacere, sia la gioia che il dolore, in un impasto (misterioso) che fa della vita una lotta continua tra l’uno/a e l’altro/a; alla ricerca della migliore condizione fisica e spirituale possibile, del cosiddetto ben-essere.

Ad un unico male – almeno per ora –  non possiamo opporci, un unico nemico non possiamo – almeno al giorno d’oggi – pensare di sconfiggere definitivamente: la morte.

E questo – in linea teorica – può/potrebbe giustificare il pensiero pessimista radicale.

Ma – almeno a mio avviso – manco la realtà della morte lo giustifica pienamente.

Perché è vero che la morte connota il nostro orizzonte futuro di ombre lugubri e funeree, però è anche vero che manco il pensiero della morte, che prima o poi ci raggiungerà, riesce a rovinare (e, meno che mai, a cancellare) alcune esperienze emotive di piacere, di gioia e persino di felicità, che – in momenti più o meno frequenti e prolungati – pure attraversano e in certi casi addirittura riempiono la nostra vita, impedendoci di sprofondare (come sarebbe inevitabile, se essi fossero del tutto assenti) nell’abisso della depressione e della disperazione.

E questo è un dato di realtà manifesto, verificabile e accertabile di continuo e da parte di (quasi) tutti.

Come lo è la condizione di sofferenza che a volte attraversa e, in genere, chiude, conclude la nostra vita: penso ai dolori dell’agonia che ci conduce alla morte.

Che la vita, oltre che sofferenza, sia anche piaceri e gioie, non è vaneggiamento e illusione, ma un dato di realtà incontrovertibile!

© Giovanni Lamagna

L’uomo di mondo e il sapiente.

Chi cerca il “godimento senza limiti” (avrebbe detto Lacan) o la ricchezza, il potere, la fama, la gloria (ovvero “le cose del mondo”, avrebbe detto Gesù) è nemico mortale (non può non esserlo) di chi ricerca la “sapienza”.

Il quale, per sua natura, “odia”, disprezza, invece, tutte queste cose, ovverossia “le cose del mondo”, perché il suo pensiero, il suo sguardo, il suo desiderio sono proiettati oltre, verso altro; la sua vita è dedicata all’essere e non all’avere.

Ma perché il primo odia il secondo, perché lo vede come nemico da eliminare, mentre il secondo si può “limitare” ad “odiare” le cose che il primo ama con smisurata passione e a tenersene lontano, come cose che lo lasciano indifferente?

Perché il secondo (al di là delle sue stesse intenzioni) sgama il primo, lo rivela a se stesso, ne disvela la fatuità, la frivolezza, l’inganno, su cui si fonda la sua vita, gli fa scivolare via la maschera che normalmente gli copre il volto.

Il secondo può tollerare l’esistenza del primo, non se ne sente minacciato né turbato; non ne condivide certo lo stile di vita e le abitudini, ma non pretende di scuoterlo, di cambiarlo, tutt’al più lo compatisce per le sue contraddizioni.

Il primo, invece, non può tollerare l’esistenza del secondo, perché ne è infastidito, a volte inquietato, se ne sente messo in discussione; lo deve allontanare come si allontana un tafano (il riferimento a Socrate è, ovviamente, consapevole e voluto).

Deve cancellarlo dal suo orizzonte mentale, in certi casi addirittura eliminandolo fisicamente, per non subire il suo sguardo e il giudizio, che l’altro gli getta addosso, anche senza volerlo, anche senza proporselo, per il solo e semplice fatto di esistere.

© Giovanni Lamagna