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La gelosia si può educare.
Certo che gelosia, orgoglio ferito, delusione, rabbia fanno parte della natura umana; che in buona parte è simile a quella degli altri animali!
Ma l’uomo, a differenza degli altri animali, ha una coscienza e un’intelligenza che possono aiutarlo a divenire consapevole dei suoi impulsi e ad educarli, per non restarne prigioniero.
L’uomo – volendo – si può educare a non essere possessivo, a non considerare l’altro/a una sua proprietà; e, quindi, a non essere più geloso.
Tra l’altro io sento che, quando l’altro/a non ci appartiene mai del tutto e in qualche modo ci sfugge, si sviluppa in noi un’adrenalina, un’eccitazione, che appassisce, muore, quando egli/ella sono invece per noi troppo scontati.
Un rapporto in cui non c’è la presenza di un “terzo” (quantomeno immaginario, simbolico) tende a diventare fatalmente “incestuoso”, più fraterno e amicale, che passionale ed erotico.
Accettare questa presenza ha (può avere) due effetti: ci aiuta a diventare meno possessivi e gelosi nei confronti di un nostro “rivale” (potenziale o reale) ed alimenta il nostro desiderio nei confronti del “nostro” partner.
© Giovanni Lamagna
Quando la nostra rabbia ha radici lontane, molto lontane.
Quando stiamo male, spesso proviamo rabbia; e la prima cosa che facciamo è quella di prendercela con gli altri, di indirizzare la nostra rabbia contro gli altri.
In primis con quelli che abbiamo a tiro, che ci stanno più vicini.
Come se fosse (solo e in primis) colpa degli altri se stiamo male; e se, perciò, siamo arrabbiati; come se essi fossero la “causa prima” del nostro malessere.
Mentre in realtà non è così, non è oggettivamente così.
In realtà – se volessimo essere del tutto sinceri e radicalmente onesti – noi ce la dovremmo prendere (anche, anzi soprattutto) con noi stessi.
Perché nessuno ci impone di stare con le persone che abbiamo d’attorno.
Se ci stiamo, evidentemente è perché ne traiamo delle convenienze.
Solo che la rabbia ci annebbia la vista e ci fa vedere, invece, solo le cose negative e non anche quelle positive, che – nonostante tutto – ci fanno preferire la compagnia di alcuni a quella di altri e, a maggior ragione, alla totale solitudine.
Quando siamo arrabbiati dovremmo prendercela innanzitutto con noi stessi, che ci siamo infilati e messi in certe situazioni.
Comprese quelle che ci hanno portato ad avere rapporti (in certi casi, addirittura convivere) con le persone verso cui proviamo rabbia.
Tutt’al più, dunque, dovremmo prendercela con il nostro passato (specie con quello legato alla nostra infanzia) che ci ha reso così come siamo (per una grandissima percentuale) e ci ha portato pertanto a fare (spesso) scelte sbagliate, a stare con le persone e nei posti sbagliati, quelle a cui poi oggi (spesso) attribuiamo le ragioni della nostra rabbia.
Ma – anche qui – che senso ha prendersela con il passato, addirittura con le nostre radici, con la nostra infanzia?
Di questo passo dovremmo risalire addirittura ad Adamo ed Eva per trovare le cause e le origini del nostro malessere e, quindi, della nostra insofferenza.
Anche qui, forse, la cosa più conveniente (e saggia: sempre che ci teniamo a diventare minimamente saggi) è accettare il passato che ci trasciniamo appresso e, non dico farci pace, ma quantomeno imparare a conviverci.
Tanto quel passato 1) non lo possiamo più modificare e 2) non ne siamo noi i responsabili.
Nessun bambino è responsabile delle condizioni e dell’ambiente in cui è nato e cresciuto; del dolore vissuto e, quindi, della rabbia e, in certi casi, persino del rancore, accumulati negli anni della sua infanzia.
In conclusione: forse, questa presa di coscienza ci aiuterà (potrebbe aiutarci) a diventare un po’ più tolleranti e misericordiosi con noi stessi.
Ad essere meno arrabbiati con noi stessi; e, indirettamente, di conseguenza, anche con gli altri.
Specialmente con quelli che abbiamo maggiormente a tiro, coi quali spesso conviviamo, verso i quali nutriamo rancore per come sono e per come si comportano.
Non è cosa facile, sicuramente; di certo è più facile a dirsi che a farsi.
Ma che alternative abbiamo?
Tanto vale – quantomeno – provarci.
© Giovanni Lamagna
Concentrazione ed esercizio.
Una cosa è aderire razionalmente e perfino emotivamente ad una certa regola di vita.
Ad esempio, alla regola: non devo innervosirmi di fronte alle avversità della vita; devo riuscire a mantenere il più possibile la calma.
Oppure: non devo diventare violento, quando mi prende la rabbia.
Altra cosa è riuscire ad essere effettivamente calmo, pacato, riflessivo, nonviolento nelle situazioni reali.
Io posso essere sinceramente convinto che nella vita bisogna mantenersi sempre, il più possibile, calmi e nonviolenti; e non riuscire poi ad esserlo concretamente, nella pratica reale; o perlomeno non riuscire ad esserlo sempre, come vorrei.
In questo secondo caso è evidente che non basta condividere intellettualmente ed emotivamente una certa regola di vita; bisogna poi applicarla con tenacia e perseveranza.
Occorre che all’adesione intellettuale ed emotiva ad una certa regola si accompagnino poi una pratica e uno stile di vita; mi verrebbe di dire, un’ascesi.
Ovverossia una concentrazione ed un esercizio costanti; non bastano le emozioni e i sentimenti; e manco le scelte teoriche, intellettuali.
© Giovanni Lamagna
Tenerezza affettiva e passione erotica.
Freud afferma che la tenerezza affettiva e la passione erotica tendono ad escludersi nello stesso rapporto: quando c’è l’una non c’è l’altra; e viceversa.
Questo però, a mio avviso, succede quando la passione erotica non è condivisa nella stessa forma e misura dai due partner in un rapporto.
Quando, invece, è condivisa, la passione erotica non solo non esclude la tenerezza affettiva ma la esalta all’ennesima potenza.
Dopo una grande “scopata” si è naturalmente, istintivamente, grati, ri-conoscenti verso il proprio partner; e la gratitudine, la ri-conoscenza generano tenerezza.
Al contrario, quando il nostro o i nostri desideri vengono respinti, si prova rabbia verso il proprio partner; e la rabbia genera aggressività: l’esatto contrario della tenerezza.
© Giovanni Lamagna
Le ragioni della rabbia.
La rabbia non è mai immotivata.
Se c’è, vuol dire che ha delle ragioni, delle motivazioni: è tautologico.
Non è, dunque, questo il punto in discussione.
Il punto su cui si può (e si deve) discutere è se le motivazioni dichiarate della rabbia (quelle dichiarate da colui che prova rabbia) siano quelle che veramente provocano la sua rabbia.
Molte volte, infatti, le ragioni della rabbia sono inconsce, sconosciute anche a noi stessi, e non consce, consapevoli.
© Giovanni Lamagna
L’uomo di pace (2).
L’uomo di pace non è colui che non prova mai rabbia o aggressività o sete di vendetta.
Ma è colui che è capace di controllare la sua aggressività, domare la sua sete di vendetta e trasformare la sua rabbia.
Non è facile essere uomo di pace; ma non è neanche impossibile.
Come dimostrano gli uomini di pace che, nonostante i venti contrari, hanno attraversato la storia del mondo.
© Giovanni Lamagna
E’ più antico l’odio o l’amore?
“L’odio (…) è più antico dell’amore”, come sostiene Freud (“Pulsioni e desideri”; in OSF; vol. 8, p. 34)?
Non ne sono sicuro. Non sono sicuro, insomma, che l’odio venga prima dell’amore.
A mio avviso, non c’è un prima e un dopo. Preferisco pensare che odio e amore nascano insieme, si intreccino e avviluppino sempre, formino un impasto indistinto e indissolubile.
Per cui non c’è amore senza una qualche dose di odio. E non c’è odio senza una qualche dose di amore.
Certo, è un dato di fatto che il bambino, ogni bambino, appena nasce, piange. A volte in maniera disperata. E questo ci dice che sta male, che soffre.
E perché sta male, perché soffre?
In assenza di problematiche organiche oggettive (qualche malattia, qualche malformazione…), bisogna supporre che pianga essenzialmente perché è stato tolto da un ambiente in cui stava bene ed è stato gettato in un ambiente che vive come ostile.
Perché è stato separato dal corpo della madre, che per nove lunghi mesi egli aveva percepito come il suo stesso corpo. Ha vissuto, quindi, il parto come un taglio, come una separazione, anzi una “separtizione”, per dirla con Lacan.
Di conseguenza suppongo che il pianto del bambino esprima anche la sua rabbia e, forse, persino il suo odio. Innanzitutto verso la madre, che lo ha espulso, separato da sé.
Concordo perciò che l’odio sia un sentimento primigenio, primordiale, che nasce con l’uomo.
E, però, quali sentimenti avrà provato il bambino nei nove mesi in cui era ospite nell’utero materno, era anzi un tutt’uno con il corpo della madre?
Dobbiamo supporre che, nei nove mesi di vita intrauterina, egli abbia sperimentato (se non in pochi casi singolarmente sfortunati ed infelici) soprattutto sentimenti di amore nei confronti della madre.
Dobbiamo dedurne allora che l’amore è un sentimento che nasce quantomeno contemporaneo all’odio, se non addirittura prima dell’odio.+
Lo conferma, tra l’altro, il fatto che il bambino che piange appena nato, nel momento stesso in cui viene rimesso in braccio alla madre o sulla sua pancia, smette immediatamente di piangere. Come se tornasse a far pace con la madre che lo ha appena partorito, cioè separato da sé.
Queste supposizioni (che però forse sono qualcosa in più di semplici supposizioni) confermano allora la mia tesi iniziale, che se non contraddice in tutto quella di Freud (e del resto non voleva né intendeva contraddirla), la rettifica almeno in parte.
© Giovanni Lamagna