Archivi Blog

Non tutti quelli che vi aspirano sono predisposti, adatti a diventare psicoterapeuti.

In un colloquio del 21 novembre 1958 Carl Gustav Jung così riferisce alla sua collaboratrice Aniela Jaffé, che ne ha raccolto le parole:

Ho una capacità immediata di immedesimarmi negli altri, cosicché mi posso identificare con “n’importe qui”. Riesco a sentirmi, per così dire, sulla sua lunghezza d’onda. Mi sono sempre meravigliato che altre persone non riescano a farlo, e ho pensato che ciò sia dovuto a una mancanza di fantasia. Oppure che siano troppo rigidamente imprigionate nella propria linea personale.

A volte mi spavento nel vedere con quanta immediatezza io riesca a entrare nelle sensazioni vissute da altri esseri umani. Mi ci trovo semplicemente dentro, senza far nulla attivamente al riguardo. Io so poi esattamente quali sentimenti provino gli altri, soprattutto coloro che presentano qualche aspetto difficile da comprendere. Ne osservo magari l’andatura. Imito dentro di me il modo in cui camminano o come muovono le mani, e in questo modo scopro quali sentimenti si instaurino in me.

Un appellativo del Buddha, Tathagata, significa letteralmente “colui che così va”: colui che si muove in modo molto caratteristico. Questa è proprio l’espressione che indica l’individualità specifica di ciascuno. Il modo in cui uno cammina è molto peculiare. È essenzialmente la situazione umorale del momento che viene espressa nell’andatura; e questo mi colpisce a livello subliminale.

Dato che sono sufficientemente sicuro di me, posso lasciarmi andare a tali identificazioni; so di poterne uscire di nuovo. Io mi identifico con l’altro e lo riconosco, ma la cosa non riesce a sopraffarmi. Lei potrebbe restarne sommersa e ne sarebbe danneggiata; io invece ne riemergo come da un’onda di risacca.

(da Aniela Jaffé; “In dialogo con Carl Gustav Jung”; Bollati Boringhieri 2023; p. 149-150)

……………………………………………..

In questo scritto viene fuori una straordinaria dote umana di Jung, di cui egli parla con molta semplicità e naturalezza, senza alcuna presunzione, ma, allo stesso tempo, con grande lucidità e consapevolezza: la capacità (possiamo anche dire innata) di leggere nel cuore degli altri, di intuirne stati d’animo e problematiche.

In altre parole l’empatia, termine oggi molto usato, forse persino abusato; dal momento che pochi poi in realtà la posseggono; come lo stesso Jung, maliziosamente, tra le righe sembra lasciare intendere.

Qui la prima riflessione che mi viene da fare è questa: non è l’empatia una dote/qualità che tutti gli psicoterapeuti dovrebbero possedere, in partenza, ancora prima di iniziare i loro studi e il loro percorso di formazione?

A cosa potranno, infatti, servirgli le nozioni apprese a scuola prima e all’Università poi e i corsi di formazione specialistica successivi, se ad un futuro psicoterapeuta manca questa dote/qualità di base, fondamentale?

Seconda riflessione: quanti psicoterapeuti, con tanto di laurea e corsi di specializzazione postlaurea, posseggono (anche solo a livelli ordinari) la qualità empatica di cui parla qui Jung e che lui aveva in maniera straordinaria e, forse, come dote innata?

A mio avviso, anzi a mia conoscenza, ben pochi!

Terza riflessione: non tutti sono adatti a fare gli psicoterapeuti; come non tutti – lo dico en passant – sono adatti a fare gli insegnanti; ci vogliono doti umane naturali e in un certo senso innate, che ben difficilmente si possono acquisire con lo studio e con la formazione; anche con le migliori intenzioni e con la migliore disposizione della volontà.

Lo studio e la formazione le possono affinare, arricchire, ma non le possono generare, creare, se esse non ci sono, in qualche modo e misura, già in partenza.

Non basta, dunque, desiderare o aspirare a fare lo psicoterapeuta o l’insegnante; bisogna esservi anche in qualche modo naturalmente predisposti.

© Giovanni Lamagna

Saggezza, vita spirituale e ricchezze.

Nel suo libro “I quattro maestri” (Garzanti, 2020), Vito Mancuso afferma che “un rapporto libero con il cibo, con l’alloggio e in genere con la dimensione materiale della vita appare come una condizione essenziale per il conseguimento della saggezza e della profonda felicità che ne deriva.”

E questo vale per ciascuno dei quattro maestri che sono i protagonisti del suo libro: Socrate, Buddha, Confucio e Gesù.

Gesù si distingue, però, dagli altri tre, perché oltre a farsi, come loro, portatore di un messaggio di sobrietà e di distacco ascetico dai beni materiali in nome del superiore valore dei beni spirituali, predica, anzi tuona, duramente contro la ricchezza, perfino contro i ricchi; cosa che gli altri tre, invece, non fecero mai.

Sono famose alcune sue affermazioni e invettive: “E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio.” (Marco, 10, 25); “Guai a voi, ricchi!” (Luca, 6, 24).

Né Socrate, né Buddha, né Confucio ebbero – a detta di Mancuso – una tale concezione della ricchezza e lo stesso atteggiamento duro, sanzionatorio, di Gesù nei confronti dei ricchi.

E Mancuso, anche se non lo dice espressamente, sembra preferire la posizione meno radicale nei confronti della ricchezza e per niente dura nei confronti della persona dei ricchi, che ebbero Socrate, Buddha e Confucio.

Io, invece, opto per il radicalismo di Gesù. E non credo per moralismo o per una malcelata invidia nei confronti delle proprietà materiali dei ricchi.

Mi sono esaminato sotto questo aspetto e credo di poter dire che non sono il moralismo e l’invidia a farmi condividere il radicalismo e persino la durezza di giudizio di Gesù.

E’ piuttosto l’esperienza e l’osservazione della realtà che vedo attorno a me che mi porta ad affermare che ricchezza e vita spirituale sono incompatibili: non ho mai visto, infatti, un ricco, oserei dire addirittura che non ho mai visto un benestante, cioè una persona che ha un tenore di vita che va oltre la media, condurre una vera, profonda vita spirituale.

La ricchezza e, perfino, un eccessivo benessere materiale sono un ostacolo oggettivo (avrebbe detto Marx: “strutturale”) alla pratica di un’autentica, seria, profonda vita spirituale.

Realtà che trova conferma in un’altra affermazione attribuita a Gesù: “… là dove sono le tue ricchezze, lì sarà anche il tuo cuore.” (Luca, 12, 21).

Chi ha delle ricchezze materiali ha, infatti e direi inevitabilmente, lì il suo cuore. E, quindi, non ha spazio per altre ricchezze, le ricchezze spirituali.

Chi fa la scelta della vita spirituale, di dare cioè realmente il primato ai beni spirituali, come prima cosa lascia, se ne possiede, le sue ricchezze, si spoglia di esse.

Come, infatti e non a caso, Gesù suggerisce al giovane ricco: “Se vuoi essere perfetto, va, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi”. (Matteo; 19, 21).

Ma – prosegue lo stesso versetto del Vangelo di Matteo – “Udito questo, il giovane se ne andò triste; poiché aveva molte ricchezze”.

Che è l’esatta, esistenziale, esperienziale, conferma di come ricchezza materiale e vita spirituale, ascetica, mistica siano del tutto incompatibili tra di loro.

© Giovanni Lamagna

Il filosofo e il mistico nei confronti degli affetti familiari.

Nel suo libro “I quattro maestri” (Garzanti; 2020) Vito Mancuso illustra e valuta il rapporto che Socrate, Buddha, Confucio e Gesù avevano con i loro parenti e con l’istituzione “famiglia” in generale.

E, in estrema sintesi, afferma che l’unico ad avere un buon rapporto con i suoi parenti ed un’alta considerazione dell’istituto familiare era Confucio.

Per Confucio la costruzione di buoni rapporti sociali, la concretizzazione di quel “senso di umanità” che era il fine più alto e la sintesi del suo insegnamento, doveva cominciare dalla famiglia: il padre doveva essere un buon padre e i figli dei bravi figli.

Degli altri tre maestri il più vicino a Confucio – per Mancuso – può essere considerato Socrate, che ebbe una regolare famiglia, anche se un rapporto molto difficile e conflittuale con la moglie Santippe, e non parlò mai contro l’istituto familiare.

Bisogna però dire che per Socrate non era certo la famiglia il cuore dei suoi interessi e perfino dei suoi affetti.

Egli, infatti, trascorreva la maggior parte del suo tempo per le vie e le piazze della polis ateniese e probabilmente teneva, sul piano affettivo e, forse, perfino erotico, molto di più ai suoi allievi che ai suoi figli e a sua moglie.

Ancora più radicale e antistituzionale è il rapporto che ebbero Buddha e Gesù coi loro familiari e con l’idea stessa di parentela e di famiglia.

Buddha a circa 30 anni lasciò la moglie e il figlio e si dedicò ad una vita totalmente spirituale, mistica e contemplativa; radunando attorno a sé una comunità di discepoli decisi a seguire la sua stessa via, che costituirono a questo punto la sua nuova e vera famiglia.

Quello che Buddha e, per alcuni aspetti, anche Socrate fecero nei fatti, Gesù non solo lo praticò in modo molto radicale, ma lo teorizzò perfino.

Ci sono molte affermazioni di Gesù che ci descrivono il suo distacco/separazione dalla sua famiglia di origine e che di questo distacco/separazione indicano, professano, la necessità, come una delle condizioni base, per mettersi alla sua sequela, per dedicarsi cioè alla missione di annuncio dell’imminente avvento del regno di Dio.

Due affermazioni in modo particolare ci dicono di questa sorta di “disamore” di Gesù per i suoi familiari e di (quasi) disprezzo nei confronti dell’istituto familiare, in nome di un amore e di una comunità di intenti e di affetti più grandi.

La prima: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e persino la sua propria vita, non può essere mio discepolo.” (Luca, 14, 26).

La seconda: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”, riferendosi a Maria e ai suoi fratelli di sangue; che viene così completata da Gesù: “Ecco mia madre e i miei fratelli!” (Marco; 3; 33-34), riferendosi a coloro che ascoltavano la sua parola.

Vito Mancuso, tra i due atteggiamenti, quello di Confucio e (in parte) di Socrate e quello di Gesù e (in parte) di Buddha, propende per quello di Confucio e di Socrate, ritenendolo (lo dico a parole mie) più equilibrato, meno fanatico e, quindi, più sano.

Io, invece, pur respingendo ogni estremismo e (ancora di più) ogni fanatismo, per la mia formazione culturale ed umana, propendo di più per l’atteggiamento di Buddha e di Gesù.

Non perché ritenga che, per abbracciare una vita dedita alla filosofia e alla mistica, sia necessario rinunciare alla famiglia come anche agli amori ed agli affetti (in questo senso respingo ogni estremismo e fanatismo), ma perché pure io ritengo che prima degli affetti di sangue e di ogni altro amore debba venire l’amore per la Sapienza.

Perlomeno l’amore per la Sapienza deve venire prima di ogni altro amore in chi intenda abbracciare una vita dedita alla via filosofica o alla via mistica.; che, tra l’altro per me, sono due vie contigue, molto affini.

Contigue e affini non fosse altro che per la radicalità che deve (o, meglio, dovrebbe) a mio avviso caratterizzare il pensiero e la vita sia dei filosofi che dei mistici; se aspirano ad essere dei veri filosofi e dei veri mistici.

In altre parole sono memore e ben consapevole di quanto affermò Aristotele di se stesso: “Amicus Plato, sed magis amica veritas” (“Platone mi è amico, ma più amica mi è la verità”).

Consapevole, come lo fu Aristotele, che non si può davvero amare se non si è (almeno un po’) sapienti, non si possono amare gli uomini, se non si ama prima la Sapienza.

E Aristotele non era certo un estremista e, tantomeno, un fanatico; ma un uomo molto mite e saggio; per giunta un grande filosofo (“amante della Sapienza”); anzi sicuramente uno dei più grandi filosofi comparsi fino ad oggi sulla faccia della terra.

© Giovanni Lamagna

Gesù e Buddha: entrambi pessimisti allo stesso modo?

Nell’ultimo capitolo del suo libro “I quattro maestri” (Garzanti, 2020) Vito Mancuso accosta Gesù a Buddha e Socrate a Confucio; i primi sarebbero portatori di una visione della vita fondamentalmente amara e pessimista, i secondi di una visione dolce ed ottimistica.

Sono d’accordo con la gran parte delle cose che afferma Mancuso in questo libro, che – sia detto per inciso – è molto bello, ma su quest’ultima sua affermazione esprimo forte dissenso.

Mancuso prende in considerazione l’obiezione che Gesù, “a differenza del Buddha, amava festeggiare e che quindi trovava la vita tutt’altro che amara, come appare dal Vangelo in cui si legge che veniva accusato di concedersi un po’ troppo ai piaceri della vita” (pg. 442).

E, però, a tale obiezione Mancuso risponde che “la partecipazione di Gesù a tali banchetti…, ben lungi dall’essergli congeniale, faceva parte della sua strategia missionaria tesa a recuperare coloro che sentiva maggiormente in pericolo di fronte all’arrivo imminente del regno di Dio” (pg. 442).

Io non credo sia così.

Certo, anche io ritengo che Gesù non avesse nulla dell’edonista. Il fatto che partecipasse a feste e banchetti non me lo fa immaginare certo come un crapulone e, meno che mai, come un dissoluto.

E, però, la mia impressione, a giudicare dal quadro complessivo che ne viene fuori dai Vangeli, è che egli comunque fosse un amante della vita, delle sue gioie e dei suoi piccoli e grandi piaceri.

Si concedeva, infatti, momenti di riposo, di conversazione con i suoi discepoli, che considerava i suoi amici più intimi, si prendeva lunghe pause di preghiera, immagino non certo angosciosa, ma ristoratrice e pacificatrice; a parte l’ultima, quella dell’orto del Getsemani, a poche ore dal suo arresto e dalla crocifissione, quando era diventato consapevole della condanna a morte imminente.

Oltretutto, ancora poche ore prima della notte dolorosa trascorsa nel Getsemani, aveva organizzato un’ultima cena, quasi di commiato dai suoi più vicini seguaci.

Che senso avrebbe avuto questa cena, se fosse vero quanto affermato da Mancuso; dal momento che i suoi discepoli non avevano certo bisogno di essere convertiti?

E’ del tutto evidente, quindi, che la sua partecipazione a banchetti simili non aveva nulla di strumentale, ma era del tutto congeniale alla sua indole, mite, dolce e socievole.

Sì, è vera anche la seconda affermazione di Mancuso, e cioè che Gesù considerava imminente la venuta del regno di Dio.

Ma, a mio avviso, la venuta del regno di Dio, per quanto da lui auspicata, oltre che profetizzata, non significava affatto per lui il superamento di un regno, di un mondo, di una vita, fatti solo di brutture, di angosce e di sofferenza; come è nel caso del Nirvana buddhista.

No, il nuovo regno di cui parla Gesù è l’avvento di “cieli nuovi e terre nuove”, che non negheranno o cancelleranno i cieli vecchi e le terre vecchie, ma semmai li esalteranno al loro meglio, eliminandone solo le brutture e le ingiustizie e salvaguardandone le bellezze e la bontà.

Tanto è vero che… “Il lupo abiterà con l’agnello, e il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello, il leoncello e il bestiame ingrassato staranno assieme, e un bambino li condurrà. La vacca pascolerà con l’orsa, i loro piccoli si sdraieranno assieme, e il leone mangerà il foraggio come il bue. Il lattante giocherà sul nido della vipera, e il bambino divezzato stenderà la mano nella buca del serpente.”, secondo le parole del profeta Isaia (11, 6- 8).

No, non riesco a vederlo Gesù affiancato a Buddha.

Gesù amava la vita: ne ha dato cento testimonianze; egli sognava e profetizzava un mondo altro, ma non disprezzava questo mondo.

Altrimenti, per fare solo alcuni esempi, non avrebbe pianto di fronte alla morte di alcuni amici, non avrebbe compiuto il “miracolo di risuscitarli” e non avrebbe supplicato il Padre di allontanare da lui il “calice amaro” che gli si stava apprestando.

Per Buddha la vita è essenzialmente sofferenza e la rinuncia ai desideri, ovverossia a ciò che rende la vita degna di essere vissuta, è l’unica via per uscire dalla sofferenza.

Cosa ha a che fare una tale filosofia nichilista con il modo di pensare di Gesù, che, pur con tutte le sue contraddizioni, è fondamentalmente gioioso e amante della vita?

© Giovanni Lamagna

Su Confucio.

Ho letto con molto interesse le pagine che Vito Mancuso, nel suo “I quattro maestri” (Garzanti, 2020), dedica a Confucio. Che cosa ne ho ricavato?

Innanzitutto un’impressione di carattere generale: mi pare che Confucio non sia e non possa essere messo al livello degli altri tre grandi maestri (Socrate, Buddha e Gesù), cui Mancuso nel libro dedica altrettante monografie di un centinaio di pagine ciascuna.

Socrate, Buddha e Gesù hanno, infatti, detto, tutti e tre, parole che sono diventate pietre miliari nella storia del pensiero umano; quelle pronunciate da Confucio sono parole in molti casi di buon senso, ma non mi pare particolarmente illuminanti.

La testimonianza umana, in altre parole l’insegnamento di vita, di Socrate, Buddha e Gesù sono stati di radicale rottura con il modo ordinario di vivere dei loro contemporanei, tanto è vero che il primo e il terzo li hanno addirittura pagati col prezzo della vita.

Confucio, per carità, pure lui propugna un’ideale di vita e se ne fa testimone, credo fedele, integerrimo. Ma si muove, anche per scelta intellettuale e quindi consapevole, del tutto all’interno della tradizione del popolo cinese, senza operare rotture, anzi esaltandone la continuità.

Potremmo, dunque, con buone ragioni sostenere che Socrate, Buddha e Gesù rientrano, ognuno per ragioni diverse, nella categoria dei “rivoluzionari” o, quantomeno, dei sovvertitori del pensiero comune e ordinario.

Confucio pure lui fa una distinzione tra “uomo ordinario” ed “uomo nobile”, ma per lui l’uomo nobile è colui che, lungi dal volerle sovvertire, è perfettamente rispettoso delle tradizioni; Confucio, in altre parole, rientra nella categoria dei “conservatori”.

In ogni caso anche Confucio può essere considerato un uomo di grande spiritualità. L’uomo nobile, infatti, per lui si caratterizza non tanto per il casato e per il lignaggio, quanto per la “sensibilità umana”.

L’uomo dunque per lui non “nasce” nobile, ma “diventa” nobile nella misura in cui si educa a quello che egli definisce “il senso di umanità”, rispettoso della natura e degli altri suoi simili.

La seconda caratteristica dell’insegnamento di Confucio, che lo contraddistingue particolarmente rispetto a quello degli altri tre maestri di cui parla Mancuso, è che per lui vita interiore, disciplina spirituale, e vita esteriore, azione politica, camminano di pari passo.

La prima si manifesta nella seconda, la seconda rende esplicita e traduce all’esterno la prima. La seconda non ci sarebbe, non sarebbe possibile senza la prima. Ma anche la prima non avrebbe senso senza la seconda e quindi non può farne a meno.

Confucio è, quindi, un Maestro nell’arte della politica. Da prendere ad esempio, se per politica si intende la traduzione nella vita comunitaria e sociale dell’armonia che l’uomo spirituale si è costruita dentro.

Da non imitare (almeno a mio avviso) se per politica si intende un rispetto esagerato per le tradizioni e i rituali antichi e, soprattutto, per l’obbedienza, non dico acritica, ma comunque mai seriamente messa in discussione, nei confronti dell’autorità costituita.

© Giovanni Lamagna

Perché non sono buddhista?

Ad un certo punto del suo interessantissimo libro “I quattro maestri” (Garzanti; 2020) – dedicato a Socrate, Buddha, Confucio e Gesù – Vito Mancuso si pone la seguente domanda: perché non sono buddhista?

Qui me la pongo anch’io e quella che segue è la mia risposta; che non è molto diversa nella sostanza da quella che si dà Mancuso, seppure con qualche differenza e aggiunta.

La ragione principale per cui non mi sento buddhista è che tra le due categorie fondamentali nelle quali si dividono (a voler fare quella che è ovviamente una estrema e grossolana semplificazione) i vari pensatori che si sono susseguiti nella storia, quella dei “pessimisti” e quella degli “ottimisti”, Buddha si inserisce a pieno titolo nella prima.

Mentre io non mi riconosco né nell’una né nell’altra, mi situo tutto sommato a metà strada tra l’una e l’altra, forse un po’ più vicino ai secondi che ai primi; quindi abbastanza lontano dalla posizione nella quale, anche se in maniera molto rozza e schematica, possiamo collocare Buddha.

Sono perfettamente consapevole, come ho già evidenziato in altre occasioni, che il pensiero di Buddha presenta alcune, anzi parecchie, ambiguità che ne giustificano (almeno in parte) letture diverse e persino opposte; le letture che ne danno, ad esempio, l’attuale Dalai Lama e Thich Nhat Hanh ne evidenziano il versante positivo ed ottimistico.

E, tuttavia, ci sono alcuni passaggi decisivi dell’insegnamento di colui che resta comunque un grande Maestro, che a me (come del resto a Mancuso, dal cui pensiero traggo conforto e conferma) sembrano inconfutabili, per identificarne il segno, l’anima per me fondamentalmente negativi e pessimisti.

Uno in modo particolare, tratto dal “Dhammapada” (153-154; pag. 51) e citato non a caso da Mancuso: “Per vite innumerevoli ho vagato cercando invano il costruttore della mia sofferenza. Ma ora ti ho trovato, costruttore di nulla da oggi in poi. Le tue assi sono state rimosse e spezzata la trave di colmo. Il desiderio è tutto spento; il mio cuore, unito all’increato.”

Qui Buddha afferma con molta chiarezza tre tesi fondamentali: 1) che la vita è principalmente sofferenza; 2) che la radice della sofferenza sta nel desiderio; 3) che, dunque, si supera la sofferenza nel momento in cui si spegne il desiderio.

Con queste tre affermazioni il pensiero del Buddha si inserisce a pieno titolo tra i sistemi di pensiero “negativi”, nel senso di pessimistici, dell’Umanità.

Per me (come per Mancuso) nessuna di queste tre affermazioni è condivisibile; o, perlomeno nessuna delle tre è pienamente e totalmente condivisibile.

Innanzitutto, per me non è affatto vero che la vita sia solo e neanche principalmente sofferenza; la vita è anche sofferenza (e chi potrebbe negarlo?), ma non è solo, né principalmente sofferenza; la vita è (o almeno può essere) anche piaceri, gioie e, in certi momenti, addirittura felicità.

In secondo luogo, non è vero che la radice della sofferenza sia il desiderio. Anzi, io penso che proprio l’assenza di desiderio, lo spegnimento di ogni desiderio, sia la ragione principale della sofferenza. Come può essere, infatti, definita la depressione in termini psichiatrici, se non come una malattia del desiderio? come lo spegnimento totale e radicale del desiderio, dei desideri?

Infine, il desiderio, anzi i desideri, sono il motore dell’esistenza. Senza desideri la nostra stessa energia vitale si spegnerebbe, andremmo incontro alla morte, altro che alla fine delle sofferenze! Che vita sarebbe, infatti, una vita senza desideri?

Sarebbe una vita già morta prima del tempo; che è forse quello che perseguiva il Buddha (per unirsi all’increato, diventare in altre parole materia inerte); ma non è certo quello che auspico e perseguo io.

Altra cosa è sostenere che anche il desiderio, quando non è contenuto, quando è senza limiti, quando diventa spasmodico e ossessivo, quando è aspirazione al godimento infinito, può essere causa di sofferenza e, persino, di morte: su questo sono (anche sulla base della lezione di Lacan) pienamente d’accordo.

Ma una cosa è affermare “il Desiderio deve presupporre la Legge”, la legge del limite, anche nell’interesse del desiderio stesso e della sua migliore soddisfazione (come sostiene, appunto, Lacan), altra cosa è affermare, come purtroppo fa il Buddha (e come del resto fanno anche molte esperienze ascetiche di altre religioni, comprese quelle occidentali), che il desiderio (ogni desiderio) va represso, anzi spento alla radice.

Da queste due affermazioni derivano due scuole di pensiero e, soprattutto, discendono due pratiche di vita completamente diverse, anzi opposte. La prima punta, come dice Mancuso, non al compimento dell’umanità, ma al suo superamento, anche quando l’umanità fosse buona.

La seconda si propone di realizzare al massimo le potenzialità insite in ogni essere umano, attraverso la incarnazione dei tre massimi valori di cui l’uomo è capace: il vero, il bello e il buono; lungi dal voler superare l’umanità, la vuole anzi espandere, sviluppare ai suoi massimi livelli.

Io mi riconosco senza ombra di dubbio nella seconda scuola di pensiero e pratica di vita. Per questo non mi sento e non posso sentirmi buddhista. Nonostante ne condivida molti aspetti del pensiero e della concezione filosofica che lo caratterizza.

© Giovanni Lamagna

I concetti di “Dio” e di “anima” nel pensiero buddhista.

Dopo aver affermato e, quindi, riconosciuto che il Buddhismo nega sia il concetto di Dio che quello di anima, Vito Mancuso, nel suo “I quattro maestri” (Garzanti; 2020), tra la pag. 194 e la pag. 203, cerca di recuperare entrambi i concetti, come dimensioni di pensiero sostanzialmente, anche se non esplicitamente, presenti nel Buddhismo,

Ma in questo modo, almeno a mio avviso, egli non rende un buon servigio (come, invece, molto probabilmente, era nelle sue intenzioni) al Buddhismo stesso, almeno come pensiero in qualche modo compatibile con l’evoluzione (prevalente) del pensiero filosofico (occidentale) degli ultimi 4/5 secoli.

Cosa dice Mancuso rispetto al concetto di Dio? Egli parte dall’assunto che, quando si parla di Dio, “si intende rimandare a un livello dell’essere diverso rispetto a quello della vita ordinaria, ritenuto più vero, più giusto, più stabile, permanente e non impermanente, pace infinita e non lotta continua.”

E poi aggiunge: “… parlando di Dio si intende anche affermare che questo livello più vero dell’essere, pur essendo totalmente altro, è altresì fortemente intrecciato con il nostro livello dell’essere, così che è possibile accedervi qui e ora, entrarvi in comunione, sperimentarlo, viverne. E’ quanto il Buddha sperimentò con l’esperienza del nirvana…”

Per, infine, concludere, in buona sostanza, che quindi il concetto di “divino” non è affatto estraneo, ma pienamente presente, per quanto solo sottinteso, nel pensiero buddhista.

Qui, almeno in questo passaggio, Mancuso si dimostra un cattivo filosofo, perché identifica, fa coincidere termini ed esperienze diverse, confondendo i concetti, invece di chiarirli.

Innanzitutto fa coincidere il concetto di “divino” con il concetto di “Dio”; mentre i due concetti non coincidono affatto; il “divino” non è “Dio”; perlomeno non è il Dio trascendente, separato da questo mondo, creatore e non creato, eterno, infinito e onnisciente, come lo intende la gran parte delle tradizioni religiose del mondo.

In secondo luogo l’esperienza del “nirvana”, come la descrive il Buddha, è appunto un’esperienza etica, meditativa, ascetica, contemplativa, mistica, ma pur sempre un’esperienza umana, quindi un’esperienza che può essere analizzata con gli strumenti e descritta coi termini della psicologia.

Un’esperienza che potremmo anche definire, in senso lato e metaforico, esperienza del “divino”, ma di un divino che “è qui, ora, in questo mondo; è questo mondo diversamente sperimentato”; non è certo l’esperienza di un mondo altro, diverso, separato, da quello nel quale ora viviamo.

Ora cosa ha a che fare questa esperienza con il concetto di “Dio” classicamente inteso, come ce lo hanno trasmesso le maggiori tradizioni religiose del mondo e perfino la maggioranza delle filosofie dei primi due millenni di storia di questa disciplina di pensiero? A mio avviso, nulla; anzi le è del tutto incompatibile.

Più complesso si fa il discorso relativamente all’anima, sia relativamente a quello che fa Buddha che a quello che fa Mancuso.

Perché, mentre nei confronti dell’esistenza o meno di Dio, – dice Mancuso – “Buddha sospese il giudizio con il suo silenzio, sul concetto di anima egli prese esplicitamente posizione parlando di non-anima, anatman, negò cioè la realtà dell’anima (in sanscrito atman) per affermare piuttosto l’assenza di un sé individuale e permanente. Per il Buddha infatti l’individuo è soltanto un insieme di aggregati impermanenti e il più delle volte ricolmi di sofferenza…”.

Qui manifesto subito il mio accordo con Buddha e, allo stesso tempo, il mio dissenso da lui.

Sono sostanzialmente d’accordo con lui sul fatto che l’individuo, come del resto ogni altra realtà singolare, anche quelle esclusivamente materiali (come, ad esempio, una pietra) siano realtà “impermanenti”, destinate cioè ad avere un inizio e una fine, quindi a non durare in eterno.

Non sono d’accordo, invece, con lui sul fatto che le varie realtà, specie quelle non esclusivamente materiali (come, ad esempio, una psiche umana) non abbiano “un sé individuale”, che non si confonda con altre realtà individuali (ad esempio, una pietra), almeno per la fase in cui l’insieme di aggregati che la costituisce si mantiene unito, compatto, potremmo anche dire in vita.

Non sono inoltre d’accordo con Buddha sul fatto che ciò che caratterizza le varie realtà individuali, singolari, sia soprattutto, se non esclusivamente, la sofferenza; perché ciò contrasta – a quanto mi consta – con il sentimento diffuso e prevalente della gran parte di esse o, almeno, di quelle umane.

Non sono, infatti, in grado di dire se una roccia o un fiore o un cane siano felici o almeno contenti di stare al mondo.

Ma sono bene in grado di affermare che la maggior parte degli uomini sono contenti di essere venuti al mondo e ci vogliono restare il più a lungo possibile, anche se questo loro stare al mondo non è esente da dolori fisici e sofferenze psichiche; altrimenti avrebbero la possibilità e troverebbero il modo di dargli volontariamente un termine.

Vengo, dunque, al discorso (molto singolare, a mio avviso!) che fa Mancuso sul tema dell’anima.

Egli da un lato concorda sul fatto che quella che Buddha chiama “mente” (citta) e che lui (Mancuso) definisce come “centro di volizione personale” o “coscienza” o “io psichico” sia destinata a perire, allo stesso modo del corpo, dall’altro afferma che non “finisce tutto” con la morte. Anzi attribuisce anche a Buddha questo suo pensiero.

Il suo ragionamento francamente mi pare che si arrampichi sugli specchi; proverò a dimostrare perché.

In primis si chiede: che cosa intendiamo concretamente con il concetto di “anima spirituale”? E si dà la seguente risposta, che articola su tre punti fondamentali:

“1) l’esperienza dell’esistenza di un centro di volizione personale detto anche libero arbitrio, capace di intendere e di volere, e che si esprime principalmente nella consapevolezza e nell’intenzione;

2) l’esperienza della possibilità di connessione con l’essere eterno, il livello più vero della realtà, la verità, fino alla possibilità di esserne parte;

3) l’esperienza dell’esistenza di un principio di continuità personale che garantisce la possibilità della conservazione del lavoro spirituale svolto e dell’energia morale accumulata.”

Secondo Mancuso “il Buddha, pur negando l’esistenza dell’anima a livello concettuale, riconobbe pienamente le (tre) esperienze fondamentali che ne sono alla base.”

Proverò, allora, ad entrare nel merito dei tre ragionamenti fondamentali di Mancuso e a distinguere gli argomenti sui quali concordo da quelli sui quali dissento, perché mi appaiono incongrui.

1.Buddha “nega l’esistenza di un sé separato ma sottolinea con molta forza la volizione autonoma in prima persona singolare, la prima delle tre esperienze veicolate dal concetto di anima, ovvero la capacità di volere coscientemente e responsabilmente…”.

Buddha, infatti, “insistette sempre sul fatto che il lavoro di liberazione dalla ruota dell’esistenza tramite la ruota del Dharma debba essere compiuto dal singolo individuo e che nessun altro lo possa compiere al suo posto, non essendoci spazio per gli interventi soprannaturali…

Le ultime parole attribuitegli richiamano esattamente lo sforzo personale “Continuate a esercitarvi, instancabilmente”, a rimarcare nel modo più netto la centralità della volontà personale.”. E fin qui concordo con Mancuso.

2. Non concordo affatto, invece, con la seconda affermazione che fa – tra l’altro molto sbrigativamente, dandola quasi per scontata sul piano logico-teoretico – Mancuso relativamente al concetto di “anima”: la possibilità per questa “di connessione con l’essere eterno fino alla possibilità di esserne parte”.

In questo caso Mancuso opera quello che a me sembra un vero e proprio salto logico: perché, infatti, il riconoscimento della realtà che egli chiama “anima” dovrebbe implicare automaticamente la possibilità di entrare a far parte dell’essere eterno?

E, inoltre, su quali basi si dimostra l’esistenza di un “essere eterno”, almeno nel senso in cui lo intende Mancuso, nel senso cioè in cui comunemente qui in Occidente si intende “Dio”? Su questo argomento mi sono già soffermato in precedenza e quindi non ci ritorno sopra.

3. Anch’io concordo sulla tesi dell’anima come “continuità personale” dell’individuo. In precedenza l’ho già sostenuta e avvalorata. Concordo anche sul fatto che il buddhismo implicitamente, anche se non esplicitamente, la riconosca. Questo però cosa significa: che l’anima individuale è destinata a sopravvivere al corpo che l’ha ospitata fin quando questo è rimasto in vita?

Anche qui mi trovo davanti a un salto logico, che non sono disposto a fare.

Per me è legittimo affermare l’esistenza di una realtà psichica individuale e sono anche disposto a chiamarla, per convenzione terminologica, “anima”. Non sono disposto, però, a parlare di immortalità dell’anima. Il fatto che lo faccia il Dalai Lama attualmente vivente non è per me argomento sufficiente a favore di tale tesi.

Certo, il buddhismo afferma la teoria delle “rinascite successive”! Ma, come riconosce lo stesso Mancuso, secondo questa teoria ciò che trasmigra in altre vite non è l’individuo, non è la sua “anima immortale, quanto piuttosto l’operato dell’individuo, l’influenza e il carico morale delle sue azioni”.

Di cui io colgo l’inconfutabile nucleo di verità: ognuno di noi lascia, soprattutto alle persone che più gli sono state vicine e alle generazioni successive, l’eredità di un insegnamento e di una testimonianza personali, nella loro eventuale valenza positiva come in quella eventualmente negativa.

Ma questo cosa ha a che fare con la teoria dell’immortalità dell’anima? Nulla!

Almeno sotto questo punto di vista a me pare, dunque, che il Buddhismo si dimostri come sistema di pensiero molto più “laico” e, soprattutto, più teoreticamente rigoroso di Vito Mancuso; le cui riflessioni sono comunque per me molto stimolanti e quindi degne di tutta la mia stima e il mio apprezzamento, anche quando non le condivido o le condivido solo in parte.

© Giovanni Lamagna

La vita è solo sofferenza?

Io non concordo con il presupposto fondamentale del Buddhismo, il punto da cui parte e si dipana l’intero pensiero del Buddha; e cioè che la vita sia sofferenza.

Per me, al contrario di Buddha, la vita non è solo sofferenza, ma è anche piaceri, gioie, in certi momenti (e per alcuni fortunati) addirittura felicità.

Basta vedere lo sguardo di un bambino, della maggior parte dei bambini (perfino, a volte, di quelli nati e cresciuti nelle situazioni più infauste) per rendersene conto.

Certo non posso e non voglio mica negare che nel mondo ci sia tanta, anzi tantissima, sofferenza, sia a livello dei corpi che delle anime: sarebbe da sciocchi o, meglio, ciechi negarlo.

Quello che non accetto però è l’idea (per me esagerata e, quindi, infondata) che nel mondo ci sia SOLO sofferenza.

D’altra parte, se fosse veramente così, non capirei perché nell’uomo (almeno nella grande maggioranza degli uomini) ci sia tanta voglia di vivere, fosse anche solo voglia di sopravvivere.

Se la vita fosse solo (o anche soprattutto) sofferenza, non sarebbe più naturale che l’uomo desiderasse di morire piuttosto che vivere, che desiderasse di farla finita subito e prematuramente, anziché aspettare il tempo naturale della morte?

In altre parole, la mia visione del mondo, al contrario di quella buddhista, di quella di tante (se non la maggior parte delle) religioni e di alcuni filosofi radicalmente pessimisti (come, per fare solo due nomi, i primi che mi vengono in mente: Schopenhauer e Cioran) non è né pessimista né ottimista.

Perché vede, registra, prende atto che nel mondo ci sono sia il bello che il brutto, sia il vero che il falso, sia il bene che il male, sia il piacere che il dispiacere, sia la gioia che il dolore, in un impasto (misterioso) che fa della vita una lotta continua tra l’uno/a e l’altro/a; alla ricerca della migliore condizione fisica e spirituale possibile, del cosiddetto ben-essere.

Ad un unico male – almeno per ora –  non possiamo opporci, un unico nemico non possiamo – almeno al giorno d’oggi – pensare di sconfiggere definitivamente: la morte.

E questo – in linea teorica – può/potrebbe giustificare il pensiero pessimista radicale.

Ma – almeno a mio avviso – manco la realtà della morte lo giustifica pienamente.

Perché è vero che la morte connota il nostro orizzonte futuro di ombre lugubri e funeree, però è anche vero che manco il pensiero della morte, che prima o poi ci raggiungerà, riesce a rovinare (e, meno che mai, a cancellare) alcune esperienze emotive di piacere, di gioia e persino di felicità, che – in momenti più o meno frequenti e prolungati – pure attraversano e in certi casi addirittura riempiono la nostra vita, impedendoci di sprofondare (come sarebbe inevitabile, se essi fossero del tutto assenti) nell’abisso della depressione e della disperazione.

E questo è un dato di realtà manifesto, verificabile e accertabile di continuo e da parte di (quasi) tutti.

Come lo è la condizione di sofferenza che a volte attraversa e, in genere, chiude, conclude la nostra vita: penso ai dolori dell’agonia che ci conduce alla morte.

Che la vita, oltre che sofferenza, sia anche piaceri e gioie, non è vaneggiamento e illusione, ma un dato di realtà incontrovertibile!

© Giovanni Lamagna

Alcune semplici e brevi riflessioni sul concetto buddhista di “nirvana”.

Il concetto buddhista di “nirvana” non è esente da ambiguità e, quindi, da possibili fraintendimenti.

Infatti, può essere inteso (e da alcune scuole buddhiste viene inteso) come rinuncia totale a qualsiasi desiderio, in quanto nel desiderio risiederebbe la radice stessa della sofferenza umana.

Secondo questa interpretazione la rinuncia radicale e totale ai desideri metterebbe fine alle sofferenze.

Per cui, da questo punto di vista, la morte sarebbe la condizione che meglio realizzerebbe questa condizione nirvanica.

L’altro modo di intendere il “nirvana” è meno radicale ed estremo: non prevede la rinuncia totale al desiderio, ma solo il non attaccamento all’oggetto del desiderio.

Non dunque la rinuncia al desiderio in sé, inteso anzi come pulsione necessaria alla affermazione della vita, ma la rinuncia alle manifestazioni compulsive ed ossessive del desiderio, ai falsi bisogni, che non si riescono a padroneggiare, ma di cui si perde il controllo, fino, in certi casi, a diventarne schiavi.

Non la rinuncia pertanto al desiderio correttamente inteso, ma alla brama, alla bramosia, che sono degenerazioni del desiderio.

E’ questa l’interpretazione in genere prevalsa nel mondo occidentale tra coloro che hanno aderito al buddhismo o simpatizzato con esso, perché, con tutta evidenza, è quella che meglio si concilia (o perlomeno non vi si contrappone del tutto) con il modo di pensare e di vivere prevalente presso le nostre culture.

Anzi va pienamente d’accordo con le principali correnti ascetiche e mistiche della tradizione occidentale, coincide sostanzialmente con esse.

Io, però, non sono del tutto convinto che sia questa seconda l’interpretazione più esatta del pensiero di Buddha, il quale non a caso parlava di due tipi di nirvana: il “nirvana con residuo” e il “nirvana senza residuo”.

Il primo si ottiene appunto con il distacco emotivo e mentale dall’oggetto del desiderio; ma non può che essere parziale, in quanto libera dalle sofferenze della mente, ma non da quelle del corpo.

Il secondo si ottiene unicamente con la morte, la quale sola estingue, spegne ogni soffio vitale, realizzando quella condizione che è espressa dalla radice etimologica della parola (“nir”: non + “va”: soffio).

Per cui lo stato pieno del nirvana si raggiungerebbe solo con lo spegnimento totale della vita e non col semplice distacco dagli oggetti del desiderio, raggiunto attraverso una particolare ascesi della volontà e del pensiero.

© Giovanni Lamagna

Ognuno di noi è parte di un Tutto

Diventare degli illuminati – come Buddha, come Socrate o come Gesù – significa comprendere (non solo con la testa, ma con tutte le fibre e cellule del proprio essere) che noi siamo parte di un Tutto: che non c’è (vera) separazione tra noi e l’intero Universo.

Da qui nasce, su questo ha fondamento, la stessa legge dell’amore.

Perché come posso odiare, come posso anzi non amare, ciò che mi appartiene, ciò che è parte di me, ciò di cui io sono parte?

Per questo è profondamente vero quello che ieri sera, da una piazza s. Pietro spettralmente vuota, ci ha ricordato papa Francesco: nessuno si salva da solo!

@ Giovanni Lamagna