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C’è qualcosa che vale più della propria stessa vita?

C’è qualcosa che (almeno per me) conviene ed è giusto amare più della propria stessa vita.

Sono le ragioni per le quali troviamo che – nonostante tutto – abbia un qualche senso vivere.

E non solo sopravvivere.

© Giovanni Lamagna

Perdere chi dava senso alla nostra vita significa perdersi?

Davvero “Perdere chi dava senso alla nostra vita significa perdersi”, come afferma Massimo Recalcati a pag. 27 del suo “La luce delle stelle morte” (2022 Feltrinelli)?

No, non lo penso.

Certo, non ci sono dubbi manco per me, che la perdita di un’amicizia e, ancora più, di un amore (di un genitore, di un amante, di un figlio…) comporti un dolore, più o meno grande, più o meno lacerante, a seconda del significato e del valore che il legame con loro aveva per noi.

E’ innegabile – non c’è dubbio manco per me – che la perdita di un legame significativo crei in noi un vuoto, una mancanza, uno smarrimento esistenziale, un appannamento, se non un vero e proprio obnubilamento, del senso del vivere.

Ma di qui a “perdersi”, come sostiene Recalcati, ce ne corre; o, perlomeno, ce ne dovrebbe correre.

Il “perdersi” (dopo la perdita di un legame importante) può essere anche molto grave, può durare anche un tempo molto lungo, ma non può essere (o, almeno, non dovrebbe essere) totale e, soprattutto, non può essere (o, almeno, non dovrebbe essere) definitivo.

Prima o poi, anche dopo la perdita più grave e significativa, la natura ha previsto (e per fortuna!) l’elaborazione e la fine del “lutto” legato alla perdita.

E questo per una ragione fondamentale, che si oppone allo stesso assunto iniziale di Recalcati; e cioè che nessuno, in fondo, costituisce (o, meglio, dovrebbe costituire) “il senso” della nostra vita; a nessuno dovremmo attribuire un tale valore e un tale significato, potremmo dire anche un tale potere.

Nel senso che (ed è questo l’assunto fondamentale dal quale io parto e che – almeno per me -sostituisce quello da cui è partito Recalcati) il significato profondo della nostra vita deve (o, meglio, dovrebbe) poggiare su altro: non le singole persone e, meno che mai, le singole cose; manco le persone alle quali siamo legati dagli affetti più grandi e profondi.

Dovrebbe, in altre parole, poggiare su un’accettazione della vita nel suo complesso, nella sua totalità, con le sue luci e con le sue ombre, e non su suoi singoli aspetti (situazioni, oggetti, persone… per quanto importanti, preziosi) isolati dal resto.

Singoli aspetti che sono tutti inevitabilmente soggetti a caducità e possono tutti, quindi, sfuggirci, venirci a mancare da un momento all’altro.

Mentre il resto della vita bene o male perdura, perdura oltre ogni morte, ha un che di immortale, di solido, di eterno.

E’ dunque l’amore della vita in sé – un sentimento che ha a che fare con le pascaliane ragioni del cuore più che con quelle della mente (quindi o c’è non c’è), un sentimento quasi religioso di fede o, meglio, fiducia di base – che (almeno a mio avviso) dà (o, meglio, può dare) un senso alla nostra vita e fonda poi tutti gli altri amori.

Compresi, quindi, quelli la cui perdita, quando ci colpisce, ci fa un male da morire.

Non viceversa.

Ecco perché, quando perdiamo un’amicizia o un amore, staremo male, per un tempo anche molto lungo; avremo persino la (momentanea) sensazione di morirne, di non poter sopravvivere alla perdita, perlomeno psicologicamente, se non fisicamente.

Ma, prima o poi, la persona sana, solida, strutturata psicologicamente, ne uscirà: questo ci insegna l’esperienza dei più; anche quella di coloro che nel momento in cui subiscono una perdita ci appaiono disperati, distrutti, devastati dal dolore.

Corre il rischio, invece, di perdersi definitivamente (o si perde effettivamente) la persona che aveva con la persona “amata” una relazione di attaccamento simbiotico, di dipendenza patologica, più che di vero amore.

Il vero amore, infatti, prevede e richiede indubbiamente intimità, interdipendenza, vicinanza, legame, perfino attaccamento, ma anche confini, autonomia, giusta distanza e libertà, finanche un certo distacco.

Non è (o, meglio, ripeto, non dovrebbe essere) la ragione stessa della nostra vita, quella senza la quale viene meno il senso stesso della nostra esistenza, che si ridurrebbe pertanto ad un mero e depresso sopravvivere.

© Giovanni Lamagna

Esistere e desistere.

Penso che il termine col significato opposto a quello di “esistere” sia quello di “desistere”.

L’atto di “esistere”, infatti, non corrisponde al semplice “vivere” (o, meglio, sopravvivere), ma ad una precisa, determinata volontà/decisione/scelta di vivere, di “stare” (anzi re-stare) in questo mondo.

Espresse significativamente dal prefisso “ex”, che sta a significare una volontà di uscire dal semplice “stare”.

Che è, invece, un trovarsi qui, nel mondo, dopo esservi stato “gettato” per caso col nascere, ma restandoci senza fare una scelta, bensì per semplice inerzia, dunque sopravvivendo e non vivendo.

Il “desistere” esprime, invece, l’atto esattamente opposto a quello di “esistere”: è quasi un dimettersi dallo stare qui, nel mondo.

E’ un uscire (di fatto) dallo stato del vivere (se non in senso fisico, quantomeno in senso psicologico), espresso molto bene dal prefisso “de”.

© Giovanni Lamagna

Gli uomini e il sesso.

Krishnamurti (ne “La quiete della mente”; Ubaldini Editore; pag. 152) si chiede: “… perché la società ha attribuito al sesso questa straordinaria importanza?”.

E subito dopo si interroga sulle “sanzioni religiose che ne derivano”, che tendono a porre degli argini all’esperienza di “piacere” e di “bellezza” che gli uomini collegano al sesso.

Voglio pormi queste stesse domande e provare a dare le mie risposte.

Quanto alla prima domanda la mia risposta è molto semplice, anche se duplice: 1) nel sesso gli uomini sperimentano forse il massimo del piacere fisico, emotivo e mentale, in certi casi anche spirituale, che è dato loro provare nella vita; 2) al sesso è collegata la sopravvivenza della specie, quindi la continuazione della vita stessa.

Ci può essere, dunque, un interesse superiore a quello che gli uomini provano normalmente per il sesso? Ci può essere, quindi, nella vita una realtà superiore al sesso, che sia più importante del sesso?

Sì, ci può essere; ma in qualche modo essa sarà sempre e comunque gemmazione della pulsione sessuale, una forma di filiazione da quella primaria, primordiale, che è il sesso; ne sarà, come ci hanno insegnato Freud e la psicoanalisi, una sua sublimazione.

In molti casi positiva, utile, necessaria, senza alternative: non si può certo passare tutto il proprio tempo a fare sesso; come minimo, oltre a fare sesso, bisognerà lavorare per procurarsi quanto è necessario a sopravvivere.

In altri casi negativa, inutile, addirittura dannosa, produttiva di malattie fisiche e mentali, nevrosi e in alcuni casi persino psicosi: quando si fa poco sesso o addirittura vi si rinuncia, perché si è incapaci – per timori inconsci, ma ben reali – di goderne.

Anche alla seconda domanda di Krishnamurti la mia risposta è semplice: gli uomini hanno sentito il bisogno (soprattutto attraverso le religioni) di imporsi delle sanzioni che limitassero la loro naturale e tendenzialmente sconfinata propensione verso il sesso, per il timore, la paura (che, ricordiamolo, non sono mai del tutto separabili dal piacere e dal desiderio) di esserne travolti, di non riuscire più ad occuparsi anche di altre cose nella vita, pur esse necessarie, anzi senz’altro più necessarie del sesso.

Pensiamo, ad esempio, alle necessità – anche solo quelle primarie, cui ho già fatto riferimento in precedenza – di procurarsi del cibo, una casa, degli abiti e, inoltre, di occuparsi dell’allevamento della prole, incapace da sola, nei primi anni di vita, di badare alla propria sopravvivenza.

C’era il rischio, dunque, per l’uomo che il sesso con la sua fortissima carica attrattiva, potesse essere vissuto come una sorta di canto delle sirene, di droga, che avrebbe potuto distrarlo da altre incombenze, indubbiamente meno o, in certi casi, per nulla seducenti, legate alla fatica del vivere; o, meglio, innanzitutto del sopravvivere.

Di qui la necessità di crearsi degli argini, persino degli ostacoli, di imporre dei limiti alla fortissima pulsione del sesso, di non farlo diventare una sorta di ossessione, come invece rischiava di diventare, se gli uomini non si fossero dati delle norme e non avessero previsto delle sanzioni collegate alla mancata osservanza di queste norme.

Come possiamo verificare in alcuni casi patologici, anche oggi, perfino nelle nostre odierne società, ipermoderne ed evolute, molto razionali e culturalmente avanzate, addestrate ormai a controllare (forse addirittura fin troppo!) gli istinti primari e persino le emozioni e i sentimenti.

Accade anche oggi, infatti, che il sesso in alcuni individui (nevrotici o, addirittura psicotici) diventi una pulsione maniacale, che norme e sanzioni sociali, tuttora vigenti, non riescono ad arginare, generando quindi disagi, più o meno acuti; nel soggetto malato innanzitutto, ma anche nel contesto ambientale in cui egli vive ed opera.

© Giovanni Lamagna

La vita è solo sofferenza?

Io non concordo con il presupposto fondamentale del Buddhismo, il punto da cui parte e si dipana l’intero pensiero del Buddha; e cioè che la vita sia sofferenza.

Per me, al contrario di Buddha, la vita non è solo sofferenza, ma è anche piaceri, gioie, in certi momenti (e per alcuni fortunati) addirittura felicità.

Basta vedere lo sguardo di un bambino, della maggior parte dei bambini (perfino, a volte, di quelli nati e cresciuti nelle situazioni più infauste) per rendersene conto.

Certo non posso e non voglio mica negare che nel mondo ci sia tanta, anzi tantissima, sofferenza, sia a livello dei corpi che delle anime: sarebbe da sciocchi o, meglio, ciechi negarlo.

Quello che non accetto però è l’idea (per me esagerata e, quindi, infondata) che nel mondo ci sia SOLO sofferenza.

D’altra parte, se fosse veramente così, non capirei perché nell’uomo (almeno nella grande maggioranza degli uomini) ci sia tanta voglia di vivere, fosse anche solo voglia di sopravvivere.

Se la vita fosse solo (o anche soprattutto) sofferenza, non sarebbe più naturale che l’uomo desiderasse di morire piuttosto che vivere, che desiderasse di farla finita subito e prematuramente, anziché aspettare il tempo naturale della morte?

In altre parole, la mia visione del mondo, al contrario di quella buddhista, di quella di tante (se non la maggior parte delle) religioni e di alcuni filosofi radicalmente pessimisti (come, per fare solo due nomi, i primi che mi vengono in mente: Schopenhauer e Cioran) non è né pessimista né ottimista.

Perché vede, registra, prende atto che nel mondo ci sono sia il bello che il brutto, sia il vero che il falso, sia il bene che il male, sia il piacere che il dispiacere, sia la gioia che il dolore, in un impasto (misterioso) che fa della vita una lotta continua tra l’uno/a e l’altro/a; alla ricerca della migliore condizione fisica e spirituale possibile, del cosiddetto ben-essere.

Ad un unico male – almeno per ora –  non possiamo opporci, un unico nemico non possiamo – almeno al giorno d’oggi – pensare di sconfiggere definitivamente: la morte.

E questo – in linea teorica – può/potrebbe giustificare il pensiero pessimista radicale.

Ma – almeno a mio avviso – manco la realtà della morte lo giustifica pienamente.

Perché è vero che la morte connota il nostro orizzonte futuro di ombre lugubri e funeree, però è anche vero che manco il pensiero della morte, che prima o poi ci raggiungerà, riesce a rovinare (e, meno che mai, a cancellare) alcune esperienze emotive di piacere, di gioia e persino di felicità, che – in momenti più o meno frequenti e prolungati – pure attraversano e in certi casi addirittura riempiono la nostra vita, impedendoci di sprofondare (come sarebbe inevitabile, se essi fossero del tutto assenti) nell’abisso della depressione e della disperazione.

E questo è un dato di realtà manifesto, verificabile e accertabile di continuo e da parte di (quasi) tutti.

Come lo è la condizione di sofferenza che a volte attraversa e, in genere, chiude, conclude la nostra vita: penso ai dolori dell’agonia che ci conduce alla morte.

Che la vita, oltre che sofferenza, sia anche piaceri e gioie, non è vaneggiamento e illusione, ma un dato di realtà incontrovertibile!

© Giovanni Lamagna

L’essere umano e la dimensione religiosa della vita

Mi sto facendo sempre più convinto, con gli anni, che l’uomo senza una qualche forma di sensibilità e di pratica religiosa non possa stare bene, non possa vivere bene.

In altre parole, che la dimensione religiosa è strutturale, congenita all’essere umano. Così come il respirare, l’aver bisogno di cibo, del dormire.

Il bisogno religioso è dunque un bisogno fondamentale come gli altri bisogni. Ancora più del sesso, che in realtà non è manco un vero bisogno, ma qualcosa al confine tra bisogno e desiderio.

Per cui, a mio avviso, si può vivere (e anche abbastanza bene) senza sesso, mentre non si può vivere, perlomeno non si vive bene, senza soddisfare il bisogno religioso che alberga in ognuno di noi.

A questo punto però sento la necessità di chiarire bene cosa intendo io per bisogno religioso, per dimensione religiosa della vita.

Chiarisco in premessa: nulla che abbia a che fare necessariamente con l’adesione ad una determinata fede e ad una religione storicamente date. Anche se queste possono essere intese come risposte (alcune delle risposte possibili) al bisogno religioso, che – come dicevo prima – è connaturato all’uomo, nasce con lui.

Allora quali sono le caratteristiche (in positivo) del bisogno religioso?

Io direi che la prima caratteristica è data dal bisogno che ha l’uomo di trascendersi, di andare oltre il puro dato materiale dell’esistenza.

L’animale, oltre al bisogno di procurarsi da bere, del cibo, una tana o un nido (soprattutto per i suoi cuccioli), di accoppiarsi per riprodurre la sua specie, di giocare di tanto in tanto, di riposare e dormire il tempo necessario riprendere le forze, non ha altre ragioni per vivere. In altre parole possiamo dire che l’animale vive per sopravvivere.

L’uomo no. Le ragioni puramente biologiche che bastano agli altri animali, a lui non bastano. Egli ha bisogno di trovare un senso, di dare un senso alla sua vita. Ha bisogno dunque di andare oltre la pura sussistenza, oltre la dimensione puramente materiale della vita, ha bisogno dunque di trascendere la sua natura animale.

E che cosa può dare un senso e un significato alla vita dell’uomo, capaci di farlo trascendere, andare oltre il puro dato biologico?

Una prima risposta può essere questa: il successo, la fama, la gloria, il riconoscimento sociale, il potere.

Una seconda risposta è la ricchezza, la “roba”, l’accumulo e il possesso di quanti più beni materiali è possibile.

Questi fattori (il successo, la fama, il potere, il prestigio sociale, la ricchezza…) possono essere considerati a tutti gli effetti dei “valori”, cioè realtà a cui gli uomini (almeno alcuni uomini) danno grande valore Quindi in grado di fondare una vera e propria religione; una religione del tutto laica ovviamente, ma pur sempre una religione.

Religione da questo punto di vista è un qualsiasi orientamento esistenziale che si unifica, concentra attorno a dei valori fondamentali, che in una ipotetica gerarchia hanno più peso degli altri.

La religione del successo sociale e della ricchezza è una religione che assume come suo carattere fondante quello della competizione, anche esasperata, tra gli esseri umani.

Il mio successo, infatti, dipende dal tuo insuccesso, dalla tua sconfitta. Così la mia maggiore ricchezza dipende dal tuo impoverimento. Si potrebbe anche dire che questa è la religione dell’ “homo homini lupus” e del “mors tua vita mea”.

Questa religione, però, a pensarci bene non è molto diversa da quella che indubbiamente ad altri livelli e in altre forme, praticano anche gli animali. Anche tra gli animali, infatti, c’è quello che tende a prevalere sugli altri, ad accaparrarsi le femmine migliori e le porzioni di cibo più abbondanti. Anche tra gli animali insomma vige la “legge del più forte”.

La religione del successo e della ricchezza si situa quindi ad un livello basso della scala evolutiva dell’homo sapiens. E’ propria dell’homo sapiens, che si è ben poco trasceso rispetto ai primi ominidi da cui deriva per via evolutiva e in fondo anche dalle altre specie animali.

L’uomo, però, nel corso dei secoli, anzi dei millenni (non si capisce bene perché, però è questo un dato di fatto da registrare) ha sentito il bisogno di trascendersi ulteriormente, di passare da una religione fondata sui valori della lotta e della competizione ad una fondata sui valori della pace, della solidarietà, della compassione verso il più debole, della fraternità non solo verso i consanguinei che è propria di ogni specie animale, ma verso l’uomo in quanto uomo, cioè della fraternità universale…

In nome della consapevolezza che ciascuno di noi è parte di un Tutto e che, quindi, le varie parti del Tutto non possono stare bene (raggiungere il benessere spirituale, ma a volte anche quello fisico) se il bene dell’una parte va a scapito dell’altra.

In nome della consapevolezza, insomma, che la mia vita non solo non si oppone quella degli altri, ma anzi è profondamente connessa con la loro. Altro che “mors tua vita mea”! Secondo questa visione religiosa del mondo, dunque, “mors tua etiam mors mea”, mentre “vita tua etiam vita mea”.

Sono questi i valori (chi più e chi meno, coniugati in forme e modi diversi) che, non a caso, caratterizzano la maggior parte delle religioni che si sono affacciate nei vari punti del pianeta nel corso della Storia.

Ma sono ancora questi i valori che hanno caratterizzato le varie forme di religiosità laica che hanno caratterizzato alcune culture che abbiamo conosciuto, soprattutto in questi ultimi cinque/sei secoli: in modo particolare, l’Umanesimo, l’Illuminismo e il Socialismo.

Per coltivare tali valori, gli uomini hanno dovuto sviluppare quella che di solito si definisce “la vita interiore”. Che non è una vita altra e alternativa rispetto a quella bio-fisiologica, ma è una vita distinta, che non si riduce alla prima.

La vita interiore, che altro non è che la vita dello spirito, ha, infatti, bisogno, per essere coltivata, di alcune condizioni, potremmo dire anche pratiche o abitudini, così come la vita del corpo ha bisogno degli alimenti, del riparo dalle intemperie, del riposo e del sonno giornaliero e, quando si ammala, delle giuste medicine.

Quali sono le pratiche di cui ha bisogno la vita interiore? Ne elenco alcune e so di dimenticarne altre. Indico quelle che a me sembrano le più importanti. La vita interiore o spirituale che dir si voglia ha bisogno di:

-silenzio e raccoglimento, laddove l’uomo, che vota la sua vita al successo e all’accumulo di beni, preferisce il chiasso e lo stordimento del mondo esteriore;

– di letture, riflessioni, meditazione, perché la pratica di certi valori non è spontanea, ma abbisogna di un esercizio continuo che in qualche modo va contro gli impulsi spontanei e gli istinti;

– di riti individuali ma anche collettivi, che rafforzino il sentire comune e condiviso dei valori scelti a livello individuale.

Non a caso queste tre pratiche spirituali sono presenti in tutte le forme di religiosità che l’uomo ha finora conosciuto nella sua storia, perfino in quelle che non si riconoscono esplicitamente come espressione di religiosità, ma che per me in qualche modo comunque lo sono, anche se sono forme di religiosità del tutto laiche.

Per concludere e riepilogare, sono convinto che:

1) l’uomo non possa prescindere dal formarsi una sua visione del mondo, una sua weltanshaung, quindi una sua visione religiosa del mondo;

2) questa visione del mondo può essere fondamentalmente di due tipi: o competitiva o solidaristica;

3) la prima assicura (talvolta) un benessere immediato ed effimero, ma allo stesso modo (e più spesso) procura ansie e perfino angosce nel lungo periodo;

4) la seconda, invece, non garantisce il benessere immediato e materiale, ma assicura un benessere interiore di lungo respiro e molto superiore alla prima;

5) per operare secondo i principi di questa seconda visione del mondo, l’uomo ha bisogno di silenzio interiore, raccoglimento, meditazione, di riti individuali e, soprattutto, collettivi.

© Giovanni Lamagna