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Etica della responsabilità ed etica della convinzione.

Anche a non voler considerare la menzogna una virtù o, quanto meno, una dote, un’abilità, dell’uomo politico (vedi ciò che ne pensavano Platone, Machiavelli, Hannah Harendt), non si può di certo negare che l’uomo politico sia tenuto spesso alla riservatezza, alla diplomazia, in altre parole a non poter dire sempre e comunque ciò che sa o che pensa (vedi ciò che afferma Gramsci in proposito: “Quaderni del carcere”; pp. 669-700).

L’intellettuale, invece, per definizione è tenuto a dire sempre ciò che pensa, a dire cioè la verità o, meglio, quello che egli ritiene sia la verità.

Sempre e comunque, a qualunque costo; pena tradire la sua funzione specifica.

L’intellettuale non ha interessi superiori di cui tener conto, se non la verità come valore assoluto.

Da questo punto di vista il “politico” e l’ “intellettuale” hanno deontologie molto diverse.

Gli intellettuali, quindi, possono, anzi devono, costituire la coscienza critica, il pungolo morale dei politici.

Perché essi hanno una libertà, un’assenza di vincoli sociali, che i politici non hanno, non possono permettersi.

Potremmo concludere – prendendo a prestito due espressioni oramai divenute classiche di Max Weber – che, mentre i politici sono tenuti ad agire prevalentemente secondo “l’etica della responsabilità”, gli intellettuali sono tenuti ad agire prevalentemente secondo “l’etica della convinzione”.

© Giovanni Lamagna

Recensione del romanzo “Confidenza” di Domenico Starnone (Einaudi 2019).

Il romanzo breve (appena 140 pagine) di Domenico Starnone “Confidenza” (Einaudi 2019), dal quale è stata recentemente ricavata la sceneggiatura di un film con Elio Germano protagonista, è bello.

Degno della migliore scrittura di questo autore, di cui mi piacciono sia le problematiche che affronta, sia il modo con cui ce le racconta.

Il romanzo, anche questa volta, ruota attorno a una vicenda familiare; sono chiari – conoscendo Starnone – i riferimenti autobiografici.

È la storia – quasi la biografia – di un uomo, Pietro Vella, un insegnante di liceo nato a Napoli, ma trasferitosi a Roma dopo la laurea, dove vive e lavora.

Che si innamora una prima volta di una sua allieva, Teresa, che ha almeno una decina di anni meno di lui e con la quale intreccia una tempestosa relazione, fatta di amore e di odio.

E poi, una volta conclusa – per sfinimento – questa prima relazione, ne inizia una nuova con una collega coetanea, Nadia, insegnante di matematica, con ambizioni di carriera universitaria ben presto naufragate.

Il rapporto con Nadia è tutto l’opposto di quello con Teresa; tanto tempestoso e lancinante era quello con Teresa, tanto tranquillizzante e rassicurante è quello con Nadia.

Che, infatti, “regala” a Pietro tre figli e, soprattutto, accudimento, cura e, pertanto, la libertà di dedicarsi ai suoi principali interessi: professionali, culturali e politici.

Così Pietro, da oscuro insegnante di liceo, diventa un saggista abbastanza noto che pubblica due libri e svariati articoli, viene invitato a dibattiti e convegni e, soprattutto, entra nel mondo dell’editoria, dove conosce un importante pedagogista, Stefano Itrò, e una editor avvenente, benestante e colta, Tilde, con la quale, grazie anche alla intensa frequentazione, vive una sorta di (anche se solo platonico) flirt.

Su queste tre relazioni – quella con Nadia (la moglie), quella con Teresa (la prima amante) e quella con Tilde (l’amica) – Starnone costruisce un’avvincente intreccio emotivo-sentimentale, profondamente erotico e persino – almeno a tratti – passionale, che ci porta a scandagliare la complessità, le ambiguità e le contraddizioni che caratterizzano i rapporti tra gli esseri umani, soprattutto quelli tra i due sessi, e in fondo la complessità, le ambiguità e le contraddizioni dello stesso animo umano, di cui quelle relazionali in fondo non sono altro che il riflesso.

Viene fuori, ad esempio, la complessità delle dinamiche legate a termini quali “fedeltà” e “tradimento”.

Il protagonista Pietro Vella tradisce più volte la moglie Nadia con la mente e col desiderio, “con discrezione, forse addirittura castamente” (p.121); e – almeno in una situazione – riesce ad evitare di farlo anche concretamente, fisicamente (con Tilde), per puro caso, perché distratto/attratto da un altro “tradimento” (con Teresa) di natura puramente mentale.

La stessa moglie Nadia – che pure sembra il ritratto della donna tranquilla, tutta casa e lavoro, ma soprattutto fedele – sul finale del romanzo confessa alla figlia: “… tuo padre mi è così indispensabile che, per poter restare con lui, ho dovuto tradirlo moltissime volte, secondo tutte le possibili accezioni lecite del tradimento.” (p. 121).

Per cui la figlia Emma così ne riassume la vicenda emotivo-affettivo-sentimentale-matrimoniale: “… mi è sembrato tutto sommato bello che questi due vecchi… per poter vivere insieme tutta la vita, avessero dovuto inventarsi una pratica innocente del tradimento che permettesse loro di non dirsi: non ci vediamo più.” (p. 121).

Come se un matrimonio, per reggersi, per durare nel tempo, avesse bisogno necessariamente, indispensabilmente di tradimenti reciproci dei due partner; reali o solo mentali, effettivi o sessualmente casti qui ha poca importanza.

Viene, quindi, fuori in questo romanzo, in maniera paradigmatica a me sembra, una delle lezioni fondamentali di Jung: ciascuno di noi è fatto di una “persona” – la maschera che mostriamo agli altri – e di una “ombra” – il nostro lato oscuro, quello che tendiamo a nascondere, non solo agli altri, ma anche a noi stessi.

Ciascuno di noi ha quindi, molto probabilmente, una qualche “confidenza” (non a caso è questa la parola che dà il titolo al romanzo), fatta in un momento di particolare intimità (o debolezza) a qualcuno/a, di qualcosa di cui prova vergogna, con le conseguenti paura, preoccupazione, ansia, in certi momenti vero e proprio terrore, che l’altro/a possa portarla allo scoperto, rivelandola in pubblico.

L’altro/a, in questo caso, è la metafora della nostra coscienza (più o meno) sporca, con la quale ciascuno di noi deve fare i conti.

Aggiungo su questo punto solo un ultimo elemento di riflessione: alcuni – di quello che siamo – vedono solo o prevalentemente il bello e il pulito, altri solo o prevalentemente il brutto e lo sporco.

Mentre forse ciascuno di noi non è né solo e totalmente il primo, né solo e totalmente il secondo, ma un impasto complicato, complesso, del primo e del secondo, nel quale è difficile distinguere il primo dal secondo.

© Giovanni Lamagna

Lettera aperta a Franco Arminio.

Caro Franco, mi piace, sono contento e condivido che nei tuoi discorsi ritorni continuamente questa parola bellissima: “comunità”.

Credo, oramai da parecchio tempo, che essa dovrebbe diventare (o, meglio, tornare ad essere, anche se in forme del tutto nuove) sempre più la parola fondamentale di un nuovo vocabolario politico, di una nuova visione del mondo, azzarderei a dire anche di una nuova “ideologia”, se quest’ultima parola non si fosse oramai usurata nel corso dell’ultimo secolo e non fosse perciò diventata oramai inutilizzabile.

Dovrebbe diventare il perno di una nuova cultura politica assieme alla parola “persona”, che è cosa ben diversa da quella di “individuo”.

L’individuo è, infatti, un atomo sperso nel vuoto dell’universo mondo; anzi è il singolo che combatte, compete con l’altro singolo, è l’homo homini lupus: è la parola chiave dell’ideologia liberista, per la quale non solo non esiste e non si può formare una comunità, ma non esiste manco la società (ricordi la Thatcher?).

La persona è, invece, il singolo che si è fatto e si fa continuamente comunità assieme agli altri, a coloro con i quali condivide un territorio, ma anche – seppure solo virtualmente, ma non meno concretamente – con tutti i suoi fratelli dell’unica e stessa Madre Terra.

Questa nuova visione del mondo – nella quale “locale” e “globale” sarebbero le due facce di un’unica medaglia – dovrebbe chiamarsi perciò “comunitarismo”.

Che è cosa ben diversa dal “comunismo”, nel quale la persona spariva in nome degli interessi “superiori” della massa, della società; e spesso veniva oppressa, a volte annientata, in nome di quegli interessi.

Nel comunitarismo la persona non sparisce per niente, perché gode degli stessi diritti ed è debitore degli stessi doveri della comunità.

Anzi all’interno della comunità la persona è valorizzata al massimo, la persona è il fondamento stesso della comunità.

Non so se queste parole ti esprimono?

Conoscendoti abbastanza, sono propenso a pensare di sì.

Unito in una comune campagna culturale (la parola “battaglia” non mi piace”) ti auguro una felice Pasquetta,

Giovanni Lamagna

Famiglia e comunità.

Più vado avanti e più prendo atto che la dimensione della famiglia borghese (sia nella sua versione più antica e tradizionale – quella patriarcale – sia in quella più moderna e recente – la famiglia nucleare) mi sta stretta, non corrisponde più alle mie aspirazioni più profonde, ammesso che vi abbia mai corrisposto.

La mia dimensione ideale, quella nella quale oggi mi riconosco di più e che mi esprimerebbe appieno, è la dimensione della comunità.

Un luogo (spirituale prima che materiale) nel quale più persone fanno vita comune, auspicabilmente anche di convivenza, non perché vincolate da un legame di sangue e meno che mai da un contratto giuridico, ma perché condividono valori, interessi, affetti, emozioni, sentimenti, amori, desideri, aspirazioni.

L’idea della “comune”, che affascinò i giovani del ’68, alcuni dei quali provarono anche a metterla in pratica, purtroppo con durate quasi sempre brevi e con esiti spesso fallimentari, continua ad affascinare ed attirare un uomo come me, che di quella generazione sono parte, anche ora che sono diventato anziano, per non dire vecchio.

So benissimo che, anche per la maggioranza di coloro (pochi) che mi stanno leggendo, questa è solo un’utopia, del tutto irrealizzabile.

Ma cosa saremmo noi umani senza utopie? Come faremmo a camminare, ad andare avanti, ad andare oltre il semplice “qui e ora”?

© Giovanni Lamagna

Nel giorno degli innamorati una riflessione (dolce e amara) sull’innamoramento e l’amore.

Ci si può innamorare di una persona per quella che è già.

Ma ci si può innamorare anche per quella che potrebbe essere o diventare e non è ancora.

Sono due forme di innamoramento: entrambe presenti nella psicologia umana.

Io credo che nell’innamoramento queste due modalità non si escludano affatto, come molti – anche insigni psicologi e psicoanalisti – credono; ma siano, invece, perfettamente compatibili.

L’una è l’altra faccia dell’altra, necessarie – entrambe – l’una all’altra.

Quando ci si innamora, ci si innamora innanzitutto (e indubbiamente) di una persona come essa è già.

Ma ci si innamora anche (e altrettanto indubbiamente) di ciò che ella promette di diventare, cioè del suo essere potenziale.

Tanto è vero che, spesso, quando questa persona tradisce questo suo potenziale, rinuncia cioè a diventare quella che poteva essere e non era ancora, si smette di amarla.

Magari si resta ancora fisicamente, materialmente con lei, perché troppi interessi – di natura, ad esempio, anche banalmente economica – ci legano reciprocamente.

Ma non lo si è più spiritualmente, perché non si cammina, non si cresce più assieme; l’amore in questo caso sfiorisce e il rapporto scade in una stanca, monotona routine.

Quando non diventa addirittura luogo di logoranti contrasti, di ripetitive ed estenuanti discussioni, in certi casi persino di violenti conflitti, talvolta anche fisici.

© Giovanni Lamagna

La diversità dei caratteri rende impossibile il rapporto tra due persone?

Alla mia veneranda età sento di poter dire, con giustificata presunzione, che, quando il rapporto tra due persone non va bene o addirittura si rompe, ciò non è dovuto alla diversità dei loro caratteri.

La diversità dei caratteri non è mai il vero problema nei rapporti.

Anzi essa – in genere, quasi sempre – costituisce una fonte di ricchezza dei rapporti.

Nella diversità le persone si arricchiscono, completano: l’una dona all’altra quello che le manca e viceversa.

Il vero problema nei rapporti è dato piuttosto dalla differenza di interessi e, soprattutto, di valori, di stili di vita.

Tanto è vero che ci sono persone che hanno caratteri molto simili, ma che non vanno per niente d’accordo, perché troppo diversi sono i loro valori, i loro interessi e, per conseguenza, i loro stili di vita.

Mentre ci sono persone che hanno caratteri molto diversi (una più estroversa, l’altra più introversa, una più attiva e dinamica, l’altra più riflessiva e flemmatica, una più istintiva e impulsiva, l’altra più meditativa e contemplativa…), ma che vanno perfettamente d’accordo perché hanno un sistema di valori di riferimento che le fa tranquillamente camminare insieme, sulla stessa strada, sia pure con modalità e ritmi diversi.

© Giovanni Lamagna

Il filosofo e il mistico nei confronti degli affetti familiari.

Nel suo libro “I quattro maestri” (Garzanti; 2020) Vito Mancuso illustra e valuta il rapporto che Socrate, Buddha, Confucio e Gesù avevano con i loro parenti e con l’istituzione “famiglia” in generale.

E, in estrema sintesi, afferma che l’unico ad avere un buon rapporto con i suoi parenti ed un’alta considerazione dell’istituto familiare era Confucio.

Per Confucio la costruzione di buoni rapporti sociali, la concretizzazione di quel “senso di umanità” che era il fine più alto e la sintesi del suo insegnamento, doveva cominciare dalla famiglia: il padre doveva essere un buon padre e i figli dei bravi figli.

Degli altri tre maestri il più vicino a Confucio – per Mancuso – può essere considerato Socrate, che ebbe una regolare famiglia, anche se un rapporto molto difficile e conflittuale con la moglie Santippe, e non parlò mai contro l’istituto familiare.

Bisogna però dire che per Socrate non era certo la famiglia il cuore dei suoi interessi e perfino dei suoi affetti.

Egli, infatti, trascorreva la maggior parte del suo tempo per le vie e le piazze della polis ateniese e probabilmente teneva, sul piano affettivo e, forse, perfino erotico, molto di più ai suoi allievi che ai suoi figli e a sua moglie.

Ancora più radicale e antistituzionale è il rapporto che ebbero Buddha e Gesù coi loro familiari e con l’idea stessa di parentela e di famiglia.

Buddha a circa 30 anni lasciò la moglie e il figlio e si dedicò ad una vita totalmente spirituale, mistica e contemplativa; radunando attorno a sé una comunità di discepoli decisi a seguire la sua stessa via, che costituirono a questo punto la sua nuova e vera famiglia.

Quello che Buddha e, per alcuni aspetti, anche Socrate fecero nei fatti, Gesù non solo lo praticò in modo molto radicale, ma lo teorizzò perfino.

Ci sono molte affermazioni di Gesù che ci descrivono il suo distacco/separazione dalla sua famiglia di origine e che di questo distacco/separazione indicano, professano, la necessità, come una delle condizioni base, per mettersi alla sua sequela, per dedicarsi cioè alla missione di annuncio dell’imminente avvento del regno di Dio.

Due affermazioni in modo particolare ci dicono di questa sorta di “disamore” di Gesù per i suoi familiari e di (quasi) disprezzo nei confronti dell’istituto familiare, in nome di un amore e di una comunità di intenti e di affetti più grandi.

La prima: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e persino la sua propria vita, non può essere mio discepolo.” (Luca, 14, 26).

La seconda: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”, riferendosi a Maria e ai suoi fratelli di sangue; che viene così completata da Gesù: “Ecco mia madre e i miei fratelli!” (Marco; 3; 33-34), riferendosi a coloro che ascoltavano la sua parola.

Vito Mancuso, tra i due atteggiamenti, quello di Confucio e (in parte) di Socrate e quello di Gesù e (in parte) di Buddha, propende per quello di Confucio e di Socrate, ritenendolo (lo dico a parole mie) più equilibrato, meno fanatico e, quindi, più sano.

Io, invece, pur respingendo ogni estremismo e (ancora di più) ogni fanatismo, per la mia formazione culturale ed umana, propendo di più per l’atteggiamento di Buddha e di Gesù.

Non perché ritenga che, per abbracciare una vita dedita alla filosofia e alla mistica, sia necessario rinunciare alla famiglia come anche agli amori ed agli affetti (in questo senso respingo ogni estremismo e fanatismo), ma perché pure io ritengo che prima degli affetti di sangue e di ogni altro amore debba venire l’amore per la Sapienza.

Perlomeno l’amore per la Sapienza deve venire prima di ogni altro amore in chi intenda abbracciare una vita dedita alla via filosofica o alla via mistica.; che, tra l’altro per me, sono due vie contigue, molto affini.

Contigue e affini non fosse altro che per la radicalità che deve (o, meglio, dovrebbe) a mio avviso caratterizzare il pensiero e la vita sia dei filosofi che dei mistici; se aspirano ad essere dei veri filosofi e dei veri mistici.

In altre parole sono memore e ben consapevole di quanto affermò Aristotele di se stesso: “Amicus Plato, sed magis amica veritas” (“Platone mi è amico, ma più amica mi è la verità”).

Consapevole, come lo fu Aristotele, che non si può davvero amare se non si è (almeno un po’) sapienti, non si possono amare gli uomini, se non si ama prima la Sapienza.

E Aristotele non era certo un estremista e, tantomeno, un fanatico; ma un uomo molto mite e saggio; per giunta un grande filosofo (“amante della Sapienza”); anzi sicuramente uno dei più grandi filosofi comparsi fino ad oggi sulla faccia della terra.

© Giovanni Lamagna

Barriere e confini

Diego Fusaro nel suo libro “Caro Epicuro” (2020) scrive (pag. 265- 266):

… il filosofo Kant… distingue tra un confine inteso come barriera invalicabile (che in tedesco chiama Schranke), che divide ermeticamente senza poter essere attraversato, e un confine inteso come limite che può essere attraversato (Kant lo chiama Grenze).

A differenza della barriera, il limite è ciò che si affaccia da una parte e dall’altra: non impedisce l’attraversamento, semplicemente lo regola e lo controlla, facendo sì che tra le due realtà separate non si crei indistinzione e l’una non occupi lo spazio dell’altra.

In effetti, se la barriera è negativa in quanto tale, perché chiude incondizionatamente e nega ogni possibile relazione, il confine è positivo. Esso non nega il transito, ma evita le invasioni. Non impedisce le relazioni, ma evita che diventino sopraffazione. Non interdice il nesso tra i differenti, ma fa in modo che non si perdano le frontiere che li separano, rendendoli non identici.

La mia epoca, Epicuro, tende a commettere un errore, che la filosofia può agevolmente smascherare: tende a tradurre la giusta lotta contro le barriere in una battaglia, in sé sbagliata, contro i confini. Per questo, quello in cui io vivo è il tempo dello sconfinamento: il movimento generale con cui si viola ogni barriera è lo stesso con cui si nega ogni confine.

E’ questa, del resto, l’essenza stessa della già discussa globalizzazione: il suo fondamento è quella “libera circolazione delle merci” che ha come presupposto l’abbattimento di ogni confine.

In questo modo, il mondo come pluralità di differenze demarcate da confini si ridefinisce come un unico mercato sconfinato: nel suo spazio globale, tutto circola senza impedimenti e, con i confini, spariscono le demarcazioni che differenziano le realtà. Tutto diviene indistintamente la stessa cosa.

E, in questo senso, lo sconfinamento della globalizzazione potrebbe essere intesocome l’invasione di ogni territorio del mondo, privato dei suoi confini, dalla merce e dalla forma di esistenza che a essa si associa.”

Il ragionamento svolto da Fusaro è in larga parte condivisibile: anch’io sono contrario alle barriere che segnano confini insormontabili; allo stesso tempo anch’io sono contrario alla perdita delle identità segnate dai confini, che si traduce in una indistinta omologazione delle diversità e, quindi, dei diversi.

Aggiungerei, però, al ragionamento di Fusaro questa considerazione, che segna un’importante differenza tra il mio punto di vista e quello di Fusaro: per quanto mi riguarda i confini non solo devono essere superabili e attraversabili, ma non devono essere neppure considerati rigidi e assoluti, definitivi e immutabili.

L’umanità, anzi gli uomini in carne ed ossa, hanno il diritto di considerare la Terra nella sua interezza la loro patria potenziale e tendenziale, se non attuale.

Ogni uomo ha il diritto di considerarsi cittadino del mondo oltre che cittadino di una patria specifica.

Gli uomini pertanto hanno il diritto di aspirare all’allargamento continuo dei confini delle loro patrie originarie, fino al limite estremo dei confini stessi della Terra: utopia forse mai realizzabile del tutto, ma alla quale non vedo perché gli uomini dovrebbero rinunciare (quantomeno) a tendere.

Quello che, in altre parole, manca nel discorso di Fusaro è la possibilità di realizzare non solo lo sconfinamento, cioè l’attraversamento dei confini, ma quello che molti (a cominciare da papa Francesco) oggi chiamano meticciato, cioè il mescolamento delle identità e delle differenze.

Non in nome – come purtroppo attualmente avviene – della (sola o prevalente) globalizzazione delle merci, ma in nome della globalizzazione delle culture. Non in nome di interessi economici forti, che favoriscono e arricchiscono solo alcuni, ma in nome della fraternità universale che mira a favorire ed arricchire tutti.

Non in vista e nella prospettiva di una indistinta e anonima omologazione delle differenze (antropologiche, etniche e culturali), ma in vista e nella prospettiva (utopica?) della miscela delle differenze, che non le elimina, ma le supera, originandone di nuove e – potremmo anche dire – superiori.

© Giovanni Lamagna

Amore e amicizia

E’ sempre duro, difficile, anzi terribile, per me constatare, ogni volta, come gli uomini (e per uomini qui intendo ovviamente sia i maschi che le femmine) diano molto più valore all’amore che all’amicizia; o, meglio, a quello che io preferisco definire “il cosiddetto amore”, cioè una certa idea dell’amore, non certo il “vero amore”.

Nella persuasione assurda, che io reputo addirittura stupida, che l’amicizia non sia fatta della stessa sostanza dell’amore, che l’amicizia sia altra cosa dall’amore, che l’amore sia una cosa e l’amicizia un’altra.

Chi la pensa così, a mio avviso, non ha mai sperimentato e quindi non ha mai compreso cosa siano né l’amore né l’amicizia.

Confonde l’amore con quel sentimento possessivo ed esclusivo che ci fa sentire una sola cosa con l’altro/a, pappa e ciccia, quel legame simbiotico che ci chiude (beninteso, ci auto-rinchiude) in un rapporto con una persona e (quasi) ci impedisce di vedere tutte le altre, quella relazione che Erich Fromm giustamente e opportunamente, nel suo “L’arte di amare” (1956), definisce di “egotismo a due”.

Quel rapporto che in nome della sicurezza (della reciproca protezione; da che, da chi, poi? dal resto del mondo?) rinuncia alla libertà; che, per guardarsi in continuazione negli occhi, rinuncia a guardare in avanti e attorno a sé; e che quindi rinuncia a godere della bellezza del mondo intero, nella falsa prospettiva che questa si riassuma in una sola persona, si racchiuda in un unico sguardo.

Come è diversa l’amicizia da questo (pseudo) amore! Ne è anzi l’opposto.

Due amici non si guardano solo negli occhi. Certo, ogni tanto lo fanno anche! Due amici si riconoscono innanzitutto dal fatto che non devono mai abbassare gli occhi l’uno di fronte all’altro. Perché essi non hanno mai da nascondersi nulla: sono due libri aperti, due case di vetro, l’uno per l’altro.

Ma due amici sono tali soprattutto perché guardano nella stessa direzione, guardano al mondo con gli stessi occhi. E, spesso, non hanno nemmeno bisogno di dirselo, di parlarne, perché si intendono al volo, senza neanche aver bisogno di fare ricorso alle parole o a tante parole.

E per questo gli amici, i veri amici, non hanno bisogno di chiudersi, di chiudere la loro amicizia in un hortus conclusus, di chiudersi in un rapporto prigione, per quanto dorata essa possa essere. L’amicizia, la vera amicizia, è sempre aperta ad altre relazioni, ad altre e nuove amicizie.

Perché la vera amicizia, per sua natura, per definizione, al contrario di tanti (pseudo) amori, non è gelosa, non è possessiva, non considera l’altro come una sua proprietà esclusiva. Non sacrifica mai la libertà per la sicurezza, ma nutre la sicurezza con la libertà e la libertà con la sicurezza.

Certo, l’amicizia (di solito) non prevede il sesso. Almeno così pensa, ritiene il comune (ma banale) immaginario. E, forse, questo, anzi sicuramente questo, fa ritenere l’amore superiore all’amicizia. Come se il sesso fosse un’esperienza superiore alla condivisione di una comune visione del mondo, dell’unum sentire, che è tipico delle vere e profonde amicizie.

Ma è poi vero anche questo? O non è anche questo uno dei tanti luoghi comuni del pensare piccolo borghese, cioè del pensare convenzionale che ha fatto della “proprietà privata” il valore sommo e di riferimento di ogni altro, il modello paradigmatico di ogni altra relazione tra soggetti, comprese quelle emotive, sentimentali, erotiche?

Perché, infatti, l’amicizia, laddove due amici ne provassero l’impulso e il desiderio, non dovrebbe poter sfociare anche nel sesso, dovrebbe escludere l’esperienza dell’incontro e della fusione dei sensi e dei corpi? Cosa lo vieta in linea di principio?

Obiezione: perché allora sarebbe amore!

Come se ciò che due amici provano normalmente, quando sentono le loro anime (cioè emozioni, sentimenti, idee, pensieri, valori, ideali…) muoversi all’unisono, non fosse già amore.

Come se l’amore (il vero amore, non il sentimento zuccheroso, mieloso, da “baci perugina”, che normalmente chiamiamo “amore”) non dovesse già comprendere l’amicizia.

E come se il rapporto che si fonda essenzialmente (se non esclusivamente) sull’attrazione sessuale, sui rapporti sessuali e su sentimenti esclusivi e possessivi di appartenenza reciproca, più che su una reale, forte, profonda, condivisione di pensieri, interessi, valori, ideali, in altre parole di visioni del mondo, potesse essere definito realmente “amore”.

Quanta confusione regna (da quando l’uomo ha potuto cominciare a definirsi tale, da quando esiste cioè l’homo sapiens) su questi due territori: quello dell’amicizia e quello dell’amore!

E quanta strada deve ancora compiere l’uomo per pervenire ad una più corretta conoscenza e consapevolezza dell’una e dell’altro e raggiungere in questo modo la sua piena e compiuta umanità!

© Giovanni Lamagna

La depressione ci parla, vuole dirci delle cose

La depressione è sicuramente, indubbiamente una malattia; a volte molto grave, che fa molto soffrire, ma è anche un segnale inviatoci dalla nostra psiche profonda, che, a saperlo cogliere, può diventare addirittura positivo, per quanto molto doloroso.

E’ un messaggio che la zona più profonda e inconscia della nostra psiche invia a quella più superficiale e (solo in apparenza) conscia, per metterci sull’avviso, per dirci cose che ignoriamo su di noi e che potrebbero cambiare (in positivo) la nostra vita.

Un invito a guardare dentro noi stessi come non avevamo mai fatto fino a che un giorno non si è manifestata la “malattia”, a non accontentarci cioè di vivere alla superficie di noi stessi, ma a scendere giù nel profondo.

Se ci pensiamo bene, si tratta di fare lo stesso movimento: in entrambi i casi si tratta di “andare giù”; più giù di dove eravamo fino ad allora abituati a campare.

Cerco di spiegarmi meglio.

Noi di solito (e non a caso, forse) definiamo la depressione con l’espressione metaforica “andare giù”; che è un’immagine indubbiamente corretta.

Solo che “l’andare giù” della malattia-depressione è un moto involontario, inconscio, quasi un riflesso condizionato, di cui non siamo padroni, che ci dà perciò sofferenza.

Perché la nostra volontà cosciente vorrebbe, invece, “restare su”, cioè andare nella direzione opposta, restare, mantenersi ancora in superficie.

La depressione, però, può essere letta anche come un invito ad “andare giù”, ovvero in profondità, volontariamente, per una scelta consapevole.

Che è poi – io penso – l’unico modo per guarire dalla depressione-malattia: non cercando di risalire banalmente alla superficie di sé, quando ci si sente sprofondare, ma scegliendo semmai di andare ancora più nel profondo di se stessi.

“Andare giù”, dunque, non per una catastrofe, un collasso della nostra psiche (come nel caso della depressione-malattia), ma per una scelta, per una decisione, della nostra psiche.

In questo modo avremo la possibilità di guardare meglio a noi stessi e diventare consapevoli delle ragioni e motivazioni che fino ad allora hanno guidato il nostro agire, cogliendone così incongruenze e inautenticità.

Realizzando quella metanoia, quella conversione, di cui la malattia-depressione (indirettamente e paradossalmente) ci ha fatto domanda, richiesta; trasformando la nostra vita, allontanandola da interessi futili e persone dannose e avvicinandola a ciò che più conta ed è più sano.

Possiamo, dunque e in conclusione, dire che vive una “depressione infelice” (la depressione come patologia) chi non vuole, fa resistenza a scendere nelle profondità di se stesso, perché vorrebbe continuare a restare alla superficie della sua vita, fatta spesso di inganni, maschere e inautenticità.

Mentre vive, può vivere, una “depressione felice” (la depressione intesa come “vita interiore”) colui che fa la scelta di abbandonare la superficie di sé, dove è vissuto fino ad allora, per scendere finalmente in profondità, laddove recupererà il proprio Sé più vero e le condizioni di una vita più vera e autentica.

© Giovanni Lamagna