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Lettera aperta a Franco Arminio.

Caro Franco, mi piace, sono contento e condivido che nei tuoi discorsi ritorni continuamente questa parola bellissima: “comunità”.

Credo, oramai da parecchio tempo, che essa dovrebbe diventare (o, meglio, tornare ad essere, anche se in forme del tutto nuove) sempre più la parola fondamentale di un nuovo vocabolario politico, di una nuova visione del mondo, azzarderei a dire anche di una nuova “ideologia”, se quest’ultima parola non si fosse oramai usurata nel corso dell’ultimo secolo e non fosse perciò diventata oramai inutilizzabile.

Dovrebbe diventare il perno di una nuova cultura politica assieme alla parola “persona”, che è cosa ben diversa da quella di “individuo”.

L’individuo è, infatti, un atomo sperso nel vuoto dell’universo mondo; anzi è il singolo che combatte, compete con l’altro singolo, è l’homo homini lupus: è la parola chiave dell’ideologia liberista, per la quale non solo non esiste e non si può formare una comunità, ma non esiste manco la società (ricordi la Thatcher?).

La persona è, invece, il singolo che si è fatto e si fa continuamente comunità assieme agli altri, a coloro con i quali condivide un territorio, ma anche – seppure solo virtualmente, ma non meno concretamente – con tutti i suoi fratelli dell’unica e stessa Madre Terra.

Questa nuova visione del mondo – nella quale “locale” e “globale” sarebbero le due facce di un’unica medaglia – dovrebbe chiamarsi perciò “comunitarismo”.

Che è cosa ben diversa dal “comunismo”, nel quale la persona spariva in nome degli interessi “superiori” della massa, della società; e spesso veniva oppressa, a volte annientata, in nome di quegli interessi.

Nel comunitarismo la persona non sparisce per niente, perché gode degli stessi diritti ed è debitore degli stessi doveri della comunità.

Anzi all’interno della comunità la persona è valorizzata al massimo, la persona è il fondamento stesso della comunità.

Non so se queste parole ti esprimono?

Conoscendoti abbastanza, sono propenso a pensare di sì.

Unito in una comune campagna culturale (la parola “battaglia” non mi piace”) ti auguro una felice Pasquetta,

Giovanni Lamagna

Il primo oggetto dell’amore.

Per chi ama veramente, correttamente, sanamente, l’altro non è mai (o non dovrebbe essere mai) il primo oggetto dell’amore.

Quello dell’altro è sempre il volto attraverso il quale si manifesta il vero oggetto dell’amore, che trascende sempre il singolo oggetto d’amore.

Anche se poi “il vero oggetto dell’amore” s’incarna, si materializza nel singolo, particolare, piccolo, oggetto d’amore, se non vuol rimanere soltanto un’idea.

Se non vuole rimanere anzi, come diceva Giorgio Gaber in una sua canzone famosa (“Chiedo scusa se parlo di Maria”), un’ideologia.

Ma, comunque, il primo vero oggetto d’amore è ciò (la vita in sé) o colui (Dio) che unifica tutti i singoli, particolari, piccoli, oggetti d’amore; in qualche modo li trascende e, perciò, può dare un senso alla nostra esistenza.

Se non fosse così, il nostro amore non sarebbe altro (come spesso purtroppo, invece, è) che dipendenza; e, quindi, un circolo vizioso, avvitato su sé stesso: tu dai un senso a me ed io do un senso a te; io mi appoggio a te e tu ti appoggi a me.

L’amore che regge alcune coppie, ad esempio, è esattamente di questo tipo: come dice Erich Fromm, una sorta di “egotismo a due”.

Quando, poi, questo circolo vizioso viene a crearsi tra genitori e figli è particolarmente grave e insano.

Perché, mentre i figli sono (con tutta evidenza) per alcuni (molti?) genitori ciò che dà senso (in alcuni casi, addirittura, l’unico) alla loro esistenza, quegli stessi figli chiedono ai genitori di indicare, anzi testimoniare, loro il senso dell’esistenza.

Ottenendone, in questo caso, una risposta puramente tautologica e, quindi, del tutto insoddisfacente.

© Giovanni Lamagna

Dopo aver visto l’ultimo film di Nanni Moretti “Il sol dell’avvenire”.

Il cinema di Nanni Moretti (da “Ecce bombo” in poi, il primo film che ho visto di questo autore nel lontano 1978) è sempre stato un cinema di confessione, una sorta di diario per immagini o di auto-psicoanalisi davanti alla macchina da presa.

Questo film lo è forse ancora di più, in una forma ancora più dichiarata.

In primo luogo perché, non a caso, alcune sue scene sono dedicate alla psicoterapia della moglie del protagonista (Paola), attraverso la quale Giovanni (Moretti), il marito/regista, sembra quasi voler psicoanalizzare sé stesso.

E poi perché il film procede per spezzoni disordinati, messi in sequenza quasi a caso, come se fossero il frutto, il parto di libere associazioni, come avviene appunto (o dovrebbe avvenire) in una seduta di psicoanalisi.

Attraverso la psicoanalisi dell’autore, infine, noi spettatori siamo portati a nostra volta a psicoanalizzarci, a guardare dentro noi stessi, identificandoci coi o dissociandoci dai vari personaggi del film in maniera sempre emotivamente molto forte.

Da questa sorta di diario aperto o di autoanalisi pubblica – ovviamente confusi e a tratti perfino caotici – è possibile cogliere però, in maniera abbastanza chiara e distinta, i temi centrali del film, che sono poi quelli classici della filmografia di Moretti.

Innanzitutto l’amore e la politica, che a me appaiono posti sullo stesso piano, intrecciati in maniera che definirei indissolubile, essendo i temi che hanno caratterizzato un’intera generazione (quella che ha vissuto la sua giovinezza a cavallo tra gli anni ’60 e ‘70).

O almeno quella parte di generazione, che – pur essendo, a pensarci bene, minoritaria – ne ha comunque segnato il tratto caratteristico, potremmo anche dire storico: la commistione indissolubile tra pubblico e privato (“il personale è politico”).

Relativamente a queste due tematiche (che sono quelle centrali del film) una battuta mi ha colpito in un modo particolare; quella che pronuncia Margherita Buy (Paola la moglie di Giovanni, il regista) in una delle sedute con lo psicoanalista: “Io e Giovanni parliamo di tutto… di politica, di cinema, di lavoro… tranne che di noi due…”.

Come ad esprimere un bisogno, un desiderio ed allo stesso tempo confessare una difficoltà, un’incapacità, che sono non solo di Moretti uomo, ma forse quelle di una intera generazione.

Bisogni, desideri, difficoltà, incapacità, che, a loro volta, mi ricordano una canzone famosa di Giorgio Gaber, “Chiedo scusa se parlo di Maria”, le cui parole raccontano un problema molto simile a quello espresso da Paola/Buy nel film di Moretti:

Non è facile parlare di Maria… ci son troppe cose che sembrano più importanti… mi interesso di politica e sociologia… per trovare gli strumenti e andare avanti… mi interesso di qualsiasi ideologia… ma mi è difficile parlare di Maria…

Se sapessi parlare di Maria… se sapessi davvero capire la sua esistenza… avrei capito esattamente la realtà… la paura, la tensione, la violenza… avrei capito il capitale, la borghesia… ma la mia rabbia è che non so parlare di Maria…”

Il terzo tema che emerge dal film è una riflessione sul cinema stesso: il cinema di oggi e il cinema del passato, quello a cui Moretti chiaramente si ispira (a cominciare, ovviamente, da quello di Fellini, di cui nel film ricorrono almeno tre citazioni, parlate o semplicemente sceniche).

Il quarto è collegato al terzo: è il tema della violenza, che sembra essere diventato quello centrale di un certo cinema contemporaneo e che Moretti stigmatizza in maniera esplicita e molto forte: è una vera e propria istigazione alla violenza; la tragedia greca o Shakespeare (per citare alcune battute del film) non c’entrano nulla!

Il quinto mi sembra essere il tema della “terza età”: forse per la prima volta nei suoi film Moretti si vede e si riconosce come uomo oramai anziano, che non ha più molto tempo davanti a sé (chiara l’allusione a questo tema, quando dice ai suoi attori: “… bisogna accelerare, andare più veloci!”).

Moretti lo affronta con dolente malinconia, che a tratti sfiora persino la depressione; ma questa poi alla fine non la vince, perché ben presto in lui prevale il bambino, che canta, che balla, che ha occhi pieni di candido stupore, che gioca perfino a pallone da solo in una piazza vuota.

Infine, il tema di una visione (a voler usare un aggettivo eufemistico) disincantata del presente, che, non a caso, nella prima stesura della sceneggiatura ispira al regista-autore-del-film-nel-film una scena finale disperata, quasi nichilista, figlia evidente del suo “pessimismo della ragione”.

Che però, d’improvviso, al termine della lavorazione, quasi all’ultimo ciak, viene completamente ribaltata (è forse questo l’esito finale della psicoterapia pubblica a cui Moretti si è sottoposto?) da una visione del futuro, nonostante tutto sommato, illuminata dalla speranza.

Visione, io credo, figlia di un “ottimismo della volontà”, a cui evidentemente l’autore – nonostante tutto – pur senza ricorrere ad alcuna sdolcinatura retorica, non sa e non vuole rinunciare.

La citazione delle parole di Gramsci mi pare qui d’obbligo vista la presenza incombente nel film del grande (ed eretico) pensatore sardo, posta forse in contrapposizione all’altro grande (ma allineato e coperto) esponente del PCI, Togliatti.

Anche qui non a caso la scena finale del film, che si svolge lungo i Fori imperiali di una Roma luminosa e assolata, è una sorta di citazione della marcia del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, completamente rivisitata, però.

A marciare, infatti, sono gli attori storici di Moretti, quelli che hanno recitato in molti suoi film (cosa voleva dire Moretti qui: il suo addio al cinema? mi auguro di no!), e allo stesso tempo i politici (a cominciare da Togliatti) che sono stati protagonisti di sfondo del suo “film nel film”.

Marciano però sotto i vessilli degli sconfitti della Storia (si intravede – unico e, a mio avviso, non casuale – il ritratto di Trotsky), a voler significare che non è vero che la storia non si può fare con i “se” e i “ma”.

La tesi di Moretti (affermata in modo esplicito nel film) è che la Storia la si può giudicare e valutare (eccome!) con i “se”, se non altro perché questo potrebbe insegnarci qualcosa per il futuro e impedirci gli stessi errori (spesso tragici) compiuti in passato.

In conclusione – sembra dire Moretti – non si può e non si deve rinunciare alla speranza e alla lotta perché in futuro il sole (le utopie in cui molte generazioni avevano creduto) torni a splendere.

Magari apprendendo dalle lezioni che ci ha dato la Storia e correggendo gli sbagli, in certi casi i clamorosi abbagli, che quelle utopie contenevano e che hanno portato agli esiti disastrosi, che sono sotto gli occhi di tutti noi.

Come chiudere, infine, questa mia personale e direi intima recensione del film di Moretti, senza citare le canzoni che ne formano, in un certo senso, la colonna sonora (un classico morettiano!)?

In modo particolare: “Think”, cantata da Aretha Franklin e ascoltata in auto da Giovanni e Paola, che, quasi in trance, si mettono a ballare fanciullescamente (specie Moretti) sulle note della musica.

E poi “Sono solo parole” di Fabrizio Moro, cantata a squarciagola, come in un momento liberatorio, da tutta la troupe del film che Giovanni/Moretti sta girando; forse a significare che le parole della politica sono insignificanti e vane, quando sono staccate dalla vita reale, emotiva e sentimentale, anche privata, delle persone.

Quindi “Lontano, lontano” di Luigi Tenco, che compare in un momento topico della lavorazione del film, quando il vero tema si rivela essere (finalmente!) quello dell’amore e non quello politico; quando Barbara Boulova, con sfacciato e femminile candore, sbotta e dice “Chi se ne frega della politica, questo è un film d’amore!”.

E poi “La canzone dell’amore perduto” di Fabrizio De André, che fa da sottofondo malinconico alla separazione in atto tra Paola e Giovanni, che Paola è (oramai e, anche qui, finalmente!) decisa a realizzare (“il rapporto con te è troppo faticoso”), ma alla quale Giovanni, il marito/regista, invece, non vuole rassegnarsi.

E, infine, “Voglio vederti danzare” di Franco Battiato, che chiude la lavorazione del film a cui sta lavorando il regista Giovanni/Moretti in forma definitivamente liberatoria, quando la scena (prevista) dell’impiccagione del protagonista (Silvio Orlando) viene sostituita da un ballo collettivo degli attori, che diventa poi corteo lungo la via dei Fori imperiali.

© Giovanni Lamagna

Il marxismo come religione

Mi diventa sempre più chiara e distinta l’idea che per molti l’adesione all’ideologia marxista e ai partiti che ad essa si richiamano abbia a che fare con una sorta di fidelizzazione ad una religione, per quanto atea, e di affiliazione ad una chiesa, per quanto secolarizzata.

Stesso fanatismo ideologico/dogmatico, stessa presunzione di far parte di un gruppo di iniziati, privilegiati e predestinati, stesso iperattivismo nel fare proseliti, stessa tentazione di fare ricorso (anche) alla violenza, per quanto a fin di bene, che nel caso specifico sarebbe la “rivoluzione”.

© Giovanni Lamagna

Struttura e sovrastruttura

Il rapporto tra struttura e sovrastruttura è, a mio avviso, uno dei punti più deboli della teoria marxiana.

La concezione della “sovrastruttura ideologico-culturale” condizionata (se, non, addirittura, determinata) dalla “struttura economico-sociale” è troppo rigida, anzi infondata.

Per me tra la struttura e la sovrastruttura sussiste un rapporto non unidirezionale, ma dialettico complementare, reciproco: l’una condiziona l’altra e viceversa.

© Giovanni Lamagna

Si può essere non comunisti, non più giovani e vivere ugualmente ideali ed emozioni forti?

Nel suo bel libro “Soli eravamo…” (2014; editore: ad est dell’equatore)), Fabrizio Coscia nel capitolo intitolato “il giorno che diventai comunista” così scrive (pag. 162-163):

Ai tempi del liceo mi consideravo a tutti gli effetti un postsessantottino, benché nel ’68 avessi solo un anno. Ma tant’è. Erano sottigliezze anagrafiche a cui non badavo. Ho votato per Democrazia Proletaria e continuato a studiare Marx per qualche anno. Simpatizzavo per l’Olp e le Black Panthers, mi piaceva Dario Fo, ascoltavo “La locomotiva” di Guccini”, leggevo “Le ceneri di Gramsci” di Pasolini e divenni un fanatico di Bertolt Brecht.

Per poi proseguire con una domanda:

Oggi che non sono più comunista, mi chiedo come abbia fatto, in quegli anni, a sopportare tanta retorica ideologica, uscendone più o meno indenne.

E darsi la seguente risposta:

Sarà che ero giovane, e che forse comunisti davvero, con tutto l’ardore e la passione dell’idea comunista lo si può essere soltanto da giovani.

E subito dopo:

Però non capisco perché, oggi, nonostante non sia più comunista e non abbia più vent’anni, le immagini dei caccia che bombardano il Palacio de la Moneda, l’11 settembre 1973 a Santiago del Cile, e quelle di Salvador Allende assediato che si difende con l’elmetto e il fucile mitragliatore regalatogli da Fidel Castro suscitano in me una grande emozione. Così come il “sorriso aperto” di Victor Jara e il canto popolare di Violeta Parra. O come “El pueblo unido jamas serà vencido”, quando lo canto in macchina, ancora adesso, insieme a mia figlia.

E darsi la seguente spiegazione:

Magari sarà solo nostalgia dei tempi andati, oppure il rimpianto di qualcosa, in quell’idea meravigliosamente utopistica, che poteva andare in maniera molto diversa da come poi è andata.

Queste parole di Fabrizio Coscia mi hanno particolarmente colpito per almeno due motivi che vorrei qui di seguito illustrare.

Il primo motivo è che io (al contrario di Fabrizio Coscia) non sono mai diventato e stato comunista, perché non ho mai condiviso (manco da giovane) l’idea che per realizzare la piena eguaglianza sociale bisognasse instaurare una dittatura, fosse anche quella del proletariato.

Non sono mai diventato e stato comunista, pur avendo molto amato le canzoni degli Inti-illimani (tra le quali, ovviamente, “El pueblo unido…”) e quelle di Violeta Parra. Pur avendo conosciuto e apprezzato molto il pensiero di Carl Marx (che considero uno dei massimi pensatori economico-sociali della storia). Pur avendo votato sempre a sinistra (prima il PCI di Enrico Berlinguer, poi il Pdup di Lucio Magri, poi – a varie riprese – Rifondazione Comunista…). Pur avendo amato molto Dario Fo e Pier Paolo Pasolini, meno le canzoni di Guccini (che giudico deboli e noiose musicalmente per i miei gusti) e le opere di Brecht (che però – confesso la mia ignoranza– conosco ben poco).

Il secondo è che ho vissuto le vicende del Cile di Allende quando ero un uomo già adulto, non più giovanissimo e meno che mai un ragazzino (come era invece in quegli anni Fabrizio Coscia). Le ho vissute, quindi, intensamente; e non solo con grande partecipazione emotiva ma anche con grande consapevolezza politica.

Ricordo benissimo, dunque, che Allende non era affatto comunista, bensì un socialista democratico e, tuttavia, pienamente conseguente con le sue idee: voleva cioè realizzare il socialismo in maniera pacifica e non violenta, attraverso riforme democraticamente approvate in Parlamento (a cominciare dalla sacrosanta nazionalizzazione delle miniere di rame, prima in mano alle multinazionali); e in questo modo scatenò la reazione dei “democraticissimi” Stati Uniti d’America.

Questi due dati di fatto (anagrafici, anzi biografici) hanno quindi stimolato in me le riflessioni che seguono:

1. Si può essere giovani senza per questo sentire il bisogno di diventare comunisti, senza dunque per forza di cose diventare vittime della “retorica ideologica” che il Coscia diventato adulto giudica oramai insopportabile.

2. Non è necessario essere giovani per coltivare degli ideali e, persino, delle utopie. Gli ideali senz’altro, ma forse anche le utopie, possono entrare a far parte a pieno titolo dei bagagli che una persona si può portare appresso anche in età adulta e perfino da anziano: non sta scritto da nessuna parte che la maturità e persino la vecchiaia debbano essere fatalmente le età del disincanto e delle amare disillusioni, madri e padri del cinismo, se non della disperazione.

3. Quelli che cadono in età adulta (ed è giusto sia così) sono i falsi ideali e le utopie senza nessun contatto con la realtà. Non è destino, invece, che debbano tramontare gli ideali e persino le utopie che hanno un fondamento nella realtà, cioè nella universale esigenza umana di libertà, uguaglianza, fratellanza, ideali che saranno pure utopici, ma che, come dice bene Galeano, hanno la funzione ben reale di aiutare gli uomini a camminare sulla strada del progresso sociale e civile.

4. Non c’è quindi alcuna contraddizione tra l’essere diventati oramai persone mature o (come nel mio caso) addirittura anziane e continuare a provare emozioni ancora molto forti al ricordo dei fatti cileni del 1973 o ascoltando le canzoni di Violeta Parra e degli Inti-illimani.

Anzi continuare a provarle in tarda età è segno di buona salute psicologica.

Queste emozioni (almeno nel mio caso) non possono essere ridotte dunque (come pensa di sé Fabrizio Coscia) alla nostalgia o al rimpianto per i bei tempi andati. Perché affondano le radici in ideali e convinzioni che sono ancora in me ben presenti, vive e vitali, niente affatto tramontate.

© Giovanni Lamagna

Siamo sia angeli che demoni. Alla fine di questo tempo di corona virus saremo più angeli o più demoni?

Nel numero del 17 aprile 2020 de “il venerdì di Repubblica” è comparso un articolo, a firma di Alex Saragosa, dal titolo “Siamo buoni per natura (quasi come le formiche)”, nel quale vengono riportate (ovviamente in forma molto sintetica) le tesi di Edward Wilson, 91enne professore emerito ad Harvard e padre della sociobiologia, una disciplina che si colloca a metà fra la biologia e la sociologia, fra le scienze naturalistiche e quelle umanistiche.

Lo riporto quasi integralmente (con piccole modifiche) e quasi interamente, per poi utilizzarlo come (pre)testo per una riflessione su un tema che mi sta molto a cuore, uno dei temi classici della filosofia: l’uomo è prevalentemente buono o prevalentemente cattivo?

“Nel suo “Le origini profonde delle società umane” (Raffaello Cortina Editore), Wilson identifica sei tappe nell’evoluzione del mondo vivente, ognuna caratterizzata dall’apparizione di strutture di complessità superiore: si comincia (1) con la comparsa stessa della vita e si prosegue (2) con la formazione delle cellule eucariote, nate dalla fusione di più rudimentali cellule batteriche, (3) lo sviluppo del sesso, che crea nuovi individui mescolando il genoma di altri, (4) l’apparizione di esseri viventi multicellulari e poi (5) quella delle società animali.

Al vertice di queste società – spiega Wilson – ci sono quelle delle specie eusociali: qui gli individui sono disposti a sacrificare la riproduzione o persino la vita per il bene comune del gruppo a cui appartengono, come accade per termiti, formiche, api, ma anche per Homo sapiens, l’unica specie che abbia raggiunto anche la sesta tappa della complessità, lo sviluppo di un linguaggio simbolico astratto che consente un eccezionale coordinamento fra gli individui.

Questo primato, secondo Wilson, non ci deve però dare l’illusione di essere “speciali”: siamo, come tutti gli altri viventi, solo frutto di circostanze fortuite.

Il nostro successo deriva soprattutto dall’avere agili mani da primate, liberate poi dal camminare eretti, che ci hanno avvantaggiato nell’uso di oggetti su chi ha pinne, ali o artigli, e dall’aver ereditato il cervello di scimmie sociali, quindi già predisposto per la comunicazione e la decifrazione di emozioni e intenzioni altrui.

E’ con queste poche qualità che, circa cinque milioni di anni fa, abbiamo affrontato la savana, un ambiente ricco ma pericoloso, in cui la salvezza poteva venirci solo dall’agire collettivamente. Ciò ci ha spinto verso lo sviluppo ulteriore di comunicazione, solidarietà ed empatia, fino al sacrificio dei singoli a vantaggio del gruppo.

Nella savana abbiamo anche costruito i primi rifugi, dove alcuni badavano alla prole, e iniziato a usare il fuoco, che certo solo certi individui sapevano come gestire.

La presenza di un altruismo estremo, di un nido da difendere e di caste specializzate in certi compiti sono tutti segni di eusocialità” spiega Wilson.

Insomma i gruppi di ominidi, una volta nella savana, sono riusciti a sopravvivere solo diventando superorganismi sociali, come formicai o alveari, in grado di battere qualsiasi avversario e, con il tempo, hanno evoluto un linguaggio simbolico di gesti e suoni sempre più complesso, che ha consentito loro di mettere in comune anche le menti e, quindi, idee, ricordi e scenari futuri.

Ciò ha instaurato un circolo virtuoso fra crescente abilità nella caccia, più carne nella dieta, sviluppo di cervello e abilità cognitive, fino ad arrivare a Homo sapiens.

Uno scenario suggestivo, che però sembra avere un problema: noi non siamo insetti dall’altruismo geneticamente obbligato, possiamo scegliere se esserlo o meno. Se è l’eusocialità il segreto del nostro successo, come abbiamo fatto ad evitare la “trappola dell’altruismo” per cui, se in un gruppo ci sono altruisti ed egoisti, i secondi prosperano a spese dei primi, diffondendo di più i loro geni?

Questo è un punto molto dibattuto da decenni – risponde Wilson – La soluzione è arrivata con la teoria della selezione di gruppo, che in sintesi si può definire così: all’interno di un gruppo gli egoisti vincono, ma nella competizione fra gruppi vincono quelli con più altruisti.

In altre parole , la selezione individuale premia i più capaci ad accaparrarsi risorse e partner; ma se, come ci è accaduto nella savana, si ha bisogno di un gruppo solidale per sopravvivere, quelli con tanti egoisti dentro non ce la fanno, mentre quelli ricchi di altruisti prosperano, diffondendo, con gli scambi riproduttivi fra i gruppi, i geni della cooperazione e dell’empatia.

Con il tempo l’altruismo è diventato regola – premiare generosità e reciprocità accomuna tutte le società umane – con punizioni per chi non le rispetta. (…)

(…) Per Wilson è questo il punto chiave: è la contraddittoria “doppia selezione” a cui siamo stati sottoposti ad averci fatti diventare “sia angeli che demoni”.

Il dilemma del Bene e del Male è nato da questo contrasto.

La selezione individuale, che premia i singoli più capaci di riprodursi modellando istinti egoistici, è responsabile di buona parte di ciò che chiamiamo Peccato.

La selezione di gruppo, che premia le comunità più abili a sfruttare le risorse del territorio e modella istinti altruistici, è responsabile di buona parte di ciò che chiamiamo Virtù.

Il problema è che la virtù si esprime solo all’interno di ciò che consideriamo la nostra comunità: al di fuori tornano a dominare le pulsioni più egoistiche e distruttive.

Così, quando il gruppo è minacciato da un “nemico esterno”, contro di esso diventa ammissibile tutto ciò che puniamo all’interno del gruppo: omicidi, furti, stupri, torture.

Per evitarlo bisognerebbe riconoscere l’intera umanità come “nostro gruppo”, cosa intuita da varie filosofie e religioni.

Purtroppo la storia, con i suoi massacri, la cronaca – pensate agli scontri fra tifosi – e vari esperimenti psicologici dimostrano che amiamo tanto dividerci in comunità ristrette, separate da etnia, fede, ideologia, persino mode, e diffidenti delle altre.

Anche ai tempi di facebook e degli amici virtuali, il cerchio di quelli per cui ci sacrificheremmo resta limitato quanto quello di un cacciatore paleolitico, di cui in fondo abbiamo ancora geni e cervello.

In tempi in cui Homo sapiens decide dei destini della biosfera, superare il tribalismo è però questione di vita o di morte.

Sarebbe l’unico modo per trovare soluzioni globali a problemi globali come pandemie o cambiamento climatico, superando gli egoismi. Ma oramai dubito che ci riusciremo.

Sarebbe stato allora preferibile un’umanità-formicaio, con individui del tutto altruistici?

Forse, ma non avrei voluto viverci: è dalla spinta egoistica a migliorare la propria condizione che sono nate tante idee utili per tutti, mentre è dalla dualità bene/male che deriva gran parte della nostra produzione artistica.

Le formiche costruiscono città meravigliose, certo, ma non hanno uno Shakespeare che ne racconti i tormenti interiori.

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E adesso vorrei riportare le mie riflessioni nel merito delle affermazioni contenute nell’articolo.

1.La prima che mi viene è relativa al termine stesso “sociobiologia”, che mi piace molto, in quanto anche per me l’uomo (qualsiasi uomo, di qualsiasi contesto geografico e di qualsiasi epoca storica) è il frutto/risultato, la combinazione, sia di fattori genetici, biologici, sia di fattori ambientali, storico/culturali.

  1. Anche io penso che la caratteristica più tipica dell’homo sapiens, rispetto alle altre specie animali, sia il linguaggio. Tanto è vero che più è povero il suo linguaggio e tanto più l’essere umano si avvicina o si differenzia poco dalle altre specie animali.
  2. Concordo anche sul fatto che la necessità di affrontare i rischi di un ambiente esterno, ricco ma pericoloso, abbia stimolato nei primi ominidi lo spirito collaborativo. Anche se ritengo che non devono essere mancate anche a quell’epoca situazioni di conflitto e di aggressività all’interno dei gruppi ominidi.
  3. Ma sicuramente la tesi per me più interessante esposta da Wilson, alla quale vorrei dedicare la parte principale di questa mia riflessione, è quella della “doppia selezione”: la selezione che avviene all’interno dei gruppi e quella che avviene nella competizione tra i gruppi.

La prima favorisce gli “egoisti”: coloro che sanno appropriarsi della maggiore quantità di beni disponibili nell’ambiente e congiungersi alle donne più belle, più sane e più fertili.

La seconda favorisce gli “altruisti”, cioè coloro che hanno maggiore spirito collaborativo, che quindi sono più capaci di tenere il gruppo coeso, condizione questa necessaria per poter competere (e vincere) con gli altri gruppi.

Il dilemma del Bene e del Male è nato da questo contrasto”, dice Wilson. E, a mio avviso ha perfettamente ragione. La sua teoria fa giustizia delle opposte tesi che si sono succedute e contrastate nel corso della storia del pensiero filosofico.

Quelle secondo le quali (la minoranza di esse) l’uomo sarebbe fondamentalmente buono e virtuoso. E quelle secondo le quali (la maggioranza di esse) l’uomo sarebbe principalmente cattivo e vizioso.

A mio modesto modo di vedere (e mi fa piacere che le tesi di Wilson lo confermino), l’uomo non è né solamente buono, né solamente cattivo, ma è buono e cattivo, angelo e demone allo stesso tempo, un impasto di bontà/generosità e di cattiveria/egoismo.

In certe situazioni prevale – come giustamente nota la sociobiologia – la prima caratteristica: quando il gruppo, di cui l’individuo è parte, deve fronteggiare un nemico esterno, ad esempio un gruppo ostile o un pericolo naturale.

In altre situazioni prevale la seconda caratteristica, quando il rischio esterno è vissuto dal gruppo come remoto o del tutto assente.

Mi pare che alcune situazioni della nostra storia recente (mi riferisco in questo caso al periodo che va dalla fine della II guerra mondiale ai giorni nostri) lo confermino plasticamente. Ne cito solo alcune, ma se ne potrebbero credo riportare molte altre, anche di altri periodi storici.

La prima che mi viene in mente è quella che dal 1945 fino al 1989 ha visto competere due blocchi di paesi, raggruppati attorno a due grandi superpotenze: il blocco dei paesi del mondo occidentale, sotto l’egemonia imperiale degli Stati Uniti, e quello dei paesi dell’Est europeo e in parte anche dell’estremo oriente asiatico, sotto l’egemonia, altrettanto imperiale, dell’allora Unione Sovietica.

La forte e minacciosa competizione esistente tra questi due blocchi determinò in quella fase, all’interno di ciascuno di essi, un altrettanto forte (certo, non del tutto privo di contraddizioni e conflitti, per carità) spirito di solidarietà e di collaborazione.

Non a caso i decenni compresi tra il 1945 e il 1975 sono passati alla storia con la definizione di “trentennio glorioso” o di “compromesso aureo” tra il capitale e il lavoro, almeno nei paesi del blocco occidentale.

Ma analogo fenomeno, anche se con caratteristiche del tutto diverse, si verificò in fondo anche nel blocco opposto.

Ulteriore e molto significativa conferma (tra l’altro collegata alla prima) della teoria sociobiologica la possiamo avere dal fatto che – una volta crollato, imploso su se stesso, il blocco dei paesi dell’Est, imperniato sull’URSS – nei paesi occidentali, è venuto ben presto meno quello spirito solidale e collaborativo che li aveva caratterizzati nel primo trentennio postbellico, il cui massimo frutto era stato il “welfare-state”.

A sostituirlo è emerso un forte spirito individualistico e competitivo, espresso “magnificamente” e simbolicamente dall’affermazione del primo ministro britannico Margaret Thatcher “la società non esiste, esistono solo gli individui”.

Una volta scomparso il nemico esterno, si è affermato un pensiero unico ultraliberista (o neoliberista che dir si voglia) tutto basato sulla competizione estrema tra gli individui, tra i soggetti organizzati (ad esempio, tra padronato e sindacati), tra le nazioni, persino tra quelle omologhe ed affini per struttura socioeconomica, cultura, storia, organizzazione istituzionale-politica.

Sono entrati in crisi organismi sovranazionali quali l’ONU (l’Organizzazione delle Nazioni Unite), che è diventata poco più che un simulacro e, perfino, la stessa Comunità Europea.

Che (non a caso, a mio avviso) ha rinunciato al nome troppo impegnativo di Comunità per assumere quello molto più generico e vago di Unione, laddove di “unione” c’è ben poco, mentre vi prevale, appunto, una notevole competizione.

E’ quasi inutile qui evidenziare che in un tempo di mondializzazione sfrenata, come quello in cui ci troviamo attualmente, in cui il nostro pianeta sembra essere diventato un unico villaggio globale, di solidarietà se ne veda ben poca.

Si sono accorciate enormemente le distanze che fino a pochi decenni orsono separavano in maniera quasi incolmabile i popoli tra di loro, ma paradossalmente l’umanità sembra essere diventata una specie di giungla, dove ciascun uomo è lupo per l’altro uomo, dove quindi alcuni (pochi) vincono e altri (moltissimi) perdono, con un allargamento conseguente  della forbice delle disuguaglianze da far paura.

Cosa dobbiamo dedurre da questa brevissima e molto sommaria ricostruzione della storia di questi ultimi 70/75 anni? Che nella lotta, da sempre esistita, tra il Bene e il Male, tra l’Angelo e il Demone presenti nell’uomo, hanno, almeno per il momento, prevalso, se non vinto, se non proprio trionfato definitivamente, il Male e il Demone?

A giudicare dallo “stato presente” delle cose sembra di sì. E, a voler tener conto della teoria della “doppia selezione” di Wilson, sembra poter essere questo il risultato finale e definitivo della antica contesa.

Mancando, infatti, un “nemico” esterno ed essendo diventata l’Umanità un unico gruppo globalizzato, tutto sembra dirci che, al suo interno, prevarranno gli “istinti egoistici”, la tendenza cioè di individui e (piccoli o grandi) gruppi ad accaparrarsi (a danno di altri) quante più risorse possibili di quelle che mette a disposizione il nostro pianeta, diventato oramai un piccolo villaggio, per quanto globale.

A cominciare da una risorsa elementare e basilare quale l’acqua; e qualcuno già prevede per un prossimo futuro persino l’aria.

Questo potrebbe dar ragione al pensatore americano, Francis Fukuyama, che qualche anno fa profetizzò la fine della Storia. Nel senso della fine della dialettica tra opposti principi (bene e male) e opposti soggetti (sfruttati e sfruttatori), con la vittoria definitiva (dico io) dei secondi sui primi.

Se non è già così, sarà probabilmente così in un prossimo futuro. A meno che non si verifichino due scenari, che potrebbero ancora modificare questo esito, prima che esso diventi davvero finale e, soprattutto, irreversibile.

Il primo lo definirei apocalittico e molto poco desiderabile, anche se potrebbe in qualche modo anch’esso alimentare nuovamente la antica “doppia selezione” di cui parla la sociobiologia: quella tutta interna ai gruppi e quella tra gruppi e gruppi.

Il secondo potrebbe essere definito pre-apocalittico, ma, a differenza del primo, avrebbe quanto meno l’effetto di mobilitare le energie migliori dell’umanità, quelle che la sociobiologia definisce eusociali.

Il primo scenario potrebbe essere quello della ricostituzione di nuovi blocchi di potenze imperiali che si contrappongano nella lotta per l’egemonia globale sul pianeta.

Questo scenario non è affatto irrealistico, anzi è molto probabile che si realizzi (se non si è già realizzato), vista l’ascesa impetuosa e travolgente che ha avuto la Cina in questi ultimi due o tre decenni. Prossima oramai a contrastare da pari a pari l’egemonia degli Stati Uniti, in atto da almeno un secolo.

Se questa ascesa andrà avanti (come tutto lascia supporre), allora potrebbe succedere che, all’interno dei nuovi blocchi contrapposti che verrebbero a formarsi, riprenda vigore quello spirito cooperativo e solidaristico, che abbiamo visto si afferma quando è in atto una competizione tra gruppi ostili.

La non piena desiderabilità o la totale indesiderabilità di un tale scenario è dovuta al fatto che esso potrebbe sfociare prima o poi (come sempre è successo nella storia dell’Umanità) in un conflitto mondiale di portata ancora più devastante dei due già esplosi nel secolo scorso.

Probabilmente definitivo (questo sì!) per la vita dell’Umanità, perché non solo sarebbe di dimensioni globali (di gran lunga superiori a quelle dei primi due conflitti mondiali), ma anche perché vedrebbe il ricorso ad armi enormemente devastanti, in grado di distruggere forse la gran parte della vita (non solo umana) sul pianeta.

Il secondo scenario che ipotizzavo si potrebbe affermare in seguito al profilarsi di un pericolo o di più pericoli comuni, cioè condivisi dall’intero genere umano, al di là delle pur grandi differenze economiche, sociali, culturali, ideologiche, politiche, che oggi lo contraddistinguono.

In questo caso l’interesse a fronteggiare un pericolo o pericoli comuni potrebbe stimolare nel “gruppo globale Umanità” quei sentimenti solidaristici che sempre nella storia dell’uomo, fin dai tempi dei primi ominidi, si sono manifestati quando un determinato gruppo doveva fronteggiare un gruppo ostile o un problema esterno.

Quali potrebbero essere questi pericoli condivisi in grado di mobilitare le energie migliori dell’Umanità, i suoi sentimenti eusociali? Si possono fare già adesso delle ipotesi, delle supposizioni, delle proiezioni probabili in vista di un futuro più o meno prossimo, più o meno remoto? Certo! Se ne possono fare!

Uno, forse, lo stiamo già sperimentando in questi giorni. La pandemia del Covid 19 è un mostro che minaccia non un singolo popolo o un gruppo ristretto di popoli della Terra, ma tutti i popoli del pianeta, chi più e chi meno e però tutti indistintamente. Non ce n’è uno solo che possa dirsi al sicuro dalla sua minaccia.

Ecco allora che questo pericolo potrebbe costringere l’Umanità ad una cooperazione forzata, anche non voluta, anche non desiderata, ma alla quale essa si potrebbe vedere costretta, per non correre il rischio (mortale) di una estensione del contagio che danneggerebbe tutti i popoli della Terra e non solo alcuni a vantaggio di altri.

Il secondo pericolo è stato ampiamente segnalato dalla (gran parte della) comunità scientifica già da alcuni decenni: quello del surriscaldamento dell’atmosfera che circonda la Terra, in seguito alla forte emissione di gas (specie CO2) prodotti dall’uomo.

Tale surriscaldamento sta provocando, almeno da una decina d’anni a questa parte, vistosi cambiamenti climatici, che potrebbero entro pochi decenni apportare gravissimi e molto probabilmente irreversibili danni all’ecosistema che ha finora reso possibile la vita dell’uomo su questo pianeta.

Di questo allarme le istituzioni politiche nazionali e sovranazionali sono state tutte ampiamente avvertite. Non tutte però lo condividono allo stesso modo: anzi alcune – ad esempio, l’attuale amministrazione americana e quella brasiliana – non lo condividono per niente. Tutte indiscriminatamente, invece, chi più e chi meno, hanno fatto finora ben poco per porre rimedio al pericolo che incombe.

Da meno di due anni in qua, un po’ in tutto il mondo, (sotto l’impulso dell’attivismo di Greta Thumberg, una giovanissima ragazza svedese, che dall’agosto del 2018 ogni venerdì, ha iniziato a manifestare davanti al Parlamento del suo Paese, ponendo il problema del cambiamento climatico) è nato, dal basso e in modo del tutto spontaneo, un movimento, in prevalenza formato da giovani, denominato “Fridays for future”, che ha posto all’attenzione dell’opinione pubblica generale le questioni di cui sopra.

C’è realisticamente da sperare che questo movimento si estenda sempre di più, che lo imponga all’ordine del giorno delle agende politiche delle Istituzioni ai massimi livelli perché attuino misure all’altezza, che quindi un pericolo come questo, del cambiamento climatico, possa far sì che l’Umanità arrivi a sentirsi un corpo unico, minacciato dallo stesso e comune pericolo, e che questo la stimoli a sviluppare quegli elementi di solidarietà e di eusocialità, che negli ultimi decenni sono sempre più venuti a mancare?

Il professor Wilson sembra dubitarne: si dimostra piuttosto scettico e pessimista al riguardo. Io, invece, non ho del tutto perso la speranza e l’ottimismo. Almeno quello della volontà, se non quello della ragione.

Mi dico e dico agli altri, anche in questo articolo: se non altro bisogna provarci; almeno fino a quando ci saranno margini, pur minimi, per crederci ancora.

© Giovanni Lamagna

Sul ruolo sociale degli anziani

Fino a due/tre generazioni fa questo ruolo era scontato. I giovani, ma anche le persone della generazione di mezzo, non solo lo riconoscevano, ma garantivano agli anziani come minimo il rispetto, in alcuni casi il prestigio delle competenze accumulate negli anni, in qualche caso perfino il carisma della saggezza.

Oggi (ma tale fenomeno è iniziato da almeno una diecina di anni) questi riconoscimenti non solo non sono più scontati, ma sembrano addirittura evaporati; “rottamati” nel senso comune, a voler usare un termine inaugurato da un giovane politico italiano, che col suo linguaggio e ancor più coi suoi comportamenti sembra aver sdoganato definitivamente ed emblematicamente tale fenomeno.

Conviene allora chiedersi se tale cambiamento del modo di pensare e di vivere delle società contemporanee rispetto a quelle trascorse sia positivo o no?

La mia risposta è che no, non lo è per nulla. Anzi, a volerla dire tutta, rappresenta un fenomeno di grave regressione.

E credo che questa mia tesi abbia una sua validità oggettiva, non sia inficiata cioè dal fatto che essa venga sostenuta da uno, come il sottoscritto, che oramai appartiene alla categoria degli anziani.

La mia risposta è no, ed è no per svariati motivi, che proverò qui di seguito ad argomentare.

Il primo motivo è che tale fenomeno rappresenta, a mio avviso, un ulteriore fattore di disgregazione (e non ce ne era di certo bisogno!) che si aggiunge a quelli già presenti da secoli nelle nostre società. La rottura (o, quantomeno, lo iato) tra le generazioni si aggiunge, infatti, a quelli ultra-storici della stratificazione tra classi e ceti e della divisione tra i sessi.

Qualcuno in questi ultimi anni è arrivato addirittura a mettere la generazione dei giovani contro quella degli anziani, colpevoli di voler andare troppo presto in pensione, con livelli di previdenza insostenibili per la casse pubbliche, di godere insomma di diritti (da considerare anzi privilegi) che danneggiavano di fatto la condizione economica e sociale dei giovani.

E i giovani, parecchi giovani, hanno abboccato a questi argomenti di pura propaganda neoliberista, finendo per prendersela con le generazioni anziane, invece che con il vero avversario: quello di classe.

Il quale nel frattempo toglieva comunque diritti acquisiti agli anziani, ma non li riconosceva certo in cambio ai giovani, e ovviamente non spiegava come avrebbe potuto assicurare nell’immediato nuovi posti di lavoro ai giovani nel momento in cui costringeva gli anziani a lavorare fino alle soglie dei 70 anni.

Il secondo motivo per cui reputo il fenomeno di svalutazione del ruolo degli anziani fortemente negativo è che con esso si viene a perdere (o viene notevolmente sottovalutato) un notevole capitale di risorse umane: quello legato all’esperienza e alla saggezza, che (non sempre, ma spesso) è figlia dell’esperienza e, quindi, dell’età avanzata.

Questa “verità” mi è venuta particolarmente in evidenza qualche sera fa vedendo e sentendo parlare per televisione un medico ultrasettantenne, uno dei più illustri immunologi italiani, scienziato di fama mondiale, che veniva intervistato sull’epidemia di corona virus in corso.

Mi hanno colpito, infatti, non solo e (forse) non tanto la sua scienza e le sue competenze, quanto piuttosto il tono e l’atteggiamento complessivo con cui egli rispondeva alle domande dell’intervistatrice, una nota giornalista che tiene un programma televisivo ogni sera all’ora di cena.

Il professore parlava con tono molto pacato, con un atteggiamento estremamente posato, misurando con grande prudenza le sue parole, in certi momenti addirittura confessando la sua incapacità a dare una risposta netta, precisa, senza ombra di dubbi, perché “io sono solo un immunologo e non un virologo”.

Ecco – prendo a supporto questo episodio – per evidenziare che pacatezza, posatezza, prudenza, modestia e umiltà sono in genere caratteristiche/qualità che è dato riscontrare – anche senza voler stupidamente generalizzare – più negli anziani che nei giovani.

I giovani, infatti, senza nulla voler togliere ad altre loro caratteristiche positive, tipiche della loro età (energia, audacia, forza fisica, entusiasmo, prontezza, sveltezza, agilità e immaginazione emotiva e intellettuale…), sono in genere, sui grandi numeri e fatte le debite eccezioni, portati ad essere impulsivi, precipitosi, a volte anche un po’ avventati e persino sfrontati, guasconi, arroganti (vedi il politico cui facevo riferimento in precedenza).

Sottovalutare o addirittura ignorare il ruolo degli anziani significa allora lasciare inutilizzato, accantonare un capitale di doti, qualità, risorse, che sono più tipiche (anche se non esclusive, per carità) degli anziani. E non mi pare onestamente una grande scelta dal punto di vista antropologico-culturale.

Il terzo motivo per cui reputo il fenomeno di svalutazione del ruolo degli anziani fortemente negativo è che esso si regge sull’ideologia (vera e propria ideologia!), connaturata alla società dei consumi diventata sempre più egemone in Occidente nel secondo dopoguerra, secondo la quale “il nuovo è sempre meglio del vecchio”.

Questa ideologia (come tutte le ideologie, del resto!) non ha ovviamente nessuna base scientifica, ma si alimenta solo delle suggestioni pubblicitarie, che da alcuni decenni mirano a convincerci che ogni bene di consumo deve durare lo spazio di un mattino, in modo che noi possiamo buttarlo presto nella spazzatura e comprarne uno nuovo.

In base a questa ideologia, dunque, i giovani sarebbero sempre e comunque migliori degli anziani (per non parlare dei vecchi).

Ora io (anziano) non direi mai (mi sembrerebbe una grande sciocchezza) che gli anziani e i vecchi sono sempre e comunque meglio dei giovani. Ma perché, di grazia, dovrei invece dire che i giovani sono sempre e comunque meglio degli anziani e dei vecchi? Non sarebbe meglio valutarli quantomeno di volta in volta e caso per caso?

Invece oggi succede in Italia (ma, a dire il vero non solo in Italia) che uno diventi primo ministro di un governo prima ancora di compiere 40 anni, ministro degli esteri a poco più di 30 anni, ministra della Pubblica istruzione a 36 anni, avendo nel suo curriculum nient’altro che pochi anni di insegnamento nella Scuola Pubblica, di cui dovrebbe essere invece la massima responsabile politica a livello nazionale.

Faccio qui notare, per inciso, che il ministero della Pubblica Istruzione in Italia è stato retto in passato da “personaggetti” del calibro di Francesco De Sanctis, Quintino Sella, Ruggero Bonghi, Benedetto Croce, Giovanni Gentile, Guido De Ruggiero, Aldo Moro, Oscar Luigi Scalfaro, Giovanni Spadolini, Sergio Mattarella, Tullio De Mauro (per citare solo i più noti), i quali non ci arrivarono di certo da giovani, ma dopo un lungo, regolare e, per giunta, autorevolissimo cursus honorum.

Eppure, all’età della nostra attuale ministra della Pubblica Istruzione, avevano già parecchi titoli in più di Lei.

Ora mi chiedo: è possibile che le doti naturali dei tanti personaggi, che oggi, ancora giovanissimi, ricoprono tanti ruoli pubblici di grande responsabilità, siano talmente elevate da riuscire a pareggiare (anzi superare) le qualità accertate di chi, in passato, dopo aver fatto una naturale e ovvia gavetta, arrivava a ricoprire ruoli di tale prestigio, se non proprio in età anziana, quantomeno in tarda maturità?

Mi permetto di nutrire qualche dubbio.

La mia tesi, che vado sostenendo da tempo, è che le persone, almeno la maggior parte delle persone, diano il meglio di loro, da tutti i punti di vista (emotivo, intellettuale, culturale, professionale e spirituale, tranne quello fisico, procreativo e sportivo) a partire dai 45 anni e almeno fino ai 65.

Tra l’altro, proprio visti l’elevarsi dell’età media della vita e la buona salute fisica e psicologica di cui si gode oggi normalmente almeno fino ai 65 anni di età, che è argomento tratto a pretesto (guarda caso!) dalle ideologie e politiche neoliberiste per tenere impiegati i lavoratori fino alle soglie dei 70 anni.

Per cui non capisco proprio perché gli incarichi di responsabilità, via, via crescenti come grado di importanza, non debbano essere assegnati tenendo conto anche (seppur non solo, ovviamente) del criterio dell’anzianità.

Come avveniva normalmente nelle epoche passate (pensiamo ai “senatores” romani) e come avveniva anche nelle nostre società fino a non molti decenni orsono.

© Giovanni Lamagna

La verità è una persona?

28 gennaio 2015

La verità è una persona?

Qualche giorno fa un amico, commentando il mio scritto “Esiste la verità?”, così rifletteva:

“… Leggendo le tue considerazioni sulla verità mi è venuto subito in mente il dialogo tra Gesù Cristo e Ponzio Pilato (Giovanni; 18,37-38).

Dice Gesù: “Sono venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità” e Pilato gli chiede “Che cos’è la verità?”, ma, almeno secondo il racconto evangelico, non aspetta la risposta.

Ecco un caso di dubbio portato a sistema di vita e di pensiero, un relativismo radicale che non ammette risposta alla sua stessa domanda.

C’è da pensare che Pilato se ne va perché teme una risposta talmente affermativa ed assertiva da demolire tutto il suo castello di dubbi senza risoluzione alcuna.

Pilato non cerca la verità e non aspetta la risposta alla sua domanda perché la teme. Ed infatti di lì a poco se ne lava le mani.

Si potrebbe ipotizzare, alla luce di altri passi del Vangelo, che la risposta di Gesù sarebbe stata semplicissima: “Io sono la verità”.

Qui le cose si complicano perché non siamo di fronte ad una verità astratta ma tremendamente concreta. Non una affermazione, una conoscenza e neppure una relazione ma semplicemente una persona …”

Ho risposto così al mio amico:

Gesù, a Pilato che lo interroga, risponde “Io sono nato e venuto per essere un testimone della verità”. In un altro passaggio del Vangelo (Giovanni; 14-6) aveva già detto “Io sono la via, io sono la verità e la vita.”. Quindi, è proprio come dici tu: Gesù identifica se stesso con la Verità.

Di conseguenza si potrebbe dire (come fai rilevare tu) che la verità non è “una affermazione, una conoscenza e neppure una relazione ma semplicemente una persona”.

La verità non è un’astrazione, ma una realtà “tremendamente concreta”. Non è semplicemente un’idea, un concetto o una teoria. Ma è qualcosa che ha (tremendamente) a che fare con la carne, con le ossa e con il sangue, con le emozioni ed i sentimenti, oltre che con la mente ed il pensiero.

La verità, infatti, (e credo non a caso) per ciascuno di noi spesso si associa ad una persona. Talvolta a qualcuno che per noi è o è stato un modello di vita, un Maestro.

In questo senso la verità è anche via: una via da percorrere per diventare simili al Maestro che ce l’ha indicata e che ci ha affascinato col suo esempio.

Ma soprattutto è vita: la vita del Maestro a cui vogliamo assomigliare e che costituisce il nostro modello, che è diventato il nostro Ideale dell’Io.

Altre volte la verità per noi può coincidere con l’amore, con la persona di cui ci stiamo innamorando, con colei/colui che amiamo.

Mi pare che questo vogliano dire Giorgio Gaber e Sandro Luporini in una delle loro canzoni più belle, “Chiedo scusa se parlo di Maria”, quando scrivono:

“Chiedo scusa se parlo di Maria / non nel senso di un discorso … /Quando dico “parlare di Maria” / voglio dire di una cosa che conosco bene / …Non è facile parlare di Maria / ci son troppe cose che sembrano più importanti / mi interesso di politica e sociologia / per trovare gli strumenti e andare avanti / mi interesso di qualsiasi ideologia / ma mi è difficile parlare di / Maria la libertà / Maria la rivoluzione / Maria il Vietnam, la Cambogia / Maria la realtà. / Se sapessi parlare di Maria / se sapessi davvero capire la sua esistenza / avrei capito esattamente la realtà / la paura, la tensione, la violenza / avrei capito il capitale, la borghesia / ma la mia rabbia è che non so parlare di / Maria …”

Mi pare che questi versi esprimano perfettamente (e in modo molto più caldo e poetico) quello che ho cercato di dire finora (con un linguaggio piuttosto prosaico).

La verità non è un’idea astratta, ma un’idea incarnata in una persona. E’ un corpo, un temperamento, un carattere, un modo di pensare, uno stile di vita.

Ma nessuna di queste cose in particolare e isolata dal resto. Bensì la misteriosa pozione di tutte queste cose insieme, che genera l’incantesimo, la magia dell’innamoramento prima e dell’amore poi.

Giovanni Lamagna