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Recensione del romanzo “Confidenza” di Domenico Starnone (Einaudi 2019).

Il romanzo breve (appena 140 pagine) di Domenico Starnone “Confidenza” (Einaudi 2019), dal quale è stata recentemente ricavata la sceneggiatura di un film con Elio Germano protagonista, è bello.

Degno della migliore scrittura di questo autore, di cui mi piacciono sia le problematiche che affronta, sia il modo con cui ce le racconta.

Il romanzo, anche questa volta, ruota attorno a una vicenda familiare; sono chiari – conoscendo Starnone – i riferimenti autobiografici.

È la storia – quasi la biografia – di un uomo, Pietro Vella, un insegnante di liceo nato a Napoli, ma trasferitosi a Roma dopo la laurea, dove vive e lavora.

Che si innamora una prima volta di una sua allieva, Teresa, che ha almeno una decina di anni meno di lui e con la quale intreccia una tempestosa relazione, fatta di amore e di odio.

E poi, una volta conclusa – per sfinimento – questa prima relazione, ne inizia una nuova con una collega coetanea, Nadia, insegnante di matematica, con ambizioni di carriera universitaria ben presto naufragate.

Il rapporto con Nadia è tutto l’opposto di quello con Teresa; tanto tempestoso e lancinante era quello con Teresa, tanto tranquillizzante e rassicurante è quello con Nadia.

Che, infatti, “regala” a Pietro tre figli e, soprattutto, accudimento, cura e, pertanto, la libertà di dedicarsi ai suoi principali interessi: professionali, culturali e politici.

Così Pietro, da oscuro insegnante di liceo, diventa un saggista abbastanza noto che pubblica due libri e svariati articoli, viene invitato a dibattiti e convegni e, soprattutto, entra nel mondo dell’editoria, dove conosce un importante pedagogista, Stefano Itrò, e una editor avvenente, benestante e colta, Tilde, con la quale, grazie anche alla intensa frequentazione, vive una sorta di (anche se solo platonico) flirt.

Su queste tre relazioni – quella con Nadia (la moglie), quella con Teresa (la prima amante) e quella con Tilde (l’amica) – Starnone costruisce un’avvincente intreccio emotivo-sentimentale, profondamente erotico e persino – almeno a tratti – passionale, che ci porta a scandagliare la complessità, le ambiguità e le contraddizioni che caratterizzano i rapporti tra gli esseri umani, soprattutto quelli tra i due sessi, e in fondo la complessità, le ambiguità e le contraddizioni dello stesso animo umano, di cui quelle relazionali in fondo non sono altro che il riflesso.

Viene fuori, ad esempio, la complessità delle dinamiche legate a termini quali “fedeltà” e “tradimento”.

Il protagonista Pietro Vella tradisce più volte la moglie Nadia con la mente e col desiderio, “con discrezione, forse addirittura castamente” (p.121); e – almeno in una situazione – riesce ad evitare di farlo anche concretamente, fisicamente (con Tilde), per puro caso, perché distratto/attratto da un altro “tradimento” (con Teresa) di natura puramente mentale.

La stessa moglie Nadia – che pure sembra il ritratto della donna tranquilla, tutta casa e lavoro, ma soprattutto fedele – sul finale del romanzo confessa alla figlia: “… tuo padre mi è così indispensabile che, per poter restare con lui, ho dovuto tradirlo moltissime volte, secondo tutte le possibili accezioni lecite del tradimento.” (p. 121).

Per cui la figlia Emma così ne riassume la vicenda emotivo-affettivo-sentimentale-matrimoniale: “… mi è sembrato tutto sommato bello che questi due vecchi… per poter vivere insieme tutta la vita, avessero dovuto inventarsi una pratica innocente del tradimento che permettesse loro di non dirsi: non ci vediamo più.” (p. 121).

Come se un matrimonio, per reggersi, per durare nel tempo, avesse bisogno necessariamente, indispensabilmente di tradimenti reciproci dei due partner; reali o solo mentali, effettivi o sessualmente casti qui ha poca importanza.

Viene, quindi, fuori in questo romanzo, in maniera paradigmatica a me sembra, una delle lezioni fondamentali di Jung: ciascuno di noi è fatto di una “persona” – la maschera che mostriamo agli altri – e di una “ombra” – il nostro lato oscuro, quello che tendiamo a nascondere, non solo agli altri, ma anche a noi stessi.

Ciascuno di noi ha quindi, molto probabilmente, una qualche “confidenza” (non a caso è questa la parola che dà il titolo al romanzo), fatta in un momento di particolare intimità (o debolezza) a qualcuno/a, di qualcosa di cui prova vergogna, con le conseguenti paura, preoccupazione, ansia, in certi momenti vero e proprio terrore, che l’altro/a possa portarla allo scoperto, rivelandola in pubblico.

L’altro/a, in questo caso, è la metafora della nostra coscienza (più o meno) sporca, con la quale ciascuno di noi deve fare i conti.

Aggiungo su questo punto solo un ultimo elemento di riflessione: alcuni – di quello che siamo – vedono solo o prevalentemente il bello e il pulito, altri solo o prevalentemente il brutto e lo sporco.

Mentre forse ciascuno di noi non è né solo e totalmente il primo, né solo e totalmente il secondo, ma un impasto complicato, complesso, del primo e del secondo, nel quale è difficile distinguere il primo dal secondo.

© Giovanni Lamagna

Confessione privata.

Avverto uno stridore fortissimo e costante, quasi ininterrotto, tra quello che è il mondo attorno a me (da quello immediatamente più vicino a me – casa mia, i miei affetti più cari – a quello più lontano, anche migliaia di chilometri lontano, da me) e il mondo come – immagino, idealizzo – dovrebbe essere, come mi piacerebbe che fosse, come desidererei che fosse.

Insomma, mi sento un mezzo disadattato.

Questo stridore vedo, avverto, ha, da qualche tempo, delle ripercussioni anche fisiche, soprattutto nella pancia, come se l’intestino stesse sotto una tensione costante, quasi permanente, e facesse fatica a rilassarsi, a distendersi; insomma, a stare bene.

Me lo conferma il fatto che, quando vado a letto la sera; questa tensione psicofisica scompare quasi immediatamente; il sonno mi ristora; almeno il primo sonno, quello che dura quattro/cinque ora e che è profondo, tutto sommato sereno.

Poi, passato il primo sonno, vado in uno stato di dormiveglia e alle volte faccio brutti sogni; qualche volta persino angosciosi; o mi assalgono pensieri tristi, malinconici, specie negli ultimi tempi.

E, allora, quasi sempre all’alba o anche prima, sono costretto ad alzarmi; mi dedico, quindi, a un po’ di autoanalisi (quasi sempre su quanto ho vissuto il giorno precedente), a qualche lettura che mi tiri su, alla meditazione.

E così inizio bene, in genere abbastanza bene, la mia giornata.

Ma, quando vengo preso dal solito trantran quotidiano, riprendono piede lo stato d’animo e, di conseguenza, i sintomi fisici di cui prima; e questo fino alla sera.

Per fortuna, nel corso della giornata ci sono anche momenti “altri”: una passeggiata, la conversazione con un amico o un’amica, un film, uno spettacolo teatrale, la presentazione di un libro, un evento politico, ogni tanto l’incontro coi miei nipotini…

E in questi momenti il mio animo e, per conseguenza, il mio corpo si rilassano, distendono: sono momenti che benedico.

Ma sono sempre troppo pochi e troppo brevi, rispetto a quelli che desidererei e di cui, forse (o senza forse), avrei bisogno.

Non so bene perché ho messo in pubblico questo mio pezzo di privato.

O, forse lo so, ma non ne sono sicuro.

So solo, per certo, che me ne è venuta voglia e perciò l’ho fatto.

Nella speranza di non essere compatito, ma solo compreso.

Grazie a chi mi ha dedicato la sua attenzione.

……………………….

p. s. voglio solo aggiungere a questa piccola “confessione privata” che di grande conforto mi sono nel corso della giornata la lettura e la scrittura; non a caso ad esse dedico lunghe ore, lettura e scrittura occupano gran parte della mia giornata.

Per cui posso definirmi una persona fondamentalmente solitaria, mentre amerei essere una persona anche, se non fondamentalmente, socievole, che ama stare in compagnia degli altri.

La mia compagnia fondamentale, invece, sono le persone che hanno scritto i libri che leggo e quelle alle quali idealmente scrivo, nella speranza che almeno qualcuna di esse talvolta incroci le cose che scrivo e le legga.

© Giovanni Lamagna

Le due donne fondamentali nella vita di Carl Gustav Jung.

Chi conosce la vita di Carl Gustav Jung sa bene che egli fu un bigamo dichiarato: ebbe contemporaneamente due relazioni amorose, potremmo dire entrambe pubbliche (anche la seconda per niente clandestina) con due donne.

Due relazioni entrambe molto intense e, quindi, importanti, anzi fondamentali nella sua vita.

La prima fu quella con Emma Rauschenbach (18821955), di sette anni più giovane di lui, con la quale contrasse matrimonio nel 1903, che gli diede cinque figli e che gli premorì, uccisa da un cancro, a 73 anni, nel 1955, quindi sei anni prima di lui.

Emma Rauschenbach era figlia di un ricco industriale svizzero, Johannes Rauschenbach, proprietario di una fabbrica di orologi di lusso.

Alla morte del padre avvenuta nel 1905, Emma e sua sorella, insieme ai loro mariti, divennero proprietari della fabbrica e questo assicurò alla famiglia Jung per decenni una notevole base sicura dal punto di vista economico.

Emma incontrò Carl Gustav nel 1896, quando aveva appena 14 anni ed era ancora una studentessa; lo sposò – come già detto – sette anni più tardi, il 14 febbraio 1903.

Emma si interessò molto al lavoro di suo marito (che supportò economicamente, grazie alla eredità ricevuta dal padre), divenne anche lei un importante psicoanalista, fu tra i fondatori del Club di psicologia analitica di Zurigo, di cui tenne la presidenza dal 1916 al 1920, curò la pubblicazione delle opere del marito per tutta la sua vita, svolse alcune ricerche intorno alla leggenda del sacro Graal, che furono pubblicate postume in due saggi, curati da Marie Louise von Franz.

La seconda relazione fu quella con Toni Wolf (1888-1953); Toni nacque a Zurigo, anche lei in una famiglia benestante, primogenita di tre figlie.

“Fu incoraggiata dai genitori a seguire i propri interessi intellettuali e di studio, dedicandosi a filosofia, mitologia e astrologia”, ma le fu poi impedito di iscriversi all’università, poiché il padre non trovava questo ambiente adatto a una ragazza; “tuttavia lei seguì lo stesso dei corsi pur senza iscriversi”.

“Nel dicembre del 1909 il padre morì e Toni, che aveva allora 21 anni, entrò in depressione; si recò allora in cura da Jung”, che apprezzò subito il “naturale acume della sua intelligenza” oltre alla sua “sensibilità psicologica davvero geniale” e la fece diventare una delle sue principali collaboratrici.

Ben presto, però, attorno al 1913, tra i due il rapporto da professionale divenne anche amoroso.

Sulle prime la moglie di Jung, Emma, ne fu profondamente ferita, col tempo però riuscì ad accettare la presenza importante di un’altra donna nella vita erotica e sessuale del marito, per cui venne a costituirsi un vero e proprio, perfino dichiarato e pubblico, menage a trois.

Toni Wolf morì improvvisamente il 21 marzo 1953, all’età di 64 anni; Jung gli sopravvivrà di otto anni.

Questa ricostruzione (fonte principale Wikipedia) della dimensione privata ed affettiva della vita di Jung avrebbe ben scarso interesse, se non le si accompagnasse l’analisi delle motivazioni e delle ragioni profonde su cui essa si poggiava; almeno dal punto di vista di Jung.

In questo senso ci aiutano molto tre pagine (185, 186 e 187) del libro uscito di recente a firma di Aniela Jaffé, la segretaria di Jung e una delle sue principali collaboratrici, intitolato “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023).

Qui Jung parla in maniera sufficientemente estesa del suo rapporto sia con l’una che l’altra donna della sua vita e ne descrive le rispettive psicologie; molto diverse, forse persino opposte; dato questo che spiega a mio avviso l’attrazione che Jung provava contemporaneamente sia per l’una che per l’altra.

Jung descrive Toni come una donna la cui “inclinazione era totalmente terrena”, che “era però diventata molto intellettuale”; per cui il “suo carattere era sovente forzato e innaturale”; voleva in altre parole, mi verrebbe di dire, essere quella che non era; Jung dice che “si opponeva al suo destino, al suo essere terrena, al suo essere di questo mondo.” (p. 185)

Secondo Jung, perciò “avrebbe dovuto dire a sé stessa: “Mi sono lasciata sfuggire un pezzo di vita”. Ma finché visse l’aveva a lungo negato. Solo gradualmente – ma troppo tardi – riuscì a riconoscerlo lei stessa.; e questo richiese un alto grado di onestà e coraggio. Però in quel momento lei non fu più in grado di raggiungere il pezzo mancante della sua vita. Fu questa la sua tragedia.” (p.185)

Se esistesse la reincarnazione, dice Jung “per Toni essa dovrebbe realizzarsi nella direzione di un’accresciuta appartenenza a questo mondo e di una vicinanza alla natura. E questo si è evidenziato anche nei sogni che ho avuto su di lei dopo la sua morte.” (p. 185)

Nei sogni che la riguardavano avevo sempre la sensazione di una realtà e di una vitalità impressionanti. Mia moglie appariva nei sogni molto più lontana. Toni appariva assolutamente viva e vicina alla realtà.

Una volta ebbi un sogno molto suggestivo: lei si trovava in Italia, in una campagna dell’Umbria, occupata a lavorare come contadina insieme ad altri agricoltori. Era proprio quello che le si sarebbe voluto augurare, perché ci si poteva immaginare che lì sarebbe guarita. (p.185)

Era abbronzata dal sole e straordinariamente vitale, come in realtà non era mai stata. Adesso veniva in primo piano tutto il suo lato ctonio-corporeo. Lei si sentiva naturale e semplice. Era interamente terra, totalmente ctonia, aveva persino i tratti pagani della contadina meridionale. In quei luoghi la gente è molto legata alla terra. (p. 186)

Del tutto diversa, anzi per molti versi opposta, la figura di Emma, la moglie di Jung, che egli descrive come una persona legata pienamente al “mondo spirituale”, destinata “a evolversi lungo la linea spirituale”.

Come evidenziato dai sogni che Jung ebbe dopo la sua morte e che lo svegliavano di soprassalto “sapendo che ero stato da lei e che avevamo trascorso l’intera giornata in Provenza, dove lei stava lavorando ai suoi studi sul Graal.

In conclusione e per segnare la netta differenza tra la personalità dell’una e dell’altra Jung afferma: “Sentivo che mia moglie si trovava nel mondo spirituale. Toni era invece in un mondo ctonio.” (p. 186); cioè non solo terreno, ma addirittura sotterraneo, infero.

Come risulta evidente da questi – brevi ma molto significativi – ricordi autobiografici, le due figure di Emma e di Toni corrispondevano, dunque, a due aspetti/bisogni/aspirazioni molto diversi dell’uomo Jung, che molto difficilmente avrebbero potuto trovare corrispondenza adeguata in una donna sola.

Come scrive Aniella Jaffé nel suo testo a chiosa delle parole che le aveva appena riferito Jung, Emma, la moglie, fu, per il fondatore della psicologia analitica, “il grande fondamento della casa e, come madre di cinque figli e nonna di una schiera di nipoti, anche il fondamento della sua famiglia.”; la base sicura non solo sul piano affettivo e spirituale, ma anche su quello materiale, come abbiamo già detto persino economico.

Grazie alla sua forza psichica e all’autonomia del suo spirito, lei gli offrì nei periodi più difficili “un punto d’appoggio in questo mondo”.”, pur avendo una psicologia –come l’ha descritta lo stesso Jung – fortemente incline alla spiritualità.

Gli fu talmente devota da riuscire a superare la sua iniziale gelosia nei confronti dell’amante del marito Toni Wolff e concedere al coniuge quello “spazio vitale” (p. 68) di libertà e di autonomia di cui egli aveva indispensabile bisogno per svolgere il suo lavoro.

Allo stesso tempo fu capace, con grande coraggio e intelligenza emotiva, di compiere un autonomo percorso evolutivo e di individuazione, che la portò ad un certo punto ad affermare, lucidamente e onestamente, del marito: “Lui mai ha portato via a me qualcosa per darla a Toni. Al contrario più dava a lei più sembrava in grado di dare a me.” (p. 187).

Toni Wolff, pur essendo una natura fondamentalmente terragna, più donna del Sud che del Nord (al contrario di Emma Rauschenbach, donna tipicamente nordica) fu per Jung la compagna privilegiata “nella sua indagine dell’inconscio e del mondo interiore”; svolse “un ruolo analogo a quello che la soror mistica svolge nell’Opus alchemicum.

Dalle cose che ho fin qui riportato credo che risulti evidente come entrambe queste due donne abbiano svolto un ruolo fondamentale nella vita privata (emotiva-affettiva-spirituale), e in quella pubblica (professionale- intellettuale-scientifica) di Jung; e credo si spieghi bene, quindi, come egli non potesse prescindere da nessuna delle due.

Per cui – mi viene da chiosare – sembra avere conferma, in questo singolare menage a trois, una riflessione, che ho trovato di recente in un romanzo che sto leggendo in questi giorni e che mi sembra perciò opportuno, significativo, citare a conclusione di questo mio articoletto:

… la persona giusta non esiste…

Non esiste né in terra né in cielo né da nessun’altra parte… Esistono soltanto le persone e in ognuna c’è un pizzico di quella giusta, ma in nessuna c’è tutto quello che ci aspettiamo e speriamo. Nessuna racchiude in sé tutto questo, e non esiste quella certa figura, l’unica, la meravigliosa, la sola che potrà darci la felicità. Esistono soltanto delle persone, e in ognuna ci sono scorie e raggi di luce, tutto…” (Sandor Marai; da “La donna giusta”; Adelphi edizioni 2017; p. 125)

© Giovanni Lamagna

Solitudine e silenzio.

Adoro i momenti di solitudine e di silenzio.

Specie quando mi è possibile viverli a contatto con la natura (alberi, cielo, prati, colline, montagne, mare, laghi, fiumi…) e poche costruzioni attorno (meglio ancora se nessuna).

In tali momenti il mio spirito si rilassa, riposa, rigenera: trova il suo centro, torna a casa.

© Giovanni Lamagna

Sempre in cammino.

Non riesco a concepirmi se non in perenne cammino.

Desidero ogni tanto fermarmi, concedermi una pausa, per riposarmi un po’ e riprendere il respiro.

Mai sono preso, però, dalla tentazione di sistemarmi in una casa e fermarmi una volta per tutte.

Come se fossi arrivato al termine del mio viaggio.

© Giovanni Lamagna

Viaggio nell’inconscio.

Il viaggio nel nostro inconscio – in quella parte profonda di noi, che è sconosciuta persino a noi stessi e che spesso ci fa dire parole e compiere azioni che sfuggono al controllo della nostra consapevolezza e decisione – sarebbe di gran lunga quello più interessante e avventuroso che ci sia data la possibilità di compiere.

Altro che viaggi all’estero, in Africa e in Asia, nelle zone più esotiche del pianeta!

Dovremmo solo abbandonare le nostre difese psicologiche a farlo.

Superare i nostri timori e le nostre paure a diventare veramente noti a noi stessi.

E perfino un po’ più padroni in casa propria.

Cosa che rende le nostre resistenze, difese e paure (a intraprendere questo viaggio) davvero paradossali.

© Giovanni Lamagna

Sapere e fare.

Non basta SAPERE ciò che è giusto fare per FARE poi concretamente ciò che sarebbe giusto fare.

Su questo Socrate, con il suo “intellettualismo etico”, aveva torto.

Spesso noi SAPPIAMO cosa dobbiamo (o dovremmo) fare, ma non lo FACCIAMO ugualmente.

Qui aveva molta più ragione Paolo di Tarso quando sosteneva: “… io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (Lettera ai Romani, 7, 19).

O Sigmund Freud, quando affermava in buona sostanza: “L’Io non è padrone in casa propria”.

© Giovanni Lamagna

Gli uomini e il sesso.

Krishnamurti (ne “La quiete della mente”; Ubaldini Editore; pag. 152) si chiede: “… perché la società ha attribuito al sesso questa straordinaria importanza?”.

E subito dopo si interroga sulle “sanzioni religiose che ne derivano”, che tendono a porre degli argini all’esperienza di “piacere” e di “bellezza” che gli uomini collegano al sesso.

Voglio pormi queste stesse domande e provare a dare le mie risposte.

Quanto alla prima domanda la mia risposta è molto semplice, anche se duplice: 1) nel sesso gli uomini sperimentano forse il massimo del piacere fisico, emotivo e mentale, in certi casi anche spirituale, che è dato loro provare nella vita; 2) al sesso è collegata la sopravvivenza della specie, quindi la continuazione della vita stessa.

Ci può essere, dunque, un interesse superiore a quello che gli uomini provano normalmente per il sesso? Ci può essere, quindi, nella vita una realtà superiore al sesso, che sia più importante del sesso?

Sì, ci può essere; ma in qualche modo essa sarà sempre e comunque gemmazione della pulsione sessuale, una forma di filiazione da quella primaria, primordiale, che è il sesso; ne sarà, come ci hanno insegnato Freud e la psicoanalisi, una sua sublimazione.

In molti casi positiva, utile, necessaria, senza alternative: non si può certo passare tutto il proprio tempo a fare sesso; come minimo, oltre a fare sesso, bisognerà lavorare per procurarsi quanto è necessario a sopravvivere.

In altri casi negativa, inutile, addirittura dannosa, produttiva di malattie fisiche e mentali, nevrosi e in alcuni casi persino psicosi: quando si fa poco sesso o addirittura vi si rinuncia, perché si è incapaci – per timori inconsci, ma ben reali – di goderne.

Anche alla seconda domanda di Krishnamurti la mia risposta è semplice: gli uomini hanno sentito il bisogno (soprattutto attraverso le religioni) di imporsi delle sanzioni che limitassero la loro naturale e tendenzialmente sconfinata propensione verso il sesso, per il timore, la paura (che, ricordiamolo, non sono mai del tutto separabili dal piacere e dal desiderio) di esserne travolti, di non riuscire più ad occuparsi anche di altre cose nella vita, pur esse necessarie, anzi senz’altro più necessarie del sesso.

Pensiamo, ad esempio, alle necessità – anche solo quelle primarie, cui ho già fatto riferimento in precedenza – di procurarsi del cibo, una casa, degli abiti e, inoltre, di occuparsi dell’allevamento della prole, incapace da sola, nei primi anni di vita, di badare alla propria sopravvivenza.

C’era il rischio, dunque, per l’uomo che il sesso con la sua fortissima carica attrattiva, potesse essere vissuto come una sorta di canto delle sirene, di droga, che avrebbe potuto distrarlo da altre incombenze, indubbiamente meno o, in certi casi, per nulla seducenti, legate alla fatica del vivere; o, meglio, innanzitutto del sopravvivere.

Di qui la necessità di crearsi degli argini, persino degli ostacoli, di imporre dei limiti alla fortissima pulsione del sesso, di non farlo diventare una sorta di ossessione, come invece rischiava di diventare, se gli uomini non si fossero dati delle norme e non avessero previsto delle sanzioni collegate alla mancata osservanza di queste norme.

Come possiamo verificare in alcuni casi patologici, anche oggi, perfino nelle nostre odierne società, ipermoderne ed evolute, molto razionali e culturalmente avanzate, addestrate ormai a controllare (forse addirittura fin troppo!) gli istinti primari e persino le emozioni e i sentimenti.

Accade anche oggi, infatti, che il sesso in alcuni individui (nevrotici o, addirittura psicotici) diventi una pulsione maniacale, che norme e sanzioni sociali, tuttora vigenti, non riescono ad arginare, generando quindi disagi, più o meno acuti; nel soggetto malato innanzitutto, ma anche nel contesto ambientale in cui egli vive ed opera.

© Giovanni Lamagna

Sul senso religioso della vita.

Ho già sostenuto altre volte la mia ferma convinzione che o come Umanità nel suo complesso (quantomeno, nella sua larga maggioranza) recuperiamo il senso religioso dell’esistere e, quindi, un atteggiamento religioso verso la vita, oppure andremo a sbattere di brutto e ci sfracelleremo, andremo incontro – presto o tardi (a mio avviso, più presto che tardi) – ad una sorta di suicidio collettivo.

Ho altresì già avuto modo di chiarire che, quando parlo di “senso religioso dell’esistere” non mi riferisco tanto (o perlomeno non solo) al sentimento di fede professato dalle religioni classiche e tradizionali, fede cioè nell’esistenza di una Entità metafisica, ultraterrena, e in una seconda vita (questa volta eterna) dopo la morte.

Ma mi riferisco piuttosto a quel sentimento religioso di cui parlava anche Einstein quando affermava: “La religione del futuro, sarà una religione cosmica. Trascenderà il Dio personale e lascerà da parte dogmi e teologia. Abbracciando insieme il naturale e lo spirituale, dovrà essere fondata su un senso religioso che nasce dall’esperienza di tutte le cose, naturali e spirituali, come facenti parte di un’unità intelligente.”

Qui vorrei pertanto meditare su che cosa sia concretamente, in termini del tutto laici e quindi esclusivamente psicologici e per niente teologici, l’esperienza di questo sentimento religioso, a quali atteggiamenti interiori e comportamenti esteriori esso corrisponda, per rintracciare ed evidenziarne le caratteristiche principali.

Prima di iniziare questa riflessione vorrei però chiarire anche una seconda cosa e, subito, in premessa: quando io parlo di senso religioso dell’esistenza, mi riferisco a qualcosa che ha a che fare più con la sfera dei sentimenti che con quella delle idee, più col cuore che con la testa.

In altre parole il sentimento religioso è per me, come tutti i sentimenti del resto, qualcosa di prerazionale o di arazionale, che nulla o ben poco ha a che fare con la ragione.

Credo che la ragione non lo possa contraddire, smentire, delegittimare; non è quindi un sentimento irrazionale o, addirittura, isterico, nevrotico, folle; ma credo che non lo possa manco avvalorare, allo stesso modo di come avvalora, dimostra, in maniera inconfutabile, una scoperta scientifica o, perfino, una “verità” filosofica.

E’ piuttosto (come ho già accennato in precedenza) un’esperienza, che si impone (o non si impone) all’uomo (o, meglio, ad alcuni uomini) con una sua evidenza apriori e non richiede quindi dimostrazioni di tipo razionale.

Può imporsi ben presto, sin dall’infanzia, quando il bambino nasce e cresce in un ambiente caratterizzato da un senso religioso dell’esistere; in questo caso tale sentimento il bambino lo assorbirà molto probabilmente dalla famiglia in cui è nato e cresciuto e dal contesto fisico, sociale e culturale che lo circonda.

O può imporsi ad un certo punto della vita, a causa di circostanze, esperienze e fattori, in genere molto forti, quasi al limite del trauma (anche se qui il trauma è da intendersi in senso positivo), che determinano una metanoia, una conversione, quindi un cambiamento radicale del modo di vedere e di vivere, della persona che ne è oggetto.

Una parola che di solito definisce questa sorta di trauma è quella di “grazia”: l’uomo raggiunto e trasformato da questa esperienza non ne ha nessun merito; comincia a sperimentare il sentimento religioso per una sorta di destino a lui benigno, senza che egli abbia fatto niente o molto poco per meritarlo; quindi per una “grazia ricevuta”.

Ovviamente (sia ben chiaro!) qui, per me, il termine “grazia” non ha e non vuole avere nessuna connotazione miracolistica e soprannaturale; per come la intendo io è una esperienza del tutto umana, terrena, laica; che ad alcuni uomini viene donata, offerta, regalata, e ad altri no (perciò “grazia”); anche se il clima psicologico, ambientale, in cui il soggetto, che ne viene raggiunto, è cresciuto, è stato allevato, certamente la favorisce, la predispone.

E veniamo finalmente al dunque: quali sono allora le caratteristiche essenziali di questo sentimento religioso, attorno alla cui definizione sto girando già da un bel po’ di parole e di frasi, senza averla però ancora articolata e resa chiara, per quanto sia possibile rendere chiara un’esperienza che si può cogliere nella sua essenza solo nella misura in cui la si esperimenta direttamente come singolo, come persona?

Cerco qui di seguito di indicarne alcune in maniera il più possibile chiara e perfino schematica.

1.La prima, anzi la più essenziale, caratteristica è data, a mio avviso, da quello che potremmo definire un sentimento di fiducia di base nella vita.

Quel sentimento che ci porta a pensare e a dire, se non sempre, almeno nella maggior parte delle nostre giornate, che la vita – nonostante tutto, nonostante i suoi dolori (fisici e spirituali), le sue paure, le sue angosce, i suoi fantasmi, che a volte ci assalgono – vale la pena di essere vissuta.

Ciò detto, si potrebbe pensare allora che tale sentimento di fiducia di base possa essere sperimentato e vissuto solo da coloro che la fortuna ha voluto godessero di una buona salute fisica e di una situazione esistenziale esteriore tutto sommato agiata, favorevole, in grado di soddisfare almeno i loro principali bisogni, quelli primari: il cibo, una casa, un lavoro, degli affetti, una buona salute fisica…

Ma l’osservazione, anche superficiale, dell’umanità che ci circonda ci dice invece che una tale supposizione non è del tutto vera; perché ci sono persone che nascono con malattie congenite, anche gravi, oppure si ammalano seriamente ad un certo punto della loro vita, persone che vivono in situazioni logistiche e materiali difficili, a volte estremamente precarie, ai limiti della sopravvivenza, e che però hanno voglia e desiderio di vivere, hanno una innata fiducia nella vita.

Mentre ce ne sono altre, alle quali apparentemente non è mancato e non manca nulla o, perlomeno, non sono mancate e non mancano le cose principali, e che però, al contrario delle prime, in teoria meno fortunate, non godono dello stesso desiderio e della stessa gioia di vivere; sono afflitte in altre parole da una sfiducia più o meno grave nell’esistenza, soffrono del male di vivere, non vedono luce nella loro vita, vivono in uno stato di fondamentale cupezza e depressione interiore.

Questo premesso, le prime sono per me persone predisposte a vivere il senso religioso dell’esistenza e spesso lo sperimentano come se fosse una condizione naturale, ovvia, scontata; le seconde no, non sanno manco dove stia di casa; anzi si meravigliano, stupiscono che altri possano viverlo e, perciò, molto spesso li irridono, quasi fossero vittime di un atteggiamento superficiale, irrazionale, alienante, illusorio, infantile, in altre parole nevrotico (Freud, ad esempio, fu una di queste persone).

2. La seconda, fondamentale, caratteristica di quello che io definisco “il senso religioso dell’esistenza” è data dall’atteggiamento di cura, potremmo anche dire di custodia, del sentimento di fiducia di base nella vita.

Questo sentimento, infatti, non è qualcosa che si può dare come scontato “vita natural durante”, una volta che lo si è sperimentato.

Una persona può nascere e vivere i suoi primi anni di presenza nel mondo con questo sentimento e poi perderlo ad un certo punto della sua vita; perderlo come, appunto, si perde (o si può perdere) la fede, quella che comunemente chiamiamo “fede in Dio” e che io invece chiamo molto più semplicemente e laicamente “sentimento di fiducia di base nella vita”.

E’ un sentimento, che, come ho già detto, viene ricevuto per grazia, quindi senza alcun merito, ma che va però curato, coltivato, perché esso si mantenga vigoroso e vitale, anche in mezzo alle prove a cui inevitabilmente il cammino della nostra esistenza ci sottoporrà.

Altrimenti è destinato a perdersi, ad essere smarrito.

E come va custodito? Con un atteggiamento di raccoglimento interiore, che accompagnerà tutte le nostre azioni e i nostri movimenti nel mondo.

Lo stesso, immagino, che caratterizzò Maria, la madre di Gesù, a partire dal messaggio dell’angelo che le annunciò la prossima nascita del figlio: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Vangelo di Luca; 1, 38).

Quello stesso atteggiamento che la caratterizzerà dopo la visita dei pastori alla mangiatoia, nella quale Gesù era nato, che, esultanti, “riferirono ciò che del bambino era stato detto loro” (Vangelo di Luca; 2, 17): “ed ella custodiva tutte queste cose, meditandole in cuor suo” (Vangelo di Luca; 2, 19).

Infatti, per vivere, sperimentare, il senso religioso della vita, non basta averlo ricevuto in dono, come grazia e senza alcun merito, ad un certo punto della propria esistenza, ma bisogna essere capaci, in seguito, dopo il momento di illuminazione iniziale, di averne cura, di mantenerlo in essere e anzi, possibilmente, farlo crescere.

Altrimenti esso è destinato gradualmente a spegnersi, rifluire, e, infine, fatalmente morire.

3. A questo punto occorre allora chiedersi: quali sono le condizioni per non disperdere questo sentimento, che ad un certo punto, lo ripeto: per grazia ricevuta, ci ha raggiunto?

La prima è quella di mantenersi in contatto con la voce interiore cha ha cominciato a parlarci, quando questo sentimento ci si è manifestato la prima volta.

In ciascuno di noi, infatti, esiste un Altro da sé, quello che qualcuno ha chiamato “il vero Sé”, una sorta di Maestro interiore, che è in grado, se ci mettiamo nella disposizione giusta, che è quella dell’ascolto, di indicarci la strada da seguire, quella più adatta alle nostre inclinazioni e alla nostra natura, quella che ci permetterà di realizzare, se la seguiremo, le nostre potenzialità, cioè i talenti di cui Madre Natura ci ha dotato.

Spesso noi manco sappiamo dell’esistenza di questa Realtà interiore, presi come siamo dal tran tran quotidiano, dal chiasso che ci circonda, dalla folla alla quale tendiamo nella maggior parte dei casi a conformarci, come fanno le pecore col loro gregge.

Se però abbiamo la fortuna di venirci in contatto e impariamo ad ascoltarne la voce, dapprima molto fioca e sottile, poi un poco alla volta sempre più chiara e distinta, capiamo, ci rendiamo conto di aver ricevuto un’enorme grazia e allora ci impegneremo a non mollarla più, a seguirne sempre più fedelmente i consigli e la guida.

4. La seconda condizione è molto legata alla prima, anzi ne è la premessa; è quella di imparare ad apprezzare il silenzio e la solitudine, almeno in alcuni momenti della nostra vita, e dedicare ad essi con costanza una sorta di rituali quotidiani, isolandoci dalla folla e dal chiasso, che di solito, almeno oggi, circonda la nostra vita.

Chi ha paura della solitudine e del silenzio, chi è incapace di sottrarsi ai rumori e a volte al vero proprio frastuono delle relazioni, dei mass media, dei contatti sui social, ben difficilmente riuscirà a mantenersi in contatto con la voce interiore – quand’anche ad un certo momento, si fosse da lui fatta sentire – e di coltivare, quindi, il senso religioso del vivere.

5. Ovviamente la pratica religiosa (anche se intesa nel senso che sto qui descrivendo) non è fatta solo di contemplazione, ovverossia di contatto e relazione col proprio mondo interiore; per quanto questa ne sia la condizione basica.

La pratica religiosa richiede, infatti, scelte e modi di agire, che comporteranno uno stile di vita, anche esteriore, che sia conseguente, coerente col proprio vissuto interiore.

Richiede una vera e propria “metanoia”, cioè la conversione ad un modo di vivere completamente diverso da quello che caratterizza la gran parte degli uomini che questo senso religioso del vivere non ce l’hanno.

Richiede la scelta di valori morali e sociali radicalmente alternativi a quelli comuni e normalmente diffusi.

6. Quali?

Innanzitutto un distacco dai beni materiali.

Non nel senso (come una certa – per me cattiva – ascesi tende a consigliare) della rinuncia radicale a tutti i beni materiali, di qualsiasi natura essi siano, in favore di una povertà assoluta.

Ma nel senso di una pratica della sobrietà, cioè del non attaccamento ai beni materiali e, soprattutto, della non avidità nella loro conquista e possesso.

La sobrietà, in altre parole, come il punto di giusto equilibrio tra la rinuncia assoluta ai beni in favore della povertà e l’avidità smodata dei beni in cerca della ricchezza.

L’uomo religioso per definizione non ambisce alla ricchezza, anche se non per questo ama o predilige la povertà.

L’uomo religioso vive una vita materiale in condizioni di sobrietà.

7. La pratica religiosa richiede altresì un certo distacco non solo dai beni materiali, ma anche dagli affetti e dalle passioni.

Non certo nel senso della rinuncia a sperimentare i sentimenti della fraternità, dell’amicizia e dell’amore erotico.

Ma nel senso di non farsi da essi dominare e travolgere in nome della brama di possesso, che genera fatalmente gelosie e invidie, sentimenti oltremodo tossici e ben poco spirituali.

L’uomo religioso è per me colui che è in grado di sperimentare pienamente e caldamente tutta la gamma dei sentimenti umani verso i suoi simili, ma non si attacca alle persone e non mira a che esse si attacchino a lui.

E’ in grado in altre parole di sperimentare la singolarità e allo stesso tempo l’universalità dei rapporti con gli altri suoi simili; senza farsene ingabbiare e monopolizzare; ma allo stesso tempo in maniera calda e profonda.

8. La pratica religiosa richiede, infine, la rinuncia alla propria volontà egoica ed egocentrica, intesa come puro arbitrio e assoluta libertà di scelta, al di fuori di ogni limite e confine.

Nel senso reso bene da alcune affermazioni bibliche, che, ben interpretate, possono essere recepite anche da uno come me che intende dare al “sentimento religioso” una valenza del tutto laica e umanistica.

Ne cito solo due: “… sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.” (Vangelo di Giovanni; 6, 38); e “… non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me.” (Paolo; Lettera ai Galati; 2, 20)

Beninteso questa decentramento della propria volontà non comporterà che l’uomo religioso si faccia schiavo di qualcuno o di qualcosa; richiederà però la consapevolezza profonda che egli non è la misura di tutte le cose e l’obbligo a rispondere e ad obbedire alla voce interiore, che ad un certo punto della sua vita lo ha raggiunto e che gli indicherà e illuminerà, momento per momento, la via da seguire.

9. In altre parole lo stile di vita dell’homo religiosus – anche nel senso del tutto laico (e spero sufficientemente chiaro) che qui ho inteso dargli – sarà caratterizzato da un senso di profonda umiltà, dedizione e devozione.

Umiltà nel senso di consapevolezza di non essere lui l’autore e il padrone del proprio destino, ma di esserne solo strumento o, tutt’al più, coautore.

Dedizione ai valori della fiducia, della speranza nel futuro (di cui si sentirà responsabile costruttore in prima persona) e dell’amore fraterno e universale.

Devozione alla chiamata e alla guida interiore costituite dal Maestro spirituale che lo abita e che abita ognuno di noi, anche se e quando non ne siamo consapevoli.

© Giovanni Lamagna