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Una vita senza infamia e senza lode.

Ci si difende dalla luce accecante del sole abbassando lo sguardo o dal calore ustionante allontanandosi dalla sua fonte.

Allo stesso modo molti, forse i più, preferiscono evitare piaceri e gioie troppo intensi e accontentarsi di piaceri e gioie tiepidi e non troppo forti.

In questo modo optano per una vita senza infamia e senza lode, non particolarmente eccitante, ma indubbiamente meno rischiosa e più rassicurante.

© Giovanni Lamagna

Perché, nonostante tutto, desideriamo vivere?

Perché, nonostante tutto, desideriamo vivere? Tutti, chi più e chi meno, poveri e ricchi, sani e malati, belli e brutti, intelligenti e stupidi.

Nonostante che numerosi e illustri filosofi, soprattutto in questi ultimi due secoli, ci abbiano indotto a pensare che la vita è solo dolore e noia, sofferenze e malanni, un triste capriccio della natura.

Forse la risposta sta nel fatto – per quanto banale esso possa sembrare – che non è per niente vero quello che illustri filosofi hanno sostenuto; penso, per fare solo tre esempi, a Leopardi, a Schopenhauer e a Cioran.

Forse la vita non è solo dolore e noia, dispiaceri e sventure, come tanti filosofi – soprattutto moderni e, ancor più, contemporanei – si sono convinti a credere e hanno provato a convincerci.

La vita è anche gioie e piaceri, è anche avventure e scoperte.

Anzi forse, nonostante tutto, i secondi, per ognuno di noi, prevalgono sui primi.

Ne possiamo concludere che, quindi, la vita – checché ne pensino i Leopardi, gli Schopenahuer e i Cioran – vale la pena di essere vissuta, nonostante si concluda con la morte, che – non a caso – la maggior parte di noi si augura arrivi il più tardi possibile.

D’altra parte quegli stessi pensatori hanno confermato tale verità coi fatti, in contraddizione con le parole da loro dette e scritte.

Infatti, se pensavano veramente e fino in fondo le cose che affermavano sulla vita, perché hanno preferito tenersela cara, fino alla morte naturale, e non togliersela anticipandone la fine; come pure, se fossero stati coerenti con le loro teorie, avrebbero potuto fare?

© Giovanni Lamagna

La vita: luci e ombre.

La vita è tutta bella?

Certo che no: non si può proprio dire!

Perché della vita fanno parte mille dolori.

Quelli delle malattie, innanzitutto, e poi quelli dei distacchi e delle separazioni; i dolori delle guerre, degli odi, delle maldicenze….

E, soprattutto, perché la vita si conclude con la morte, che è il massimo dei dolori e delle perdite.

Ma allora la vita è solo brutta?

E questo manco si può dire.

Perché la vita della maggior parte di noi è punteggiata di piaceri e di gioie, almeno quanto di dispiaceri e dolori.

Di amori ed amicizie, almeno quanto di odi e inimicizie.

Di incontri e di ritrovamenti, almeno quanto di distacchi e separazioni.

Di pace e di serenità, almeno quando di scontri e di conflitti.

La vita è fatta di stagioni; di stagioni “belle” e di stagioni “brutte”; di estati e primavere, come di autunni e inverni.

Si amano e si godono appieno quelle belle, sapendo che verranno, prima o poi, quelle brutte.

Così come ci si prepara a quelle brutte e ci si attrezza per affrontarle al meglio, quando si sta godendo di quelle belle.

© Giovanni Lamagna

Due opzioni (opposte) di vita: routine o avventura.

La gran parte delle persone preferisce una condizione di vita, magari poco piacevole ma molto rassicurante, fondata sulla monotona routine, ad una, forse più piacevole ma anche più rischiosa, condizione di vita, caratterizzata dalla ricerca continua.

La ricerca continua dà (può dare) molte gioie; a volte persino elettrizzanti; ma – indubbiamente – tiene sotto tensione.

E i più non reggono questa tensione; le preferiscono una piatta, poco eccitante, ma tranquilla e sicura ripetitività.

Questione di gusti!

© Giovanni Lamagna

Piaceri, gioie e benessere.

Non esistono solo i piaceri.

Che sono di natura principalmente fisica, corporea.

Esistono anche le gioie, che sono di una qualità più spirituale, quindi più raffinata ed elevata dei piaceri.

L’ideale dello stare bene è però godere di piaceri e gioie assieme.

Il bene-essere è fatto di gioie spirituali e di piaceri fisici allo stesso tempo.

Le une senza gli altri (e viceversa) mancano di qualcosa.

© Giovanni Lamagna

C’è un rapporto tra la nevrosi e una visione troppo angusta della vita.

Nel suo libro “Sogni, ricordi e riflessioni” Carl Gustav Jung così scrive:

Ho spesso visto persone diventare nevrotiche per essersi appagate di risposte inadeguate o sbagliate ai problemi della vita.

Cercano la posizione, il matrimonio, la reputazione, il successo esteriore o il denaro, e rimangono infelici e nevrotiche anche quando hanno ottenuto ciò che cercavano.

Persone del genere di solito sono confinate in un orizzonte spirituale troppo angusto.

La loro vita non ha un contenuto sufficiente, non ha significato.

Se riescono ad acquistare una personalità più ampia, generalmente la loro nevrosi scompare.

Per questo motivo ho sempre attribuito la massima importanza all’idea di sviluppo.

La maggior parte dei miei pazienti non consisteva di credenti, ma di persone che avevano perduto la fede.

Venivano da me le “pecorelle smarrite”.

Persino al giorno d’oggi il credente ha la possibilità, nella sua chiesa, di vivere i simboli.

Si pensi all’esperienza della messa, del battesimo, all’imitatio Christi e a molti altri aspetti della religione.

Ma vivere e sperimentare dei simboli presuppone una partecipazione vitale da parte del credente, e molto spesso oggi questa manca.

Nei nevrotici è praticamente sempre assente.

Trovo molto vera e profonda questa riflessione di Jung; tra l’altro molto coerente col suo pensiero, di cui uno dei cardini fondamentali è quello relativo al concetto di daimon.

Per Jung uno dei compiti fondamentali dell’essere umano è quello di corrispondere al suo “daimon”, cioè alla sua vocazione profonda.

Lacan, al posto di “daimon” e “vocazione”, usava la parola “desiderio”; ma credo volesse esprimere lo stesso concetto.

Se non corrisponde al suo daimon, alla sua vocazione, al suo desiderio, l’uomo è destinato fatalmente all’infelicità; o, quantomeno, alla insoddisfazione; e, quindi, alla nevrosi.

Questa riflessione di Jung – sia detto per inciso – si rifà molto chiaramente al concetto degli antichi Greci di “eudaimonia” (dal gr. εὐδαιμονία, der. di εὐδαίμων «felice», comp. di εὖ «bene» e δαίμων «demone; sorte»).

Che può essere inteso in un duplice senso: il primo (un po’ fatalistico) è quello di aver ricevuto in sorte un buon destino; il secondo (che responsabilizza di più l’uomo) è quello di obbedire al demone buono, cioè alla buona coscienza.

Nel primo significato di “daimon” è felice l’uomo che ha ricevuto in sorte una buona fortuna; nel secondo significato felice è l’uomo che si adopera per realizzare la sua vocazione.

Era questo secondo il significato che gli attribuiva Aristotele, per il quale sostanzialmente felicità e virtù erano sinonimi, la felicità era ottenibile perseguendo la virtù.

Jung, con la riflessione che ho riportato all’inizio, amplia, a mio avviso, ulteriormente il concetto di felicità e di benessere, così come lo aveva definito Aristotele.

La felicità e il benessere per Jung vengono raggiunti nella misura in cui il singolo individuo riconosce e persegue la sua particolare vocazione personale.

E questa per alcuni può consistere nel trovarsi semplicemente un lavoro che assicuri loro un reddito, nel formarsi una famiglia con una moglie o un marito e dei figli, nel procurarsi una rete adeguata di relazioni amicali e nell’avere una quantità sufficiente di beni e di agi materiali di cui godere.

Ma per altri queste quattro cose non bastano, rappresentano un orizzonte di vita troppo limitato; costoro hanno bisogno di altro; costoro hanno una vocazione che trascende i bisogni elementari materiali e psicologici che soddisfano (forse) la maggior parte delle persone e le fanno stare sufficientemente bene, in certi momenti (forse) addirittura li rendono felici.

E perciò, fino a quando non si sintonizzano con la loro vocazione particolare, diciamo pure spirituale, una vocazione che va al di là della dimensione puramente materiale e di quella psicoaffettiva, sono inquieti, insoddisfatti, inappagati, interiormente scissi, sono appunto “nevrotici”.

Nel momento in cui, invece, il loro spirito si amplia, trova un senso e un significato alla vita, che vada oltre le ragioni convenzionali e un po’ stereotipate che soddisfano i più, ecco che, come dice Jung, “la loro nevrosi scompare”.

Trovano pace e serenità, pure in mezzo alle tempeste che la vita ogni tanto pure loro riserva, imparano a godere di piccole ma anche grandi gioie, in certe fasi più o meno prolungate arrivano addirittura a sentirsi felici.

© Giovanni Lamagna

Innamoramento e nascita.

Ogni volta che ci innamoriamo è come se rinascessimo, come se venissimo al mondo per la prima volta.

Quando ci innamoriamo è come se partorissimo un nuovo noi stessi.

Per questo ogni esperienza di innamoramento è accompagnata da gioie e dolori, i più forti e i più intensi possibili.

Proprio come nel parto.

© Giovanni Lamagna

E’ possibile il lavoro di elaborazione di un lutto?

Secondo Massimo Recalcati il lavoro di elaborazione di un lutto, al contrario di quello che pensa Freud, non si completerebbe mai definitivamente e del tutto.

Per Freud il compimento del “lavoro del lutto” porterebbe all’oblio (uno “strano oblio”) dell’oggetto perduto e al ristabilimento, ripristino, delle funzioni della libido.

Che, dopo un lutto, resta attaccata all’oggetto perduto e quindi bloccata, per un tempo fisiologico: e questo è del tutto normale.

Ma, una volta elaborato il lutto, riprenderebbe a fluire di nuovo e a poter essere investita su nuovi oggetti.

Secondo Recalcati, invece, questa visione di Freud è troppo idilliaca e sarebbe smentita dall’esperienza psicoanalitica.

Secondo Recalcati il lutto non può mai essere elaborato del tutto; una parte di libido resterebbe quindi attaccata per sempre all’oggetto perduto.

Cosa penso io di questa piccola diatriba virtuale tra Recalcati e Freud?

Penso che abbiano ragione entrambi.

Penso che abbia ragione Recalcati a sostenere che dopo ogni morte di una persona che ci era cara, una parte di noi muore con lei; e che da questo punto di vista, quindi, nessuna ferita causata da una perdita luttuosa sia mai del tutto rimarginabile.

Ogni perdita causata da una morte accresce in noi la consapevolezza di dover morire, del nostro “essere per la morte”; consapevolezza che non è ovviamente solo intellettuale, ma è soprattutto emozionale ed affettiva.

Quindi ogni lutto fa venire fuori, rende manifesta, in noi una quota di melanconia latente, che è parte fondante del nostro essere mortali.

Penso, però, che abbia anche ragione Freud; che sia possibile cioè o, almeno, che sia possibile per una persona con una psiche mediamente sana, riuscire a convivere, in uno stato relativamente sereno, con questo fondo di melanconia, che lievita ogni volta in noi quando siamo colpiti da un lutto, specie quando muore una persona che ci era molto vicina e cara.

Che sia possibile non dico dimenticare prima o poi la persona che è morta, ma convivere abbastanza serenamente con il pensiero/memoria della sua perdita, della sua assenza, oramai irrecuperabile, nella nostra vita.

E che, quindi, la nostra vita possa riprendere non dico come prima ma quantomeno con la stessa voglia di vivere, di godere dei piccoli o grandi piaceri, delle piccole o grandi gioie, che la vita può continuare, nonostante tutto, a donarci.

Penso, in estrema sintesi, che la nostra libido, dopo una fase di annebbiamento, di occultamento, di appassimento, possa riprendersi, rinascere, tornare a rivivere, a trovare altri oggetti su cui investire e provarne gratificazione.

Senza farsi paralizzare dai sensi di colpa (quasi che la morte della persona a noi cara fosse in qualche modo colpa nostra) o dalla devastante, perversa, appercezione/associazione che alla persona defunta si legasse il senso stesso della nostra esistenza, per cui, venuta meno lei, sarebbe venuto meno anche il senso stesso del nostro vivere.

© Giovanni Lamagna

Sulla “stagnazione melanconica del lutto”.

La “stagnazione melanconica del lutto” – di cui parla Massimo Recalcati a pag. 46 del suo “La luce delle stelle morte” (2022 Feltrinelli) – è, a mio avviso, una (quasi) diagnosi, il sintomo patologico acclarato in una persona di un insufficiente, carente, “amore per la vita”.

Quell’amore di cui ognuno di noi nasce dotato, in una misura più o meno adeguata, che potremmo identificare con l’istinto di sopravvivenza; o, meglio, con la “volontà di vivere”, di cui parlava Schopenhauer.

Nella persona incapace di elaborare un lutto in tempi ragionevoli si fronteggiano, competono, confliggono “l’amore per la vita” e “l’amore per la morte”: dell’esistenza di questi due amori ci ha parlato l’ultimo Freud, che li considerava e chiamava addirittura “istinti”.

In questo tipo di persona l’amore per la vita non riesce ad averla vinta sull’amore per la morte.

Il secondo blocca il fluire normale, l’affermarsi del primo, lo neutralizza e, talvolta, vince, prevale sul primo.

In tal caso il soggetto afflitto da un lutto irrisolto imbocca una strada di regressione che gli intossica l’esistenza sul piano psichico; non solo; talvolta può rovinargli persino la salute fisica.

Da cosa è causata una simile dinamica, cosa spiega una tale deriva spirituale ed umana?

Provo a dare una risposta, in base a ciò che ho spesso osservato in persone afflitte da tali problematiche.

Il soggetto di cui stiamo qui parlando non può accettare in buona sostanza che l’altro sia morto e che lui sia, invece, ancora vivo; si sente in colpa per questo e, quindi, bisognoso di espiare; espiare vuol dire morire in qualche modo con l’altro, assieme a lui.

Lo stesso fenomeno (anche se in forme più blande e meno tragiche) può verificarsi anche di fronte alla “semplice” sofferenza (quindi non la morte) dell’altro.

In questo caso il soggetto predisposto alla “stagnazione malinconica del lutto” non può accettare che la sua vita goda dei piaceri e delle gioie che una vita normalmente (salvo rari casi eccezionali) è in grado di donare.

Allora deve fare in modo di angustiarsi, di rovinarsi l’esistenza – anche quando non ce ne sarebbero le ragioni personali oggettive – per poter condividere il dolore, il patire dell’altro.

Sarebbe, infatti, per lui insostenibile stare bene o anche solo non stare male mentre l’altro sta male e soffre; se ne sentirebbe insopportabilmente in colpa.

Colpa che può essere lenita, in qualche misura, solo dalla sofferenza propria, dalla condivisione sulla propria pelle della sofferenza dell’altro.

Quasi a conferma dell’antico proverbio, che, come tutti i proverbi, una qualche verità la dice: mal comune è mezzo gaudio.

© Giovanni Lamagna

Piacere, dovere e terra di mezzo.

Molte persone (forse la maggioranza) non fanno mai una scelta netta tra il piacere e il dovere.

Come ci si aspetterebbe che facesse una qualsiasi persona normale: in alcuni momenti, quando le circostanze della vita lo consentono, facendo prevalere il piacere, in altri momenti, quando le situazioni della vita lo richiedono, facendo prevalere il dovere.

A me pare che molte persone, nella maggior parte delle situazioni che si trovano a vivere, non scelgano mai fino in fondo né il piacere né il dovere; non siano insomma né calde né fredde, ma tiepide sia nei confronti del piacere che del dovere.

Non scelgono fino in fondo il piacere, sono incapaci di fare una scelta radicale in tal senso, perché il più delle volte se ne sentono (sia pure irrazionalmente) in colpa.

Come se la vita non potesse, anzi non dovesse, concedere loro un dono simile, come se a loro questo dono non spettasse mai del tutto.

E così, anche quando (ogni tanto) si concedono al piacere, devono ben presto rientrare in una zona se non proprio spiacevole, quantomeno neutra, come se il piacere non potesse occupare la loro vita oltre un certo spazio e un certo tempo.

Ma, soprattutto, non possono sperimentare il piacere oltre una certa soglia: non ne reggono la tensione e lo spasimo che pure spesso il piacere comporta; per quanto siano una tensione e uno spasimo del tutto piacevoli e per niente dolorosi.

Allo stesso modo (e paradossalmente) queste stesse persone non scelgono neppure fino in fondo il dovere, quando sono chiamate a compierlo.

Almeno se per dovere intendiamo la risposta ad una chiamata interiore e non la corrispondenza passiva e non consapevole alle convenzioni sociali o a ciò che ci viene chiesto dalle imposizioni (a volte solo psicologiche, altre volte anche fisiche) esterne, soprattutto quelle che provengono dalle persone significative che ci circondano.

Se per dovere intendiamo, insomma, non il Super-io freudiano, ma il “principio di realtà” (di cui parlava lo stesso Freud), che ogni tanto (anzi spesso) si oppone al “principio del piacere” o perché ce lo fa vedere come del tutto irrealizzabile o perché ci consiglia di rimandarlo ad altro momento, più adatto, più favorevole.

E – ancora di più, a maggior ragione – se per dovere intendiamo la chiamata a realizzare il proprio compito nella vita (di cui ha parlato spesso nelle sue opere lo psicoanalista austriaco Victor Frankl), il proprio “desiderio” (quello di cui parlava Lacan, che è altra cosa dal capriccio dell’uomo infantile e immaturo), il proprio “daimon”, la propria vocazione interiore (di cui ha invece parlato spesso Jung).

Infatti, a quanti doveri reali, molto più importanti dei “doveri” dettati dal Super-io, queste persone sfuggono?

A quante chiamate interiori e dello spirito esse non corrispondono, preferendo rimuoverle dalla loro coscienza o ignorarle, disattenderle, quando pure esse affiorano e appaiono chiare alla loro consapevolezza?

In altre parole e per concludere, queste persone sono abituate a vivere la loro vita (o almeno la gran parte di essa) come in una terra di mezzo tra il piacere e il dovere.

Per cui non si concedono né pienamente al piacere, alle (poche o molte) gioie che la vita pure sarebbe in grado di donare loro, né pienamente al dovere, inteso come risposta alla propria vocazione interiore, al proprio “desiderio”, al proprio daimon.

Per conseguenza nel primo caso restano persone fondamentalmente insoddisfatte, se non proprio infelici, col bicchiere mezzo vuoto e mai completamente pieno.

Nel secondo caso persone sostanzialmente irrealizzate, incomplete, come chi, avendo cominciato ad attraversare un fiume, si fermi a metà del guado.

© Giovanni Lamagna