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Speranza ed azione.
Non c’è azione che non coltivi una speranza.
Un’azione disperata è un ossimoro.
La disperazione ha, infatti, come esito fatale l’inazione.
Al limite, come esito estremo, ma in fondo coerente, il suicidio.
Non certo l’azione, che, per definizione, presuppone, sempre e comunque, una (qualche, sia pure labile) fiducia nella vita.
© Giovanni Lamagna
Il rapporto sessuale non esiste?
“Cosa significa affermare – come fa Lacan – che il rapporto sessuale non esiste?”: si chiede Massimo Recalcati nella prefazione al suo libro “Esiste il rapporto sessuale?” (Raffaello Cortina, 2021).
Ma, per quanti sforzi abbia fatto, io – francamente – non ho capito la sua risposta.
Perché una cosa è affermare che “la sessualità umana è un campo attraversato da onde sismiche che lo rendono instabile e precario”; e questo mi è chiaro, anzi del tutto evidente.
Altra cosa è affermare – come fa Recalcati – la radicale impossibilità e, quindi, inesistenza del rapporto sessuale; e questo non mi è per nulla evidente; anzi non riesco a comprenderlo per niente e quindi non lo condivido.
Tra l’altro è una tesi che trovo del tutto contraddittoria con le affermazioni finali di Recalcati: “La gioia non è però affatto estranea a questa instabilità e a questa precarietà. Essa può scaturire dall’Eros come una forza sorprendente, come un’affermazione della vita e della sua eccedenza.
Laddove poi questa forza conosce la convergenza con l’amore, ha la straordinaria possibilità di unire il corpo con il nome facendo esistere un erotismo capace di non restare imprigionato nell’ipnosi dell’oggetto, ma di manifestarsi come un’altra soddisfazione nella quale la pulsione sessuale non si oppone necessariamente all’amore, ma diventa una sua componente essenziale.”
Se queste ultime affermazioni sono vere (e per me lo sono), allora per potersi conciliare con quella precedente (“il rapporto sessuale non esiste”), ne dovremmo concludere che per Massimo Recalcati “manco il rapporto d’amore esiste”.
Ma è, può essere, davvero questo il pensiero di un autore, che a questo tema dell’amore ha dedicato montagne di parole in articoli, libri e perfino trasmissioni televisive? A mio avviso, no!
Ne devo dedurre allora che l’affermazione, molto perentoria, “il rapporto sessuale non esiste”, deve riferirsi al paradosso che è insito in ogni tipo di rapporto; e non solo in quello sessuale.
Quale paradosso?
Il paradosso in base al quale la pulsione libidica ci spinge verso l’altro/a con l’anelito a diventare una sola cosa con lui/lei; nel caso in cui la pulsione libidica assume (o, meglio, mantiene) le forme specifiche della sessualità, l’anelito è a diventare “una sola carne” con l’altro/a.
Anelito che, però, potrà realizzarsi solo in parte e solo per alcuni momenti, che, infatti e non a caso, vengono – da chi è riuscito, per suo merito o per sua fortuna, a sperimentarli – definiti magici.
Perché una volta che la fusione (reale o apparente, qui ha poca importanza approfondirlo) si allenta, l’incanto ad essa legato svanisce, perlomeno nella forma della (quasi) magia con cui si era presentato.
E allora si sperimenta che ciascuno essere umano è condannato ad una solitudine fondamentale, radicale, potremmo anche definire ontologica, dalla quale mai e poi mai potrà fuggire.
Questo non vuol dire che i momenti di amore, di intimità spirituale, e persino quelli di estasi carnale vissuti in certi momenti e situazioni siano (stati) puro sogno, fantasie o, addirittura, nient’altro che allucinazioni.
Vuol dire solo che l’amore e il rapporto sessuale tra due esseri umani sono realtà fragili, precarie, instabili, momentanee, onde sismiche, appunto, come lo sono tutte le realtà umane.
A cominciare dal piacere, che si alterna spesso al fastidio e persino al disgusto; dalla gioia, che si alterna alla tristezza; e, perfino, dalla felicità, che talvolta si alterna all’infelicità e, in certi momenti, addirittura alla disperazione.
Ma questo non mi porta a dire (e credo che non dovrebbe portare nessuno a dire) che non esiste il rapporto sessuale; né (tantomeno) che non esiste, non può esistere, l’amore tra due esseri umani.
© Giovanni Lamagna
Non è vero che, se Dio non esiste, allora tutto è possibile.
Da tempo non mi posso più definire una persona religiosa, di fede, in senso classico.
Nel senso di una persona che crede nell’esistenza di un Dio creatore e di una vita ultraterrena.
E, tuttavia, anche dopo la perdita di queste due fedi, avvenuta oramai all’incirca 50 anni fa, io ho conservato quello che potrei definire “un atteggiamento religioso verso la vita”.
Ho continuato cioè a sentirmi, spiritualmente ed eticamente, responsabile verso gli altri e verso me stesso, “obbligato a” oltre che “desideroso di”.
Da questo punto di vista ritengo pertanto che la mia vita, come quella del resto di tanti altri uomini come me, sia la negazione pratica dell’affermazione che Dostoevskij mette in bocca ad Ivan Karamazov: “Se Dio non esiste, allora tutto è possibile.”
Credo che, se non avessi mantenuto questa disposizione d’animo fondamentale, che potrei definire in qualche modo, anche se del tutto laico, “orante e contemplativa”, mi sarei disintegrato psicologicamente, sarei andato incontro alla disperazione e, quindi, all’impazzimento.
© Giovanni Lamagna
La vita è solo sofferenza?
Io non concordo con il presupposto fondamentale del Buddhismo, il punto da cui parte e si dipana l’intero pensiero del Buddha; e cioè che la vita sia sofferenza.
Per me, al contrario di Buddha, la vita non è solo sofferenza, ma è anche piaceri, gioie, in certi momenti (e per alcuni fortunati) addirittura felicità.
Basta vedere lo sguardo di un bambino, della maggior parte dei bambini (perfino, a volte, di quelli nati e cresciuti nelle situazioni più infauste) per rendersene conto.
Certo non posso e non voglio mica negare che nel mondo ci sia tanta, anzi tantissima, sofferenza, sia a livello dei corpi che delle anime: sarebbe da sciocchi o, meglio, ciechi negarlo.
Quello che non accetto però è l’idea (per me esagerata e, quindi, infondata) che nel mondo ci sia SOLO sofferenza.
D’altra parte, se fosse veramente così, non capirei perché nell’uomo (almeno nella grande maggioranza degli uomini) ci sia tanta voglia di vivere, fosse anche solo voglia di sopravvivere.
Se la vita fosse solo (o anche soprattutto) sofferenza, non sarebbe più naturale che l’uomo desiderasse di morire piuttosto che vivere, che desiderasse di farla finita subito e prematuramente, anziché aspettare il tempo naturale della morte?
In altre parole, la mia visione del mondo, al contrario di quella buddhista, di quella di tante (se non la maggior parte delle) religioni e di alcuni filosofi radicalmente pessimisti (come, per fare solo due nomi, i primi che mi vengono in mente: Schopenhauer e Cioran) non è né pessimista né ottimista.
Perché vede, registra, prende atto che nel mondo ci sono sia il bello che il brutto, sia il vero che il falso, sia il bene che il male, sia il piacere che il dispiacere, sia la gioia che il dolore, in un impasto (misterioso) che fa della vita una lotta continua tra l’uno/a e l’altro/a; alla ricerca della migliore condizione fisica e spirituale possibile, del cosiddetto ben-essere.
Ad un unico male – almeno per ora – non possiamo opporci, un unico nemico non possiamo – almeno al giorno d’oggi – pensare di sconfiggere definitivamente: la morte.
E questo – in linea teorica – può/potrebbe giustificare il pensiero pessimista radicale.
Ma – almeno a mio avviso – manco la realtà della morte lo giustifica pienamente.
Perché è vero che la morte connota il nostro orizzonte futuro di ombre lugubri e funeree, però è anche vero che manco il pensiero della morte, che prima o poi ci raggiungerà, riesce a rovinare (e, meno che mai, a cancellare) alcune esperienze emotive di piacere, di gioia e persino di felicità, che – in momenti più o meno frequenti e prolungati – pure attraversano e in certi casi addirittura riempiono la nostra vita, impedendoci di sprofondare (come sarebbe inevitabile, se essi fossero del tutto assenti) nell’abisso della depressione e della disperazione.
E questo è un dato di realtà manifesto, verificabile e accertabile di continuo e da parte di (quasi) tutti.
Come lo è la condizione di sofferenza che a volte attraversa e, in genere, chiude, conclude la nostra vita: penso ai dolori dell’agonia che ci conduce alla morte.
Che la vita, oltre che sofferenza, sia anche piaceri e gioie, non è vaneggiamento e illusione, ma un dato di realtà incontrovertibile!
© Giovanni Lamagna
Sulla regola d’oro
Nel suo “La filosofia come modo di vivere” Pierre Hadot a pag. 255, a proposito della famosa regola “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, sostiene che “questo principio non si fonda su nessuna filosofia, è legato all’esperienza umana”.
Io sono fondamentalmente d’accordo, ma allo stesso tempo non sono del tutto e completamente d’accordo con una tale tesi.
Sono fondamentalmente d’accordo, perché a mio avviso la “regola d’oro” di cui parla Hadot è figlia piuttosto di un pre-giudizio che di un vero giudizio (ovverossia di un atto compiutamente filosofico).
La regola d’oro si fonda su un certo tipo di esperienza umana piuttosto che su una considerazione teorica, intellettuale.
Un’esperienza umana tutto sommato positiva, potremmo anche dire “buona” e perfino – almeno in una certa misura – ottimistica, che sorride alla vita e non ne è rattristata.
Non certamente un’esperienza di (acclarata o latente) depressione, da cui non può derivare che pessimismo, se non addirittura disperazione.
Bisogna tuttavia mettere in conto che per molti uomini l’esperienza della vita non è stata e non è affatto positiva, che essi nella vita hanno ricevuto più male che bene e che, di conseguenza, sono portati a dare dell’esistenza un giudizio piuttosto negativo, sono portati dunque al pessimismo, se non proprio alla disperazione.
Per questo tipo di uomini la regola d’oro non ha senso, non ha valore, è inapplicabile. Per essi vale piuttosto l’ “homo homini lupus” o il “bellum omnium contra omnes” di Hobbes.
Possiamo dunque concluderne che il giudizio sulla vita più che a considerazioni di carattere teorico-filosofico è legato ad esperienze di vita (soprattutto primarie; quelle che facciamo nell’infanzia, in modo particolare nella primissima infanzia).
E tuttavia è anche vero però (e in questo non sono d’accordo con Hadot) che quello che potremo definire una specie di pregiudizio esistenziale si trasforma in un vero e proprio giudizio teorico.
Che fonda addirittura l’orientamento filosofico, potremmo anche dire “la visione del mondo”, di cui ciascuno di noi (più o meno consciamente, più o meno consapevolmente) è portatore.
Per cui le nostre azioni, il nostro agire, perfino il nostro stesso stile di vita complessivo, si adeguano, si conformano a questo giudizio teorico.
Di conseguenza sono portato a dire (su questo in dissenso con Hadot) che ogni orientamento etico-morale si fonda necessariamente (anche) su una (per quanto minima e appena abbozzata) teoria dell’uomo e dell’Umanità (intesa come l’insieme delle relazioni tra gli uomini).
Questa teoria , quindi, nasce indubbiamente e in primo luogo da un’esperienza pratica di vita. Ma la teoria a sua volta influenza e rafforza l’esperienza e la pratica di vita della persona che la professa.
In un circolo che alle volte è virtuoso, quando la pratica di vita è stata positiva e da essa è derivata una concezione del mondo tutto sommato positiva, se non proprio ottimistica.
Altre volte è vizioso, quando la pratica di vita è stata negativa, perché i dolori e le angosce hanno di gran lungo sopravanzato le gioie e i piaceri, e da questa è derivata, quasi come suo frutto naturale, una visione pessimistica dell’esistenza.
A me pare che la storia della filosofia, con la sua sequela di filosofi e delle loro rispettive concezioni del mondo, ci dia una conferma inoppugnabile di tale assunto, cioè del rapporto intrinseco, strettissimo, che esiste tra una determinata weltanschauung e la biografia del filosofo che ne è autore.
Ora ciò che vale per i filosofi affermati e universalmente riconosciuti può non valere (a maggior ragione) per gli uomini comuni?
© Giovanni Lamagna
Piccolo villaggio e villaggio globale
L’avvento della società di massa ha determinato (paradossalmente) una crescita esponenziale dell’anonimato e, per conseguenza, della privacy nei rapporti reali tra le persone.
“Privacy”, parola – tanto per cambiare – inglese, bella ed elegante, che in realtà significa il più delle volte “solitudine” nera e, spesso, cupa “disperazione”.
Per fare un solo esempio, la vita delle persone e la natura delle loro relazioni nelle metropoli sono totalmente diverse rispetto a quelle del piccolo villaggio, dove tutti sanno tutto degli altri, non c’è praticamente privacy e vige sovrano il pettegolezzo.
E però (guarda un po’!) al pettegolezzo reale, interpersonale, caratteristica dei rapporti vis a vis, si è sostituito il pettegolezzo virtuale dei mass media, soprattutto dei talk-show, specie dei cosiddetti “reality”.
I mass media hanno costituito così un villaggio globale, nel quale paradossalmente vigono le stesse regole del piccolo villaggio: assoluta mancanza di privacy; chiacchiericcio e pettegolezzi continui.
Giovanni Lamagna
Depressione e senso dell’esistenza.
Nella risposta alla lettera di una giovane lettrice, Cecilia, che raccontava la sua disperazione esistenziale e il suo desiderio di autodistruzione (lettera pubblicata su “D la Repubblica” il 17 febbraio 2018), Umberto Galimberti così scriveva:
“Per noi lettori, frequentare qualche riga di questa lettera non è un male. Serve a dare la giusta misura alla nostra esistenza che si affanna e supervaluta, come se si trattasse di vita o di morte, gli obiettivi che ciascuno di noi si prefigge e insegue.
Per costoro vale il monito che traspare dalla lettera di Cecilia che non si interroga, come fanno tutti, sul senso della sofferenza, bensì… sul senso dello stesso esistere, che non è privo di senso perché è tormentato dalla sofferenza, ma al contrario appare insopportabile perché è privo di senso.”
Galimberti, appena qualche riga prima, aveva scritto: “… non ho mai trovato in nessun testo di psicologia… una descrizione così lucida del sentimento che accompagna chi ha avvertito, senza infingimenti, la radicale insignificanza dell’esistenza, da cui tutti fuggiamo, occupandoci di qualsiasi cosa (lavoro, famiglia, carriera, progetti, obbiettivi, persino sogni e amori).”
Mi permetto di non essere d’accordo, questa volta, con la lettura/spiegazione che il professor Galimberti dà del sentimento o, meglio, della condizione esistenziale (che lui non nomina, ma credo siano sottintesi), che oggi vengono definiti col termine “depressione” e una volta con quello di “melancolia”.
Per il professor Galimberti (a me pare di capire) la “depressione” sarebbe la naturale conseguenza, sul piano emozionale/sentimentale, di “chi ha avvertito, senza infingimenti, la radicale insignificanza dell’esistenza”.
Coloro che non soffrono di depressione sarebbero, dunque, quelli (la grande maggioranza di tutti noi) che fuggono da questa consapevolezza (della “radicale insignificanza dell’esistenza”), occupandosi di cose che non avrebbero un reale valore; e cioè “lavoro, famiglia, carriera, progetti, obbiettivi, persino sogni e amori”.
La depressione, quindi, per Galimberti, non sarebbe lo stato d’animo di chi “è tormentato dalla sofferenza”, una sofferenza talmente grande e senza vie di uscita da rendergli insopportabile “lo stesso esistere”. Esistere che, perciò, gli “appare privo di senso”, senza valore o, perlomeno, senza motivazioni adeguate.
No, per Galimberti, la depressione sarebbe lo stato d’animo di chi trova “insopportabile” l’esistenza, a prescindere dalle condizioni esistenziali in cui essa viene vissuta, ma (mi verrebbe di dire, solo e semplicemente) “perché essa è priva di senso”, non ha ragioni valide (metafisiche?) per essere vissuta.
La depressione, quindi, come condizione esistenziale, sarebbe, per Galimberti, figlia di un atto mentale, potremmo dire anche di una riflessione filosofica sul “senso dell’esistenza”.
Sono totalmente in disaccordo con questo tipo di lettura.
E non perché ritenga che la vita abbia delle ragioni che vadano oltre la vita stessa (ragioni perciò “metafisiche”) per essere vissuta. Da questo punto di vista, sono, infatti, del tutto d’accordo con l’affermazione del professor Galimberti che l’esistere in sé “è privo di senso”.
Ma perché penso che la lettura/spiegazione che dà il professor Galimberti della depressione sia in stridente contraddizione con l’esperienza della maggior parte degli esseri umani e, quindi, con quella che possiamo ritenere essere la loro natura di base.
La grande maggioranza degli esseri umani, infatti, (come possiamo vedere osservando i bambini), dal momento in cui viene al mondo, è animata da una gran voglia di vivere. Che non è solo l’istinto di sopravvivenza, ma è proprio il piacere di vivere, la gioia di vivere, l’élan vital.
Di questa energia esistenziale primordiale hanno dato ampia testimonianza non solo la filosofia greca e le filosofie orientali, “vecchie” di duemilacinquecento anni, ma anche pensatori più recenti e a noi più vicini, quali Schopenhauer, Bergson e lo stesso Nietzsche.
Tale energia può essere perduta, per carità, anche ben presto smarrita, nel corso dell’esistenza, ma solo a causa di condizioni di vita particolarmente sfavorevoli: estrema indigenza economica, malattie organiche o psichiche, abbandoni traumatici, colpi di sventura. Non certo per una riflessione filosofica sul “non senso” radicale dell’esistenza.
Nella maggior parte degli esseri umani tale energia permane, sopravvive nonostante le sventure e i dolori che affliggono la vita di tutti noi. Questo è un dato statistico importante, oggettivo, che ha il suo valore e che non può essere sottovalutato né, tantomeno, ignorato.
Non è dunque (potremmo dire, parafrasando Marx) la coscienza (ovverossia la consapevolezza che l’esistere abbia un senso o meno) a determinare la condizione psicologica ed-esistenziale di ognuno di noi e, meno che mai, quella materiale, ma (esattamente al contrario) è la condizione materiale (e, quindi, anche psicologica) in cui si svolge (per una serie di circostanze, molte delle quali non dipendono da noi) la nostra esistenza che determina la nostra coscienza (il fatto che per alcuni di noi la vita abbia un senso, perfino grande, e che per altri non ne abbia alcuno, nemmeno uno piccolo, piccolo).
Giovanni Lamagna
Sul film “Youth” di Paolo Sorrentino.
Sul film “Youth” di Paolo Sorrentino.
“Sto sempre andando a casa… a casa di mio padre” (Novalis). E’ una delle battute pronunciate da uno dei personaggi del film “Youth” di Paolo Sorrentino.
Ed è, secondo me, una delle sue battute chiave, nel senso che sta a dire che la vita è un cammino, alla ricerca del “padre”, cioè del senso della vita.
Il film non mi è piaciuto granché , francamente; perché non è riuscito a trasmettermi grandi emozioni. E però non posso negare che sia un film di qualità, di livello.
E’ una sequela di immagini, di brevi (o mai troppo prolungate) conversazioni, più che una storia.
E’ ambientato, per la massima parte, in un lussuoso resort sulle Alpi svizzere, che è quasi una metafora del mondo, dell’umanità, che prova a rigenerarsi, a mettersi in salute, a farsi “nuovo/a”, a uscire dal suo torpore, dalla sua apatia, dalla sua freddezza emotiva, dalla sua incapacità di raccontarsi, di parlare, di comunicare (il personaggio principale, un vecchio direttore d’orchestra, impersonato da Michael Caine, viene definito e si autodefinisce “un apatico”).
I personaggi del film (tutti ospiti dell’albergo) sono (quasi tutti) ripiegati nel loro dolore e nella loro solitudine, prigionieri delle loro piccole manie ed abitudini, incapaci di entrare in contatto, di parlare tra di loro (esempio estremo quello della coppia anziana, che a tavola mangia senza scambiare una sola parola, in un silenzio quasi tombale).
Il primo tempo del film trascorre cupo, opaco, “nuvoloso”, come è spesso il cielo che copre l’albergo, perfino (volutamente?) noioso, come l’atmosfera umana che si respira tra gli ospiti dell’hotel.
Poi nel secondo tempo qualcosa si scioglie: la scena che, secondo me, segna la svolta (quasi una scossa di adrenalina) è quella della coppia anziana che, come tutte le sere, sta cenando (noiosamente e nell’incomunicabilità più totale) al suo solito tavolo, quando improvvisamente, prima che finisca la cena, la moglie si alza e assesta un violentissimo e sonoro ceffone all’impreparato e incredulo marito, che, dopo un attimo di impercettibile smarrimento, continua a restare seduto e a mangiare, imperturbabile, come se nulla fosse avvenuto.
Appena qualche sequenza dopo si vedono i due anziani impegnati in un amplesso di una energia e forza incredibili (data l’età dei protagonisti): lei in piedi, appoggiata ad un albero con le gambe allargate, lui che la monta con colpi di una violenza animalesca; e lei che grida come un’ossessa in preda allo spasmo selvaggio del piacere.
Seguono le seguenti altre scene, quelle che ricordo meglio, perché evidentemente mi hanno colpito di più.
La figlia del direttore d’orchestra ricopre il padre di insulti feroci, ricordandogli di essere stato un pessimo genitore, assente, lontano, tutto preso dal suo sogno di diventare un grande musicista, pari al suo modello ideale: Stravinsky.
La figlia, abbandonata dal marito che la lascia per un’altra (perché brava a letto), ritrova l’amore incontrando un istruttore alpino che la porta sulla schiena a fare una scalata.
Il vecchio direttore d’orchestra, sotto le mani sapienti di una giovane massaggiatrice, ritrova il contatto con il dolore e, quindi, anche con il piacere; la massaggiatrice non sa dire nulla con le parole (non avrebbe niente da dire), ma sa dire (e capire) molto con le mani.
I due vecchi amici (il direttore d’orchestra e un regista cinematografico, che sta girando un film, che vorrebbe essere il suo testamento spirituale) in piscina (nudi, come a dire privi di maschere) incontrano miss Universo (anche lei ospite dell’albergo in viaggio premio), che, a sua volta nuda, dopo una lunga e fantastica “passeggiata” lungo i bordi della piscina, si immerge nell’acqua di fronte a loro, provocazione e sogno allo stesso tempo, inno assoluto alla bellezza sfrontata e selvaggia, alla giovinezza nel pieno del suo prepotente sfolgorio.
Il vecchio direttore d’orchestra confessa alla figlia l’amore (mai estrinsecato in maniera così esplicita) per la moglie, vera (e unica) ragione della sua vita; e, in questo modo, ritrova anche il contatto e la comunicazione con la figlia (che, infatti, piange per la commozione e la gioia).
Ancora il direttore d’orchestra, seduto su una roccia, guarda estasiato il paesaggio (i prati verdi, le montagne, le mucche, gli uccelli…) e se ne lascia rapire; e allora ne dirige gli elementi (il cinguettio e l’aleggiare degli uccelli, il muggito delle mucche, il suono dei campanacci appesi al collo dei bovini…) facendoli diventare strumenti di un’orchestra.
Il monaco buddista finalmente, dopo tante ore trascorse in preghiera e in meditazione ad occhi chiusi, riesce a levitare.
Maradona, ancora grasso e imbolsito, lento e macchinoso nei movimenti, riesce finalmente a palleggiare (incredibile virtuosismo!) con una pallina di tennis.
La vecchia attrice (Jane Fonda) dice al vecchio regista (Harvey Keytel) che egli ha oramai esaurito la sua vena e che farebbe bene a prenderne atto e a rassegnarsi: per questo lei si rifiuterà di recitare nel suo film, vuole evitargli una brutta figura, che getterebbe un’ombra sulla sua gloriosa carriera.
E il vecchio regista ne prende atto, dolorosamente ma onestamente, entra evidentemente in contatto con se stesso, col suo mondo emotivo (le sue ultime parole: “Le emozioni sono la cosa più importante!”), e si getta giù dal balcone, rinunciando così alla sua ultima effimera ambizione, ma incontrando (forse) in quest’ultimo gesto, assieme alla sua disperazione, il suo vero se stesso.
Il vecchio direttore d’orchestra, invece, dopo aver trovato il coraggio (finalmente!) di confessare il suo amore per la moglie (malata e ricoverata a Venezia) si reca da lei e le porta (finalmente!) un mazzo di fiori come segno di (finalmente dichiarata!) riconoscenza.
Prima però è andato sulla tomba di Stravinsky, come a fare pace con il suo sogno fallito (diventare un vero musicista creativo, al livello di Stravinsky).
E così trova anche la forza e l’energia di tornare a dirigere un’orchestra (dopo che da anni aveva oramai smesso), addirittura alla presenza della regina d’Inghilterra, che è (come una bambina) innamorata della sua musica, delle sue “Simple Songs”.
Questo film per me non è né una storia sulla “giovinezza” (come lascerebbe supporre il suo titolo), né una storia sulla “vecchiaia” (come aveva scritto qualche giorno fa Eugenio Scalfari su “la Repubblica” e come lascerebbe immaginare l’età avanzata della maggior parte dei suoi personaggi; non di tutti, perché nel film ci sono anche personaggi molto giovani e, perfino, alcuni bambini).
Per me il film ha al centro il tema delle relazioni umane (quelle di amicizia e quelle di amore, in primo luogo, ma anche quelle casuali, legate a incontri brevi, perfino effimeri).
E’ un film sulla fatica di vivere, di dare un senso alla propria vita, di trovare la propria verità, la propria realizzazione e creatività, nelle forme più varie (dalla musica alla regia cinematografica, dall’alpinismo al calcio e, perfino, al concorso per miss Universo…), nelle forme più congeniali alla propria natura individuale, alle risorse, ai talenti che ognuno di noi si ritrova in tasca quando viene in questo mondo.
E’ un film sulla disperazione ma anche sulla gioia, sul dolore ma anche sul piacere, sulla incomunicabilità ma anche sull’amicizia e l’amore, sull’ipocrisia e la falsità ma anche sulla verità e la confessione di sé, sull’estro ma anche sulla routine e la noia, sulla vecchiaia ma anche sulla giovinezza e, perfino, sull’infanzia e l’adolescenza.
E’, insomma, un film sulla varietà della commedia umana, sui suoi aspetti di luce e sulle sue ombre.
Un film, a mio avviso, non riuscitissimo, ma da vedere.
Giovanni Lamagna