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Sul concetto di “bellezza”.

Dice David Hume: “La bellezza non è una qualità delle cose stesse: essa esiste soltanto nella mente che le contempla ed ogni mente percepisce una diversa bellezza.”

A mio avviso questa affermazione è vera solo in parte; perché ci sono alcuni canoni di bellezza che potremmo definire “oggettivi”; o, almeno, abbastanza oggettivi.

Nel senso che, se non sono proprio validi per tutti, lo sono quantomeno per la maggioranza degli uomini in un dato contesto geografico e in una data epoca storica; si sa, per contro, che i gusti variano da territorio a territorio e da epoca ad epoca.

Se fosse del tutto vera l’affermazione di Hume, si arriverebbe, infatti, al relativismo assoluto in questo campo e manco si potrebbe parlare di “bellezza”, verrebbe meno il concetto stesso di bellezza.

Non sarebbe possibile alcun “accordo” (manco relativo, manco provvisorio) tra gli uomini su ciò che è “bello” e ciò che è “brutto”; mentre, invece, spesso gli uomini questo “accordo” lo trovano.

© Giovanni Lamagna

Recensione del romanzo “Confidenza” di Domenico Starnone (Einaudi 2019).

Il romanzo breve (appena 140 pagine) di Domenico Starnone “Confidenza” (Einaudi 2019), dal quale è stata recentemente ricavata la sceneggiatura di un film con Elio Germano protagonista, è bello.

Degno della migliore scrittura di questo autore, di cui mi piacciono sia le problematiche che affronta, sia il modo con cui ce le racconta.

Il romanzo, anche questa volta, ruota attorno a una vicenda familiare; sono chiari – conoscendo Starnone – i riferimenti autobiografici.

È la storia – quasi la biografia – di un uomo, Pietro Vella, un insegnante di liceo nato a Napoli, ma trasferitosi a Roma dopo la laurea, dove vive e lavora.

Che si innamora una prima volta di una sua allieva, Teresa, che ha almeno una decina di anni meno di lui e con la quale intreccia una tempestosa relazione, fatta di amore e di odio.

E poi, una volta conclusa – per sfinimento – questa prima relazione, ne inizia una nuova con una collega coetanea, Nadia, insegnante di matematica, con ambizioni di carriera universitaria ben presto naufragate.

Il rapporto con Nadia è tutto l’opposto di quello con Teresa; tanto tempestoso e lancinante era quello con Teresa, tanto tranquillizzante e rassicurante è quello con Nadia.

Che, infatti, “regala” a Pietro tre figli e, soprattutto, accudimento, cura e, pertanto, la libertà di dedicarsi ai suoi principali interessi: professionali, culturali e politici.

Così Pietro, da oscuro insegnante di liceo, diventa un saggista abbastanza noto che pubblica due libri e svariati articoli, viene invitato a dibattiti e convegni e, soprattutto, entra nel mondo dell’editoria, dove conosce un importante pedagogista, Stefano Itrò, e una editor avvenente, benestante e colta, Tilde, con la quale, grazie anche alla intensa frequentazione, vive una sorta di (anche se solo platonico) flirt.

Su queste tre relazioni – quella con Nadia (la moglie), quella con Teresa (la prima amante) e quella con Tilde (l’amica) – Starnone costruisce un’avvincente intreccio emotivo-sentimentale, profondamente erotico e persino – almeno a tratti – passionale, che ci porta a scandagliare la complessità, le ambiguità e le contraddizioni che caratterizzano i rapporti tra gli esseri umani, soprattutto quelli tra i due sessi, e in fondo la complessità, le ambiguità e le contraddizioni dello stesso animo umano, di cui quelle relazionali in fondo non sono altro che il riflesso.

Viene fuori, ad esempio, la complessità delle dinamiche legate a termini quali “fedeltà” e “tradimento”.

Il protagonista Pietro Vella tradisce più volte la moglie Nadia con la mente e col desiderio, “con discrezione, forse addirittura castamente” (p.121); e – almeno in una situazione – riesce ad evitare di farlo anche concretamente, fisicamente (con Tilde), per puro caso, perché distratto/attratto da un altro “tradimento” (con Teresa) di natura puramente mentale.

La stessa moglie Nadia – che pure sembra il ritratto della donna tranquilla, tutta casa e lavoro, ma soprattutto fedele – sul finale del romanzo confessa alla figlia: “… tuo padre mi è così indispensabile che, per poter restare con lui, ho dovuto tradirlo moltissime volte, secondo tutte le possibili accezioni lecite del tradimento.” (p. 121).

Per cui la figlia Emma così ne riassume la vicenda emotivo-affettivo-sentimentale-matrimoniale: “… mi è sembrato tutto sommato bello che questi due vecchi… per poter vivere insieme tutta la vita, avessero dovuto inventarsi una pratica innocente del tradimento che permettesse loro di non dirsi: non ci vediamo più.” (p. 121).

Come se un matrimonio, per reggersi, per durare nel tempo, avesse bisogno necessariamente, indispensabilmente di tradimenti reciproci dei due partner; reali o solo mentali, effettivi o sessualmente casti qui ha poca importanza.

Viene, quindi, fuori in questo romanzo, in maniera paradigmatica a me sembra, una delle lezioni fondamentali di Jung: ciascuno di noi è fatto di una “persona” – la maschera che mostriamo agli altri – e di una “ombra” – il nostro lato oscuro, quello che tendiamo a nascondere, non solo agli altri, ma anche a noi stessi.

Ciascuno di noi ha quindi, molto probabilmente, una qualche “confidenza” (non a caso è questa la parola che dà il titolo al romanzo), fatta in un momento di particolare intimità (o debolezza) a qualcuno/a, di qualcosa di cui prova vergogna, con le conseguenti paura, preoccupazione, ansia, in certi momenti vero e proprio terrore, che l’altro/a possa portarla allo scoperto, rivelandola in pubblico.

L’altro/a, in questo caso, è la metafora della nostra coscienza (più o meno) sporca, con la quale ciascuno di noi deve fare i conti.

Aggiungo su questo punto solo un ultimo elemento di riflessione: alcuni – di quello che siamo – vedono solo o prevalentemente il bello e il pulito, altri solo o prevalentemente il brutto e lo sporco.

Mentre forse ciascuno di noi non è né solo e totalmente il primo, né solo e totalmente il secondo, ma un impasto complicato, complesso, del primo e del secondo, nel quale è difficile distinguere il primo dal secondo.

© Giovanni Lamagna

Desiderio sessuale, altri desideri, sublimazione, cultura, nevrosi.

Il desiderio è innanzitutto sessuale.

Poi vengono tutti gli altri desideri, relativi a tre “valori” fondamentali: il vero (ἀληθής), il bello (καλὸς) e il buono (ἀγαθός).

Che di quello sessuale sono la sublimazione.

La sublimazione, entro certi limiti, è non solo inevitabile, ma persino benefica: ci rende umani, produce tutto ciò che ha a che fare con la cultura.

Oltre certi limiti è non solo inutile, ma persino dannosa: ci allontana troppo dalla nostra natura animale e produce in noi nevrosi.

© Giovanni Lamagna

Bello e brutto in natura.

Non c’è niente di più bello – io credo – della natura.

Le stesse opere d’arte, in fondo, altro non sono che delle ri-creazioni della natura, opere trasformative della natura; e, quindi, in fondo in fondo, natura che si manifesta in forme diverse, da quelle immediatamente… naturali.

E, però, non è tutto bello ciò che esiste in natura.

Ci sono paesaggi, volti, corpi… che non sono affatto belli, ma che sono anzi decisamente brutti; alcuni persino ripugnanti.

Possiamo dire, dunque, in estrema sintesi, che non esiste niente di bello che non abbia a che fare con la natura, ma che in natura esiste anche il brutto, non solo il bello.

© Giovanni Lamagna

Bello, buono, vero e utile.

Non so chi diceva che, se una cosa è bella, è anche buona.

Io aggiungo che, se è buona, non può non essere anche bella.

E’ questo il senso dell’ideale greco del καλὸς καὶ ἀγαθός.

Anzi aggiungo che, se una cosa è bella e buona, non può non essere anche vera.

Cosa è, infatti, la verità se non ciò che fa bene all’uomo?

E, infine, non può non essere anche utile.

In buona sostanza, dunque, le quattro famose categorie crociane del bello, del buono, del vero e dell’utile per me (stringi, stringi) tendono a coincidere, in unum.

© Giovanni Lamagna

Il bello e il brutto della vita.

Il bello della vita è che col passare degli anni ci si indebolisce nel corpo ma ci si può persino rafforzare nello spirito.

Il brutto della vita è che molti uomini con l’avanzare degli anni si indeboliscono sia nel corpo che nello spirito.

© Giovanni Lamagna

Un gioco è bello quando dura poco.

Il proverbio dice: “Un gioco è bello quando dura poco”.

Perché il giocare continui a risultare bello nel tempo occorre dunque cambiare spesso, se non continuamente, gioco.

Anche il più bello dei giochi, se si ripete all’infinito, può stancare, annoiare.

© Giovanni Lamagna

Perché non sono buddhista?

Ad un certo punto del suo interessantissimo libro “I quattro maestri” (Garzanti; 2020) – dedicato a Socrate, Buddha, Confucio e Gesù – Vito Mancuso si pone la seguente domanda: perché non sono buddhista?

Qui me la pongo anch’io e quella che segue è la mia risposta; che non è molto diversa nella sostanza da quella che si dà Mancuso, seppure con qualche differenza e aggiunta.

La ragione principale per cui non mi sento buddhista è che tra le due categorie fondamentali nelle quali si dividono (a voler fare quella che è ovviamente una estrema e grossolana semplificazione) i vari pensatori che si sono susseguiti nella storia, quella dei “pessimisti” e quella degli “ottimisti”, Buddha si inserisce a pieno titolo nella prima.

Mentre io non mi riconosco né nell’una né nell’altra, mi situo tutto sommato a metà strada tra l’una e l’altra, forse un po’ più vicino ai secondi che ai primi; quindi abbastanza lontano dalla posizione nella quale, anche se in maniera molto rozza e schematica, possiamo collocare Buddha.

Sono perfettamente consapevole, come ho già evidenziato in altre occasioni, che il pensiero di Buddha presenta alcune, anzi parecchie, ambiguità che ne giustificano (almeno in parte) letture diverse e persino opposte; le letture che ne danno, ad esempio, l’attuale Dalai Lama e Thich Nhat Hanh ne evidenziano il versante positivo ed ottimistico.

E, tuttavia, ci sono alcuni passaggi decisivi dell’insegnamento di colui che resta comunque un grande Maestro, che a me (come del resto a Mancuso, dal cui pensiero traggo conforto e conferma) sembrano inconfutabili, per identificarne il segno, l’anima per me fondamentalmente negativi e pessimisti.

Uno in modo particolare, tratto dal “Dhammapada” (153-154; pag. 51) e citato non a caso da Mancuso: “Per vite innumerevoli ho vagato cercando invano il costruttore della mia sofferenza. Ma ora ti ho trovato, costruttore di nulla da oggi in poi. Le tue assi sono state rimosse e spezzata la trave di colmo. Il desiderio è tutto spento; il mio cuore, unito all’increato.”

Qui Buddha afferma con molta chiarezza tre tesi fondamentali: 1) che la vita è principalmente sofferenza; 2) che la radice della sofferenza sta nel desiderio; 3) che, dunque, si supera la sofferenza nel momento in cui si spegne il desiderio.

Con queste tre affermazioni il pensiero del Buddha si inserisce a pieno titolo tra i sistemi di pensiero “negativi”, nel senso di pessimistici, dell’Umanità.

Per me (come per Mancuso) nessuna di queste tre affermazioni è condivisibile; o, perlomeno nessuna delle tre è pienamente e totalmente condivisibile.

Innanzitutto, per me non è affatto vero che la vita sia solo e neanche principalmente sofferenza; la vita è anche sofferenza (e chi potrebbe negarlo?), ma non è solo, né principalmente sofferenza; la vita è (o almeno può essere) anche piaceri, gioie e, in certi momenti, addirittura felicità.

In secondo luogo, non è vero che la radice della sofferenza sia il desiderio. Anzi, io penso che proprio l’assenza di desiderio, lo spegnimento di ogni desiderio, sia la ragione principale della sofferenza. Come può essere, infatti, definita la depressione in termini psichiatrici, se non come una malattia del desiderio? come lo spegnimento totale e radicale del desiderio, dei desideri?

Infine, il desiderio, anzi i desideri, sono il motore dell’esistenza. Senza desideri la nostra stessa energia vitale si spegnerebbe, andremmo incontro alla morte, altro che alla fine delle sofferenze! Che vita sarebbe, infatti, una vita senza desideri?

Sarebbe una vita già morta prima del tempo; che è forse quello che perseguiva il Buddha (per unirsi all’increato, diventare in altre parole materia inerte); ma non è certo quello che auspico e perseguo io.

Altra cosa è sostenere che anche il desiderio, quando non è contenuto, quando è senza limiti, quando diventa spasmodico e ossessivo, quando è aspirazione al godimento infinito, può essere causa di sofferenza e, persino, di morte: su questo sono (anche sulla base della lezione di Lacan) pienamente d’accordo.

Ma una cosa è affermare “il Desiderio deve presupporre la Legge”, la legge del limite, anche nell’interesse del desiderio stesso e della sua migliore soddisfazione (come sostiene, appunto, Lacan), altra cosa è affermare, come purtroppo fa il Buddha (e come del resto fanno anche molte esperienze ascetiche di altre religioni, comprese quelle occidentali), che il desiderio (ogni desiderio) va represso, anzi spento alla radice.

Da queste due affermazioni derivano due scuole di pensiero e, soprattutto, discendono due pratiche di vita completamente diverse, anzi opposte. La prima punta, come dice Mancuso, non al compimento dell’umanità, ma al suo superamento, anche quando l’umanità fosse buona.

La seconda si propone di realizzare al massimo le potenzialità insite in ogni essere umano, attraverso la incarnazione dei tre massimi valori di cui l’uomo è capace: il vero, il bello e il buono; lungi dal voler superare l’umanità, la vuole anzi espandere, sviluppare ai suoi massimi livelli.

Io mi riconosco senza ombra di dubbio nella seconda scuola di pensiero e pratica di vita. Per questo non mi sento e non posso sentirmi buddhista. Nonostante ne condivida molti aspetti del pensiero e della concezione filosofica che lo caratterizza.

© Giovanni Lamagna

La vita è solo sofferenza?

Io non concordo con il presupposto fondamentale del Buddhismo, il punto da cui parte e si dipana l’intero pensiero del Buddha; e cioè che la vita sia sofferenza.

Per me, al contrario di Buddha, la vita non è solo sofferenza, ma è anche piaceri, gioie, in certi momenti (e per alcuni fortunati) addirittura felicità.

Basta vedere lo sguardo di un bambino, della maggior parte dei bambini (perfino, a volte, di quelli nati e cresciuti nelle situazioni più infauste) per rendersene conto.

Certo non posso e non voglio mica negare che nel mondo ci sia tanta, anzi tantissima, sofferenza, sia a livello dei corpi che delle anime: sarebbe da sciocchi o, meglio, ciechi negarlo.

Quello che non accetto però è l’idea (per me esagerata e, quindi, infondata) che nel mondo ci sia SOLO sofferenza.

D’altra parte, se fosse veramente così, non capirei perché nell’uomo (almeno nella grande maggioranza degli uomini) ci sia tanta voglia di vivere, fosse anche solo voglia di sopravvivere.

Se la vita fosse solo (o anche soprattutto) sofferenza, non sarebbe più naturale che l’uomo desiderasse di morire piuttosto che vivere, che desiderasse di farla finita subito e prematuramente, anziché aspettare il tempo naturale della morte?

In altre parole, la mia visione del mondo, al contrario di quella buddhista, di quella di tante (se non la maggior parte delle) religioni e di alcuni filosofi radicalmente pessimisti (come, per fare solo due nomi, i primi che mi vengono in mente: Schopenhauer e Cioran) non è né pessimista né ottimista.

Perché vede, registra, prende atto che nel mondo ci sono sia il bello che il brutto, sia il vero che il falso, sia il bene che il male, sia il piacere che il dispiacere, sia la gioia che il dolore, in un impasto (misterioso) che fa della vita una lotta continua tra l’uno/a e l’altro/a; alla ricerca della migliore condizione fisica e spirituale possibile, del cosiddetto ben-essere.

Ad un unico male – almeno per ora –  non possiamo opporci, un unico nemico non possiamo – almeno al giorno d’oggi – pensare di sconfiggere definitivamente: la morte.

E questo – in linea teorica – può/potrebbe giustificare il pensiero pessimista radicale.

Ma – almeno a mio avviso – manco la realtà della morte lo giustifica pienamente.

Perché è vero che la morte connota il nostro orizzonte futuro di ombre lugubri e funeree, però è anche vero che manco il pensiero della morte, che prima o poi ci raggiungerà, riesce a rovinare (e, meno che mai, a cancellare) alcune esperienze emotive di piacere, di gioia e persino di felicità, che – in momenti più o meno frequenti e prolungati – pure attraversano e in certi casi addirittura riempiono la nostra vita, impedendoci di sprofondare (come sarebbe inevitabile, se essi fossero del tutto assenti) nell’abisso della depressione e della disperazione.

E questo è un dato di realtà manifesto, verificabile e accertabile di continuo e da parte di (quasi) tutti.

Come lo è la condizione di sofferenza che a volte attraversa e, in genere, chiude, conclude la nostra vita: penso ai dolori dell’agonia che ci conduce alla morte.

Che la vita, oltre che sofferenza, sia anche piaceri e gioie, non è vaneggiamento e illusione, ma un dato di realtà incontrovertibile!

© Giovanni Lamagna