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La banalità della morte.

Moriamo tutti più o meno allo stesso modo: piccoli e grandi uomini.

In un attimo.

Il momento in cui la vita si spegne del tutto è un attimo.

Anche quando quest’attimo viene preceduto da una lunga agonia.

Moriamo, quindi, – possiamo dirlo, se ci liberiamo dalla retorica, che in genere circonda la morte! – in un modo piuttosto banale.

Un attimo prima ci siamo e un attimo dopo non ci siamo più.

In fondo un attimo come tutti gli altri, banale come tutti gli altri.

Per gli altri che restano.

E che, dopo un (più o meno breve o lungo) momento di dolore (seppure ci sarà), continueranno la loro vita, anche senza di noi.

Mentre noi, dopo quell’attimo, non ci saremo mai più per sempre.

© Giovanni Lamagna

Sulle somiglianze e sulle differenze tra gli uomini e gli animali.

Ieri mattina ho pubblicato su facebook questo post:

Vita e consapevolezza della vita.

La Vita vive e va avanti di per sé, a prescindere dalla consapevolezza che ne abbiamo.

Tanto è vero che già esisteva prima che nascessimo ed esisterà anche dopo che saremo morti.

Addirittura anche dopo che il mondo (il nostro piccolo mondo, il pianeta Terra) si sarà estinto.

Come siamo piccoli ed infinitesimali di fronte al mistero infinito della Vita!

E, però, la Vita comincia ad acquisire un senso (che è poi l’unica cosa che conta davvero per noi) solo nel momento in cui cominciamo a dare un nome alle cose, ad utilizzare il linguaggio, ad avere quindi consapevolezza del nostro essere vivi.

Sta tutta qui la differenza (e che differenza!) tra noi e una pietra, tra noi e una pianta, tra noi ed un animale.

Gli animali vivono e muoiono senza aver avuto nessuna consapevolezza di aver vissuto.

Non so – a dire il vero – se questo sia un bene o un male; ma così è, senza ombra di dubbio.

Una mia amica (D. M.) lo ha commentato così:

“Sul fatto che gli animali non si rendano conto di essere vivi però non sono d’accordo. Sanno dimostrare gioia, tristezza ed empatia, sanno quando devono morire e hanno paura della morte, direi che sono molto più consapevoli di quanto possa sembrare.”

Da questo commento è scaturito un dialogo che riporto integralmente, perché mi è apparso di un certo interesse:

G. L.: Non ho detto che gli animali non hanno sentimenti… ma la consapevolezza, a mio modesto avviso, è altra cosa dalle emozioni e dai sentimenti…

D. M.: Secondo me invece sono strettamente collegati. Forse la forma mentale in cui questa consapevolezza li abita è diversa da qualcosa che noi immaginiamo, ma io non credo affatto che in loro non ci sia.

G. L.: L’animale non SA di dover morire… SENTE che sta morendo, quando viene il suo momento… ma “sentire” e “sapere” sono due cose diverse, molto diverse…

D. M.:Quando arriva il veterinario a casa e il cane sceglie un posto dove stendersi vicino ai famigliari, decide chi vuole vicino nel momento in cui morirà. Se non è consapevolezza questa.

G. L.: Sapere significa anche prevedere… sapere di dover morire significa in qualche modo “vivere per la morte”, come diceva Heidegger… questo atteggiamento è totalmente precluso all’animale… il quale sicuramente soffre, se vede un suo simile morire… ma non sa che prima o poi toccherà anche a lui la stessa sorte… poi quando starà in fin di vita, in agonia, forse in quel momento sentirà di stare per morire… si renderà conto di qualcosa di cui fino ad allora, però, non aveva avuto consapevolezza…

D. M.: La mia esperienza con gli animali dice cose diverse, rispetto il tuo punto di vista, ma per me la cosa è diversa.

G. L.: Anche io rispetto il tuo, ma con tutta la considerazione che ho per gli animali, faccio fatica a non vedere (e mi meraviglio che tu non la veda) la profonda differenza che passa tra la natura dell’animale e quella dell’uomo… con i vantaggi e gli svantaggi che esse comportano per gli uni e per gli altri…

D. M.: Il fatto che siano diversi non vuol dire inferiori o privi di coscienza. La natura ci accomuna agli animali molto più di altre cose che noi siamo riusciti ad inventarci per credere di essere diversi, “superiori”…

G. L.: Non ho mai detto che siano “inferiori”; in natura ogni essere e persino ogni cosa ha il suo ruolo e la sua funzione… non ha senso, quindi, parlare di “inferiori” e “superiori”… riconosco che anche gli animali hanno una qualche forma di coscienza… e, infatti, noi apparteniamo al loro stesso genere… ma, certo, la “coscienza” degli altri animali non raggiunge i livelli di complessità dell’animale uomo…

© Giovanni Lamagna

Eros e thanatos.

Freud (nel suo “Al di là del principio di piacere; 1920) dà per scontata l’aspirazione – che egli ritiene la più universale delle aspirazioni presenti in tutti gli esseri viventi – “a ritornare alla quiete del mondo inorganico”, in altre parole all’estinzione, cioè alla morte.

E aggiunge: “Abbiamo tutti sperimentato come il massimo piacere che possiamo attingere, il piacere dell’atto sessuale, sia legato con la momentanea estinzione di un eccitamento estremamente intenso.” (Biblioteca Boringhieri; 1975; pag. 99)

Vede, in altre parole, un’analogia tra la tendenza naturale degli esseri viventi ad estinguersi, cioè a passare dallo stato organico a quello inorganico, e l’esperienza del piacere, articolata nelle seguenti fasi, così disposte in sequenza: – stimolo, – eccitazione, – acme e scarica edonistica, – estinzione dell’eccitazione.

Francamente e con tutto il rispetto per il grande pensatore viennese, trovo questa analogia alquanto indebita, anzi una vera e propria forzatura.

Come si faccia ad associare un’esperienza del tutto spiacevole e non desiderabile, come è la morte, ad un’esperienza estremamente piacevole e desiderabile, come è l’atto sessuale, a me risulta francamente incomprensibile.

Non è certo il fatto che entrambe le esperienze si concludano con uno stato di “quiete” che giustifica tale associazione.

L’associazione che fa Freud è simile a quella che farebbe chi volesse vedere un’analogia tra lo stato di sazietà di chi ha appena mangiato (per soddisfare un bisogno fisiologico, innanzitutto, quello della fame, ma in alcuni casi anche per soddisfare il piacere legato al gusto del mangiare) e lo stato di inappetenza di cui soffrono spesso coloro che non godono di buona salute o il rifiuto del cibo che è caratteristico dell’anoressia.

Si tratta di tre condizioni psicofisiche che hanno certamente un fattore che le accomuna (il rifiuto del cibo), ma sono del tutto incomparabili sotto gli altri aspetti.

A maggior ragione come si fa a paragonare lo stato di (indubbia) quiete (tra l’altro “eterna”) che raggiunge la persona che muore con lo stato di quiete (invece momentaneo) che raggiunge la persona che ha compiuto un atto sessuale ed ha ottenuto un orgasmo?

Lo stato di quiete post coitum o post orgasmo è benefico, vivificante, è funzionale ad una vita sia fisica che psichica piena, sana, soddisfacente, piacevole, gratificante.

Lo stato di quiete che si ottiene con la morte è tutt’altro, anzi è esattamente l’opposto: non solo conclude l’esistenza (altro che vivificarla!), ma quasi sempre (a meno di una morte improvvisa ed istantanea) sopravviene dopo una fase più o meno lunga e prolungata di sofferenze e di agonia.

Ecco perché l’associazione che fa Freud e dalla quale sono partito per fare questa piccola riflessione a commento – a me sembra – francamente infondata!

© Giovanni Lamagna

La vita è solo sofferenza?

Io non concordo con il presupposto fondamentale del Buddhismo, il punto da cui parte e si dipana l’intero pensiero del Buddha; e cioè che la vita sia sofferenza.

Per me, al contrario di Buddha, la vita non è solo sofferenza, ma è anche piaceri, gioie, in certi momenti (e per alcuni fortunati) addirittura felicità.

Basta vedere lo sguardo di un bambino, della maggior parte dei bambini (perfino, a volte, di quelli nati e cresciuti nelle situazioni più infauste) per rendersene conto.

Certo non posso e non voglio mica negare che nel mondo ci sia tanta, anzi tantissima, sofferenza, sia a livello dei corpi che delle anime: sarebbe da sciocchi o, meglio, ciechi negarlo.

Quello che non accetto però è l’idea (per me esagerata e, quindi, infondata) che nel mondo ci sia SOLO sofferenza.

D’altra parte, se fosse veramente così, non capirei perché nell’uomo (almeno nella grande maggioranza degli uomini) ci sia tanta voglia di vivere, fosse anche solo voglia di sopravvivere.

Se la vita fosse solo (o anche soprattutto) sofferenza, non sarebbe più naturale che l’uomo desiderasse di morire piuttosto che vivere, che desiderasse di farla finita subito e prematuramente, anziché aspettare il tempo naturale della morte?

In altre parole, la mia visione del mondo, al contrario di quella buddhista, di quella di tante (se non la maggior parte delle) religioni e di alcuni filosofi radicalmente pessimisti (come, per fare solo due nomi, i primi che mi vengono in mente: Schopenhauer e Cioran) non è né pessimista né ottimista.

Perché vede, registra, prende atto che nel mondo ci sono sia il bello che il brutto, sia il vero che il falso, sia il bene che il male, sia il piacere che il dispiacere, sia la gioia che il dolore, in un impasto (misterioso) che fa della vita una lotta continua tra l’uno/a e l’altro/a; alla ricerca della migliore condizione fisica e spirituale possibile, del cosiddetto ben-essere.

Ad un unico male – almeno per ora –  non possiamo opporci, un unico nemico non possiamo – almeno al giorno d’oggi – pensare di sconfiggere definitivamente: la morte.

E questo – in linea teorica – può/potrebbe giustificare il pensiero pessimista radicale.

Ma – almeno a mio avviso – manco la realtà della morte lo giustifica pienamente.

Perché è vero che la morte connota il nostro orizzonte futuro di ombre lugubri e funeree, però è anche vero che manco il pensiero della morte, che prima o poi ci raggiungerà, riesce a rovinare (e, meno che mai, a cancellare) alcune esperienze emotive di piacere, di gioia e persino di felicità, che – in momenti più o meno frequenti e prolungati – pure attraversano e in certi casi addirittura riempiono la nostra vita, impedendoci di sprofondare (come sarebbe inevitabile, se essi fossero del tutto assenti) nell’abisso della depressione e della disperazione.

E questo è un dato di realtà manifesto, verificabile e accertabile di continuo e da parte di (quasi) tutti.

Come lo è la condizione di sofferenza che a volte attraversa e, in genere, chiude, conclude la nostra vita: penso ai dolori dell’agonia che ci conduce alla morte.

Che la vita, oltre che sofferenza, sia anche piaceri e gioie, non è vaneggiamento e illusione, ma un dato di realtà incontrovertibile!

© Giovanni Lamagna

Quale morte augurarsi?

La migliore sarebbe quella che arriva improvvisa, senza alcun preavviso, evitandoci lunghe e dolorose malattie con un’atroce agonia: una morte che ti stendesse in un breve istante, un attimo prima ci sei ed un attimo dopo non ci sei più.

Ma questo tipo di morte avviene purtroppo in rari casi e capita a pochi fortunati.

In alternativa non resta che augurarsi una morte almeno dignitosa.

Che avvenga, come dice Montaigne, “quietamente e senza strepito” (“Saggi”; libro I; cap. XX)

© Giovanni Lamagna

Piaceri e felicità, dolori e infelicità

Nella massima n. 17 de “L’arte di essere felici” (Adelphi; 2017) Arthur Schopenhauer manifesta con la massima chiarezza il suo profondo pessimismo sulla vita e sul destino dell’uomo: “Dato che ogni felicità e ogni piacere sono di genere negativo, mentre il dolore è di genere positivo, la vita non ci è data per essere goduta, ma per essere sopportata… Chi trascorre la vita senza dolori fisici o psichici eccessivi ha avuto la sorte più fortunata possibile… Chi vuole misurare la felicità di una vita intera in base alle gioie e i piaceri assume un criterio completamente sbagliato…”.

Cosa pensare di simili affermazioni? Dico – a voler restare freddi e distaccati – che esse sono espressione di una posizione quantomeno soggettiva, molto collegata alla propria personale vicenda esistenziale e che non possono quindi essere universalizzate. Farlo è un’operazione quantomeno indebita.

Tutto il ragionamento si fonda su due affermazioni molto opinabili:

1) ogni felicità e ogni piacere sono di genere negativo; ciò significa che felicità e piacere consistono in null’altro che nella momentanea assenza dei dolori, sono esperienze di assenze e non di presenze, di vuoti e non di pieni;

2) il dolore è di genere positivo; ciò vuol dire che il dolore è ben avvertibile, è ben più pesante della felicità e dei piaceri, in quanto esso non sta nella semplice assenza dei piaceri, ma ha una consistenza in sé, è una presenza e non un’assenza, un pieno e non un vuoto.

Io credo che tali affermazioni abbiano un valore del tutto soggettivo, dal momento che possono essere (quasi) pari, pari rovesciate: la felicità e i piaceri, infatti, hanno per me una valenza positiva; mentre l’infelicità e i dispiaceri ne hanno a volte una semplicemente negativa, altre volte una anch’essa “positiva”.

La felicità e i piaceri per me non consistono affatto nella semplice assenza dei dolori, ma in sensazioni, emozioni, sentimenti, stati dell’animo ben precisi e identificabili.

Quando, infatti, faccio una bella mangiata, non semplicemente per lenire la fame ma soprattutto per soddisfare il gusto del mangiare, quando mi trovo di fronte ad un bellissimo panorama o quando ascolto una bella musica o quando mi innamoro di una donna (per fare cenno solo ad alcuni dei piaceri e delle gioie possibili per un uomo), io – con tutta evidenza – non sto sperimentando semplicemente un’assenza (un vuoto) di dolori e infelicità, non sto facendo quindi un’esperienza “negativa”, ma sto sperimentando una presenza (un pieno) di piaceri e di gioia, sto facendo quindi un’esperienza positiva e non negativa.

Piuttosto è il dolore, gran parte del dolore che sperimentiamo nella vita, a presentarsi nella forma dell’esperienza negativa.

Che cos’è, infatti, la massima parte del dolore che sperimentiamo nella vita se non un’assenza di felicità e di piaceri? I dolori più diffusi e prevalenti nella vita non sono forse la nausea, la noia e la depressione?

Che non corrispondono affatto a un dolore ben preciso ed esattamente identificabile, “localizzabile”, quanto piuttosto ad un’assenza di gioie e piaceri.

Poi, certo, c’è anche il dolore che ha una sua consistenza piena e precisamente identificabile, che va dal semplice e banale mal di denti, che non ci fa dormire la notte, alle sofferenze estreme dell’agonia che precede la morte.

Ma questo è il dolore eccezionale, che ci colpisce di tanto in tanto e in maniera più o meno prolungata o una sola volta nella fase finale della nostra vita, piuttosto che la condizione normale della nostra esistenza.

Che, per concludere, a mio avviso, tranne casi eccezionali e particolarmente sfortunati, non vede affatto la prevalenza dell’infelicità e dei dispiaceri, quanto un alternarsi di infelicità e dispiaceri e di felicità e piaceri o, tutt’al più, la calma piatta della noia, figlia dell’assenza o della non vistosa presenza sia dei primi che dei secondi.

© Giovanni Lamagna