Archivi Blog

La comunicazione epistolare ai tempi di Kafka e la comunicazione sui social oggi.

Leggo che Kafka odiava “le lettere, sosteneva che tutta l’infelicità della sua vita proveniva proprio dalla possibilità di scriverle”.

Era convinto che la felicità di intrattenere rapporti epistolari avesse portato “nel mondo uno spaventevole scompiglio delle anime.”

Parlava di contatto tra fantasmi, e non solo col fantasma del destinatario, ma anche col proprio, che si sviluppa tra le mani nella lettera che stiamo scrivendo, o magari in una successione di lettere, dove una conferma l’altra e ad essa può appellarsi per testimonianza.

Si domandava come fosse mai nata l’idea che gli uomini possano mettersi in contatto fra loro in questo strano modo, dal momento che “a una creatura umana distante si può pensare e si può afferrare una creatura umana vicina, tutto il resto sorpassa le forze umane.” (da Fabrizio Coscia; “Soli eravamo”; pag. 206).

Mi chiedo cosa avrebbe pensato (e scritto) Kafka oggi a proposito dei social, ad esempio di facebook.

Dove entrano in contatto persone che in moltissimi casi non si sono mai incontrati fisicamente, manco mezza volta, che il più delle volte non manifestano nessuna voglia di incontrarsi de visu, neppure in futuro, e che pure si scrivono spesso fittamente (elogiandosi, criticandosi, amandosi, innamorandosi, litigando ferocemente…), magari sapendo quasi nulla o ben poco l’uno/a dell’altro/a.

Mi dico e chiedo: se Kafka giudicava che fosse per gli uomini del suo tempo uno strano modo di mettersi in contatto tra di loro quello di scriversi lettere, come avrebbe giudicato quello degli uomini d’oggi di comunicare tra loro attraverso le email o facebook o istantgram o tweet?

© Giovanni Lamagna

Angoscia e rimozione.

I più preferiscono vivere in una perenne distrazione, lontananza da sé, per non andare al cuore dell’angoscia che abita nel profondo delle loro anime.

Per non prenderla di petto e guardarla bene in faccia.

Pochi preferiscono affrontarla, attraversarla, per non dico sconfiggerla, ma quantomeno domarla, tenerla sotto controllo, impedire che essa li travolga.

Nonostante i tentativi di tenerla lontana, rimuoverla.

© Giovanni Lamagna

L’atto sessuale può essere…

L’atto sessuale può essere il semplice sfogo di un istinto/bisogno fisiologico.

E in questo caso è ben povera cosa.

O l’incontro/fusione di due anime che si uniscono anche coi loro corpi.

E in questo caso è un’esperienza sublime, che sfiora il divino.

© Giovanni Lamagna

Tre modi di vivere l’atto sessuale.

Le persone che stanno in amore, che fanno l’amore, che si congiungono sessualmente, si dividono, a mio avviso, in tre categorie principali.

Quelle che, pur desiderandolo fortemente, a causa dei problemi più vari, fisici e/o psicologici, non riescono a raggiungere l’orgasmo.

Godono, quindi, seppure godono, in maniera solo molto limitata e parziale; sono perciò amanti impotenti, almeno dal punto di vista sessuale.

Ci sono poi le persone che nell’atto sessuale riescono ad abbandonarsi al piacere e lo raggiungono a volte in maniera anche molto abbondante e profonda.

Ma questo piacere è “solo” il loro piacere, il piacere del loro corpo e della loro psiche, non è “anche” il piacere dell’altro, non è il piacere condiviso di due corpi e due anime in cerca l’uno/a dell’altro/a.

E’ un piacere questo non molto diverso dal, non molto superiore per qualità al piacere che raggiungerebbero da soli, se si masturbassero.

In questo caso l’altro/a con cui si condivide l’atto sessuale è unicamente il pretesto, direi addirittura solo lo strumento, per il raggiungimento di questo tipo di piacere.

Tanto è vero che le persone che fanno sesso in questo modo molto spesso amano farlo a occhi chiusi o a luci spente, nel buio, come se si racchiudessero in sé stesse, nel proprio godimento autistico.

Anziché aprirsi all’altro/a e godere contemporaneamente anche della presenza, della vista, del piacere, della gioia dell’altro/a, con il quale si sta vivendo un momento di incontro, che dovrebbe essere molto intenso e intimo, anzi il più intenso e intimo degli incontri possibili tra due umani.

Ci sono, infine, le persone (a mio avviso poche, se non addirittura rarissime) che, nel fare l’amore, si compenetrano talmente nel piacere dell’altro/a, da condividere il piacere dell’altro/a come se fosse il loro stesso piacere.

Anzi antepongono il piacere dell’altro/a al proprio, non ne possono prescindere; senza condividere il piacere dell’altro/a sarebbero incapaci di godere pienamente anche del proprio.

Godono del piacere dell’altro/a esattamente come del loro; il piacere dell’altro aggiunge ulteriore piacere al proprio, lo amplifica in maniera addirittura esponenziale.

In quest’ultimo caso il rapporto sessuale, se è vissuto da entrambi i partner con questo stesso atteggiamento e disposizione d’animo, arriva ad avere addirittura i connotati di una vera e propria esperienza mistica.

Nella quale ciascuno dei due perde (almeno per qualche istante) i propri confini e si congiunge, fonde, con l’altro non solo fisicamente, ma soprattutto emotivamente, sentimentalmente, affettivamente, intellettualmente; in una sola parola: spiritualmente.

Altro che “inesistenza del rapporto sessuale”, come sosteneva a suo tempo Jacques Lacan e come spesso oggi ribadisce uno dei suoi principali seguaci, Massimo Recalcati!

© Giovanni Lamagna

Il rapporto sessuale non esiste? (2)

Non condivido assolutamente l’affermazione di Lacan “il rapporto sessuale non esiste”, perché mi sembra la classica affermazione paradossale, ad effetto, che mira a far colpo, sbalordire, disorientare il lettore o l’ascoltatore, più che sostenere un’autentica verità.

Certo, se l’affermazione vuole dire che nessun rapporto sessuale riuscirà mai a fare di due “uno”, essa è senza alcun dubbio vera; ma in questo caso sostiene semplicemente una ovvietà, anzi una banalità.

D’altra parte manco l’amore riesce ad ottenere un tale miracolo.

Manco l’amore, che al contrario del sesso, coinvolge le anime prima che i corpi, riuscirà a fare di due persone un’unica persona.

Manco l’amore, che è il tipo di relazione più alta che può intercorrere tra due persone, per quanto assoluto, profondissimo, intimissimo esso possa essere, riuscirà mai ad eliminare la radicale solitudine che separa due individui.

E però questo cosa vuol dire: che non ha senso fare sesso?

In base a quello che sostiene Lacan, se volessimo prendere alla lettera la sua affermazione e trarne le estreme conseguenze, sì, non avrebbe senso.

Anzi, dirò di più, non avrebbe senso neanche l’amore stesso, perché ogni relazione d’amore, anche la più intima, profonda ed assoluta, è costretta a prendere atto dell’insuperabile confine che separa e separerà sempre le due persone che si amano.

E, invece, e giustamente, gli uomini, nonostante i limiti, i confini insuperabili, che li separano, continuano a fare sesso e continuano (per fortuna!) ad amarsi.

Non possono fare a meno di farlo; ne va della loro felicità; o, meglio, di quel poco di felicità che è data loro di godere.

D’altra parte lo stesso Freud (che non possiamo certo annoverare nella categoria dei pensatori ottimisti) – ne “Il disagio della civiltà” – sostiene, in buona sintesi, che lo scopo della vita umana è la ricerca della felicità; e che, anche se l’uomo non potrà mai essere (del tutto) felice, anche se (forse) l’infelicità nella vita prevale (in genere e complessivamente) sulla felicità, egli (cioè l’uomo) non potrà fare a meno di perseguire la felicità nel corso della sua vita.

E perché accade questo?

Semplicemente perché l’uomo è un folle, è un inguaribile illuso, perché è un bambino mai cresciuto che continua a credere alle favole, perché è un malato nevrotico che scambia le sue fantasie con la realtà?

A mio avviso, no! Nonostante tutto, no, non lo penso.

Perché penso che l’uomo che ama, perfino l’uomo che fa sesso senza amare, dopo aver amato e perfino dopo aver fatto sesso senza amore non sarà più lo stesso uomo che era prima di amare e prima di fare sesso.

In qualche modo sarà un uomo che avrà trasceso sé stesso, sarà diventato altro da sé.

E questo trascendimento non sarà sicuramente la felicità assoluta, senza ombre e senza limiti, che l’uomo (spesso) si illude di poter trovare quando ama o fa sesso; ma certo le allude, ha qualcosa a che fare con la felicità.

Indubbiamente, quando ama e perfino quando fa sesso, l’uomo rimane separato, irrimediabilmente diviso da colui o da colei che ama o con cui fa sesso.

Ma, allo stesso tempo, in qualche modo, si è avvicinato, si è reso, sia pure per un breve istante, intimo alla persona che ama e con cui ha fatto sesso.

E ciò fa esistere (altro che non esistere!), li rende una realtà ben concreta e sperimentabile e pertanto entrambi estremamente desiderabili, anzi le cose più desiderabili al mondo, sia la relazione d’amore che l’atto sessuale.

Alla faccia (mi sia perdonata questa piccola volgarità) di quanto pensava e sosteneva Jacques Lacan!

© Giovanni Lamagna

Auguri di Pasqua 2022

E’ Pasqua!

Dovrebbe essere un giorno felice…

o, quantomeno, sereno…

E, invece, non lo è.

La guerra in Europa oscura il cielo

e squarcia il velo del tempio:

Dio muore, invece di risorgere.

Si annuncia tempesta,

giorni tristi ci aspettano.

Teniamoci stretti,

quelli che ancora credono all’amore, alla tenerezza, alla nonviolenza.

Facciamo in modo che l’odio non entri nei nostri cuori.

Che l’odio non uccida l’amore.

Può darsi che moriremo lo stesso,

che la barbarie della violenza arriverà prima o poi anche nelle nostre case

e devasterà, dilanierà i nostri corpi.

Ma facciamo in modo che fino ad allora

e anche in quel momento estremo,

se dovesse arrivare,

la violenza non devasti, non dilani l’amore che teniamo custodito in noi.

Facciamo in modo che la pandemia dell’odio e della violenza

non contagi anche le nostre anime.

Salviamo almeno le nostre anime,

nel caso non riuscissimo a salvare i nostri corpi!

© Giovanni Lamagna

La vita è solo sofferenza?

Io non concordo con il presupposto fondamentale del Buddhismo, il punto da cui parte e si dipana l’intero pensiero del Buddha; e cioè che la vita sia sofferenza.

Per me, al contrario di Buddha, la vita non è solo sofferenza, ma è anche piaceri, gioie, in certi momenti (e per alcuni fortunati) addirittura felicità.

Basta vedere lo sguardo di un bambino, della maggior parte dei bambini (perfino, a volte, di quelli nati e cresciuti nelle situazioni più infauste) per rendersene conto.

Certo non posso e non voglio mica negare che nel mondo ci sia tanta, anzi tantissima, sofferenza, sia a livello dei corpi che delle anime: sarebbe da sciocchi o, meglio, ciechi negarlo.

Quello che non accetto però è l’idea (per me esagerata e, quindi, infondata) che nel mondo ci sia SOLO sofferenza.

D’altra parte, se fosse veramente così, non capirei perché nell’uomo (almeno nella grande maggioranza degli uomini) ci sia tanta voglia di vivere, fosse anche solo voglia di sopravvivere.

Se la vita fosse solo (o anche soprattutto) sofferenza, non sarebbe più naturale che l’uomo desiderasse di morire piuttosto che vivere, che desiderasse di farla finita subito e prematuramente, anziché aspettare il tempo naturale della morte?

In altre parole, la mia visione del mondo, al contrario di quella buddhista, di quella di tante (se non la maggior parte delle) religioni e di alcuni filosofi radicalmente pessimisti (come, per fare solo due nomi, i primi che mi vengono in mente: Schopenhauer e Cioran) non è né pessimista né ottimista.

Perché vede, registra, prende atto che nel mondo ci sono sia il bello che il brutto, sia il vero che il falso, sia il bene che il male, sia il piacere che il dispiacere, sia la gioia che il dolore, in un impasto (misterioso) che fa della vita una lotta continua tra l’uno/a e l’altro/a; alla ricerca della migliore condizione fisica e spirituale possibile, del cosiddetto ben-essere.

Ad un unico male – almeno per ora –  non possiamo opporci, un unico nemico non possiamo – almeno al giorno d’oggi – pensare di sconfiggere definitivamente: la morte.

E questo – in linea teorica – può/potrebbe giustificare il pensiero pessimista radicale.

Ma – almeno a mio avviso – manco la realtà della morte lo giustifica pienamente.

Perché è vero che la morte connota il nostro orizzonte futuro di ombre lugubri e funeree, però è anche vero che manco il pensiero della morte, che prima o poi ci raggiungerà, riesce a rovinare (e, meno che mai, a cancellare) alcune esperienze emotive di piacere, di gioia e persino di felicità, che – in momenti più o meno frequenti e prolungati – pure attraversano e in certi casi addirittura riempiono la nostra vita, impedendoci di sprofondare (come sarebbe inevitabile, se essi fossero del tutto assenti) nell’abisso della depressione e della disperazione.

E questo è un dato di realtà manifesto, verificabile e accertabile di continuo e da parte di (quasi) tutti.

Come lo è la condizione di sofferenza che a volte attraversa e, in genere, chiude, conclude la nostra vita: penso ai dolori dell’agonia che ci conduce alla morte.

Che la vita, oltre che sofferenza, sia anche piaceri e gioie, non è vaneggiamento e illusione, ma un dato di realtà incontrovertibile!

© Giovanni Lamagna

Amore e amicizia

E’ sempre duro, difficile, anzi terribile, per me constatare, ogni volta, come gli uomini (e per uomini qui intendo ovviamente sia i maschi che le femmine) diano molto più valore all’amore che all’amicizia; o, meglio, a quello che io preferisco definire “il cosiddetto amore”, cioè una certa idea dell’amore, non certo il “vero amore”.

Nella persuasione assurda, che io reputo addirittura stupida, che l’amicizia non sia fatta della stessa sostanza dell’amore, che l’amicizia sia altra cosa dall’amore, che l’amore sia una cosa e l’amicizia un’altra.

Chi la pensa così, a mio avviso, non ha mai sperimentato e quindi non ha mai compreso cosa siano né l’amore né l’amicizia.

Confonde l’amore con quel sentimento possessivo ed esclusivo che ci fa sentire una sola cosa con l’altro/a, pappa e ciccia, quel legame simbiotico che ci chiude (beninteso, ci auto-rinchiude) in un rapporto con una persona e (quasi) ci impedisce di vedere tutte le altre, quella relazione che Erich Fromm giustamente e opportunamente, nel suo “L’arte di amare” (1956), definisce di “egotismo a due”.

Quel rapporto che in nome della sicurezza (della reciproca protezione; da che, da chi, poi? dal resto del mondo?) rinuncia alla libertà; che, per guardarsi in continuazione negli occhi, rinuncia a guardare in avanti e attorno a sé; e che quindi rinuncia a godere della bellezza del mondo intero, nella falsa prospettiva che questa si riassuma in una sola persona, si racchiuda in un unico sguardo.

Come è diversa l’amicizia da questo (pseudo) amore! Ne è anzi l’opposto.

Due amici non si guardano solo negli occhi. Certo, ogni tanto lo fanno anche! Due amici si riconoscono innanzitutto dal fatto che non devono mai abbassare gli occhi l’uno di fronte all’altro. Perché essi non hanno mai da nascondersi nulla: sono due libri aperti, due case di vetro, l’uno per l’altro.

Ma due amici sono tali soprattutto perché guardano nella stessa direzione, guardano al mondo con gli stessi occhi. E, spesso, non hanno nemmeno bisogno di dirselo, di parlarne, perché si intendono al volo, senza neanche aver bisogno di fare ricorso alle parole o a tante parole.

E per questo gli amici, i veri amici, non hanno bisogno di chiudersi, di chiudere la loro amicizia in un hortus conclusus, di chiudersi in un rapporto prigione, per quanto dorata essa possa essere. L’amicizia, la vera amicizia, è sempre aperta ad altre relazioni, ad altre e nuove amicizie.

Perché la vera amicizia, per sua natura, per definizione, al contrario di tanti (pseudo) amori, non è gelosa, non è possessiva, non considera l’altro come una sua proprietà esclusiva. Non sacrifica mai la libertà per la sicurezza, ma nutre la sicurezza con la libertà e la libertà con la sicurezza.

Certo, l’amicizia (di solito) non prevede il sesso. Almeno così pensa, ritiene il comune (ma banale) immaginario. E, forse, questo, anzi sicuramente questo, fa ritenere l’amore superiore all’amicizia. Come se il sesso fosse un’esperienza superiore alla condivisione di una comune visione del mondo, dell’unum sentire, che è tipico delle vere e profonde amicizie.

Ma è poi vero anche questo? O non è anche questo uno dei tanti luoghi comuni del pensare piccolo borghese, cioè del pensare convenzionale che ha fatto della “proprietà privata” il valore sommo e di riferimento di ogni altro, il modello paradigmatico di ogni altra relazione tra soggetti, comprese quelle emotive, sentimentali, erotiche?

Perché, infatti, l’amicizia, laddove due amici ne provassero l’impulso e il desiderio, non dovrebbe poter sfociare anche nel sesso, dovrebbe escludere l’esperienza dell’incontro e della fusione dei sensi e dei corpi? Cosa lo vieta in linea di principio?

Obiezione: perché allora sarebbe amore!

Come se ciò che due amici provano normalmente, quando sentono le loro anime (cioè emozioni, sentimenti, idee, pensieri, valori, ideali…) muoversi all’unisono, non fosse già amore.

Come se l’amore (il vero amore, non il sentimento zuccheroso, mieloso, da “baci perugina”, che normalmente chiamiamo “amore”) non dovesse già comprendere l’amicizia.

E come se il rapporto che si fonda essenzialmente (se non esclusivamente) sull’attrazione sessuale, sui rapporti sessuali e su sentimenti esclusivi e possessivi di appartenenza reciproca, più che su una reale, forte, profonda, condivisione di pensieri, interessi, valori, ideali, in altre parole di visioni del mondo, potesse essere definito realmente “amore”.

Quanta confusione regna (da quando l’uomo ha potuto cominciare a definirsi tale, da quando esiste cioè l’homo sapiens) su questi due territori: quello dell’amicizia e quello dell’amore!

E quanta strada deve ancora compiere l’uomo per pervenire ad una più corretta conoscenza e consapevolezza dell’una e dell’altro e raggiungere in questo modo la sua piena e compiuta umanità!

© Giovanni Lamagna

Sui concetti di comunità democratica, reciprocità, eguaglianza, condivisione, comune, comunione, identità, setta, raggruppamento

Nel libro “Critica della ragione psicoanalitica” (Ponte alle Grazie, 2020), tra pag. 34 e pag. 35, Massimo Recalcati così scrive: “La condizione per una comunità democratica di eguali non è la reciprocità (mito incestuoso di una società dove “uno vale uno”; secondo Lacan luogo della rivalità immaginaria più oscena), ma l’assenza di reciprocità, ovvero, quello che Facchinelli qui definisce come l’eguaglianza tra i non eguali. In altre parole, seguendo Jean-Luc-Nancy, la condizione della condivisione che rende possibile la vita della comunità come vita aperta è il riconoscimento dell’esistenza dell’incondivisibile; la condizione del “comune” è il riconoscimento dell’assenza del comune, dell’impossibilità di ridurre la comunità a comunione. Nel lessico di Facchinelli si tratta, come vedremo tra poco, del rapporto sempre conflittuale tra tendenza alla settarizzazione e la spinta all’accomunamento che caratterizza la vita di ogni insieme umano.

Ci sono alcuni passaggi in questo testo che non condivido (almeno nella loro formulazione letterale), anche se metto in conto che forse non li ho capiti.

Non capisco, per incominciare, perché una comunità democratica non dovrebbe basarsi sulla “reciprocità”, ma dovrebbe invece fondarsi addirittura sulla “non reciprocità”.

A me (che sono cresciuto da ragazzo in ambito cristiano-cattolico) è stato insegnato “l’amore reciproco” ed io ho sempre pensato che era questo a fondare una qualsiasi forma di raggruppamento comunitario: da quello “di sangue” della famiglia a quello scelto e informale del gruppo di amici, fino a quello (più o meno istituzionale) di una comunità unita da ideali e forme di impegno di vario tipo: umanitario, sociale, intellettuale…

Non capisco, dunque, perché la “reciprocità” sarebbe, invece, inevitabilmente un “mito incestuoso… luogo della rivalità immaginaria più oscena”, come sostiene Lacan.

Certo, non mi sfugge che una comunità possa essere o diventare quello che denuncia Lacan. Non capisco, però, perché lo debba essere necessariamente, inevitabilmente, fatalmente, per sua struttura intrinseca, come mi sembra di leggere nel passo su citato.

Per me la comunità può essere benissimo allo stesso tempo un luogo di legami forti, stretti, di interdipendenza, ed il luogo della distinzione, della individuazione, dei confini netti e ben distinti tra le persone che la compongono, dotate ciascuna di una sua peculiare identità e autonomia.

Sono d’accordo che in una comunità le persone che la compongono non sono (e non debbono essere) uguali, cioè omologate, in quanto ognuna di esse è e deve restare diversa, con sue caratteristiche (e competenze) proprie e specifiche.

Il che non impedisce (o, meglio, non dovrebbe impedire) che esse siano eguali, nel senso profondo, valoriale, assiologico, della parità dei diritti e dei doveri, della “uguale” dignità umana.

Da questo punto di vista l’espressione “uno vale uno” torna ad avere allora un senso e un suo pieno e alto valore sul piano della democrazia (livello istituzionale) oltre che su quello della fraternità (livello dei rapporti interpersonali).

Non capisco inoltre (per continuare il mio commento) espressioni come “la condizione che rende possibile la vita della comunità come vita aperta è il riconoscimento dell’esistenza dell’’incondivisibile” o “la condizione del comune è il riconoscimento dell’assenza del comune, dell’impossibilità di ridurre la comunità a comunione”.

Certo, se esse vogliono dire che in una qualsiasi comunità c’è sempre un quid che non sarà mai del tutto e pienamente condiviso e condivisibile da tutti, se esse vogliono dire che una comunione totale (che poi vorrebbe dire la fusione, la simbiosi totale) è impossibile (e manco auspicabile), sono d’accordo.

Ma allora vanno dette in maniera diversa, meno apodittica e più articolata.

Cosa sarebbe, infatti, una comunità, per quanto aperta e non chiusa essa voglia essere e rimanere nel tempo, se non avesse delle cose (anzi molte cose) da condividere, se non ci fosse un “comune” che la tiene unita, se “comunità” non significasse anche “comunione” di anime e perfino di corpi, di beni spirituali e persino (in alcuni casi) materiali?

Concordo, infine, nel segnalare il rischio che una comunità diventi una setta e nell’indicare l’opportunità che essa rimanga invece sempre aperta e in dialogo con l’esterno, con i diversi e con le diversità.

Ma questo non mi porta a pensare che una comunità possa costituirsi e durare senza una sua identità ben precisa e autonoma, che la distingua da altre comunità.

In altre parole, il termine “identità”, per me, non è sinonimo (ovviamente negativo) di separatismo o, addirittura, di settarismo e di chiusura.

Esistono indubbiamente le identità chiuse, integraliste e intolleranti verso le diversità, ma esistono anche le identità aperte e disponibili al dialogo e al confronto con l’altro da sè.

Di questa “verità”, d’altra parte, ci dà conferma utile anche ciò che accade a livello intrapsichico.

Come ci ha insegnato Erich Erikson, nella vita affettiva di una persona adulta non è possibile l’esperienza dell’intimità, cioè di relazioni salde, calde e significative (quindi potremmo dire – anche e per estensione – l’esperienza della comunità), se la persona non ha raggiunto, al termine della sua adolescenza, una forte e salda identità individuale, se non ha completato il suo percorso di “individuazione”, come avrebbe detto Jung.

© Giovanni Lamagna

Il movimento e la stasi

Il movimento e la stasi sono due facce della stessa medaglia: è possibile cogliere l’una se si coglie contemporaneamente anche l’altra e viceversa.

Se esistesse solo una delle due realtà, la sua osservazione ci sfuggirebbe o, quantomeno, sarebbe molto più difficile, se non addirittura impossibile per noi coglierla.

Essa, invece, ci appare o ci risulta meglio visibile e percepibile quando è presente anche l’altra.

Questo pensiero mi è venuto poco fa osservando da lontano un insetto che si muoveva sul pavimento.

Non ero certo che si stesse muovendo, dal momento che, se lo faceva, lo stava facendo molto lentamente, quasi impercettibilmente.

Allora mi è venuto spontaneo prendere a riferimento la linea di fuga che separa una mattonella dall’altra, linea ovviamente immobile, statica.

Ho potuto quindi osservare che l’insetto muovendosi – per quanto in maniera impercettibile – si stava avvicinando ad una delle linee di fuga.

Ho avuto allora conferma che si stava muovendo. La stasi della fuga mi ha reso evidente (come prima non lo era) il movimento dell’insetto.

Al contrario, quando sto in un treno in movimento e mi passa accanto un altro treno che viaggia nella stessa direzione e alla stessa velocità del mio, la mia sensazione è che entrambi i treni siano fermi.

Ricevo conferma che il mio treno o quello a fianco sono in movimento solo se uno dei due accelera rispetto all’altro o, al contrario, si ferma.

In questo caso il movimento di uno dei due treni e la stasi dell’altro mi fanno vedere sia il movimento dell’uno che la stasi dell’altro.

Movimento e stasi che non avevo potuto cogliere quando entrambi i treni erano in movimento e andavano alla stessa velocità.

E’ questa una semplice osservazione che possiamo ricavare dal mondo della fisica. Ma che ha però una valenza anche metaforica. Perché può essere estesa anche al mondo della psiche.

Infatti, se due “anime”, due psiche, camminano entrambe nella stessa direzione e più o meno alla stessa velocità, nel loro rapporto non si avvertirà nessuno stridore. Allo stesso modo se entrambe stanno ferme.

Il problema si porrà nel momento in cui una delle due si ferma mentre stavano camminando entrambe. O nel momento in cui una delle due si mette in cammino, mentre fino ad allora erano state entrambe ferme.

Insomma, in altre parole, anche nei rapporti umani, quindi anche nel mondo della psiche oltre che in quello della fisica, il movimento o la stasi si avvertono solo nel momento in cui una delle due persone coinvolte nel rapporto sta ferma e l’altra si muove.

Altrimenti il movimento come la stasi non saranno avvertiti: nessuna delle due ci farà caso; per entrambe sarà naturale camminare o, all’opposto, stare ferme.

Questo spiega la pace (o l’apparente pace) e i conflitti che vengono a crearsi nelle relazioni.

© Giovanni Lamagna