Archivi Blog
Scissioni e nevrosi del comportamento amoroso.
Nel 1912 in una pagina di “Psicologia della vita amorosa” Sigmund Freud affermava: “Non possiamo sottrarci alla conclusione che oggi il comportamento amoroso dell’uomo, del nostro mondo civile, è improntato a impotenza psichica.
Solo in una minoranza delle persone colte la corrente di tenerezza e quella sensuale si armonizzano reciprocamente;
quasi sempre, nella attività sessuale, l’uomo si sente limitato dal rispetto per la donna e sviluppa la sua piena potenza solo quando ha dinanzi a sé un oggetto sessuale degradato.”
Come a dire: generalmente l’uomo non desidera eroticamente e sessualmente la donna che ama, alla quale è legato (coniugato) da un rapporto sentimentale ed affettivo, con la quale ha messo magari al mondo dei figli, mentre è attratto eroticamente e sessualmente dalla donna considerata “puttana”, alla quale non lo unisce un legame particolarmente forte sul piano sentimentale ed affettivo e che magari, in cuor suo, persino disprezza.
A distanza di più di 100 anni, da quando tale affermazione fu fatta, possiamo dire con sufficienti elementi di certezza, sulla base di quanto ci è dato osservare attorno a noi, che il comportamento amoroso dell’uomo, in quello che Freud – non so quanto del tutto a ragione – definiva “il nostro mondo civile”, non è cambiato granché.
Anzi a me sembra che non sussista (e, in effetti, non sia mai esistita) manco la differenza tra la minoranza delle persone colte e le altre di cui parlava Freud.
Penso, infatti, che “l’impotenza psichica” – di cui, a detta del fondatore della psicoanalisi, soffrono la grande maggioranza degli uomini – non dipenda dal loro basso livello culturale, quanto piuttosto dalla loro bassa educazione emotiva e sentimentale.
E che questa è dato riscontrarla sia nei maschi di basso sia in quelli di alto livello culturale.
Aggiungo che, a mio avviso, la disfunzione a cui fa riferimento Freud non è un problema solo degli uomini, ma è un problema che accomuna sia gli uomini che le donne.
Legato, sì, a modelli culturali, ma non nel senso dell’istruzione (che pure in una certa misura lo influenza), ma nel senso dei modelli antropologici che si sono venuti creando nel corso dei secoli, anzi dei millenni.
L’affermazione – quasi ovunque divenuto egemone – del modello patriarcale, col dominio della figura maschile in quasi tutti i contesti sociali, ha portato alla instaurazione di un certo tipo di relazioni maschio/femmina, che si è esplicitato, concretizzato, nell’istituzione (quasi universale) del matrimonio e della famiglia.
In questi due tipi di istituzioni (almeno nel momento in cui sono nati e si sono consolidati) la donna veniva considerata oggetto (munus) fondante di un contratto tra maschi e, in quanto tale, associabile a ciò che è proprietà del maschio.
Questo tipo di organizzazione sociale ha, come è ovvio, fortemente inciso sulla dimensione emotiva, sentimentale ed affettiva della relazione tra il maschio e la femmina ed è, a mio avviso, la prima causa di quella scissione, di cui parla Freud, tra la corrente di tenerezza (su cui si fonda l’amore come philia e agape) e quella sensuale (su cui si fonda l’amore come eros).
Nelle società patriarcali classiche, anzi, la dimensione emotiva, sentimentale ed affettiva non aveva nessuna importanza: i matrimoni venivano combinati dai padri delle rispettive famiglie di origine e i due sposi coinvolti erano i semplici destinatari di un contratto stipulato da altri per loro conto.
Non solo la femmina-sposa era quindi oggetto di una trattativa, ma lo stesso maschio-sposo lo era: l’oggetto del contratto era uno scambio di beni fisici e materiali; l’amore (sia nella sua versione fraterna e agapica che in quella erotica e sensuale) contava praticamente nulla.
Coi tempi moderni, soprattutto a partire dall’Ottocento, col fenomeno culturale passato alla storia col nome di “Romanticismo”, la dimensione emotivo-affettiva cominciò ad acquisire un suo ruolo e una sua importanza nei rapporti tra maschio e femmina.
Continuò a restare, invece, ai margini, quella erotico/ sessuale, che veniva in genere soddisfatta in ambiti diversi dal rapporto istituzionale (quello matrimoniale) o anche dallo stesso rapporto sentimentale non ancora formalizzato, che veniva vissuto generalmente in forme molto idealizzate, se non addirittura del tutto platoniche.
Con la conseguenza che la scissione tra la corrente di tenerezza e quella sensuale di cui parlava Freud continuò a persistere anche nei decenni successivi al primo ‘800 romantico.
Anzi la mia impressione è che essa continui ancora oggi a sussistere, a dispetto di tutte le cosiddette rivoluzioni sessuali nel frattempo intervenute.
E che continuerà a sussistere per molto, molto tempo ancora.
Essa si ricompone (quando si ricompone), in molte situazioni, solo all’inizio del rapporto moroso e solo per una (più o meno) breve fase; poi (più o meno nel breve tempo) ricompare di nuovo nella maggior parte delle relazioni.
Potrà scomparire del tutto, a mio avviso, (ammesso che questo prima o poi accada) solo quando la dinamica proprietaria instauratasi col matrimonio e con la famiglia patriarcale e introiettata oramai profondamente dalla grande maggioranza degli umani, tanto da essere ben presente anche nelle epoche successive, (solo) apparentemente post-patriarcali, sarà definitivamente superata.
Ma credo e temo che per arrivare a questo esito ci vorranno ancora molti decenni, se non addirittura secoli.
Sempre che nel frattempo non intervengano (come ho l’impressione che accadrà, a giudicare dall’attuale evolvere dei costumi sessuali) altre scissioni, di origini e nature diverse da quella denunciata da Freud, ma non meno, se non forse addirittura più, nevrotiche ancora.
© Giovanni Lamagna
Esiste la possibilità di una difesa nonviolenta di fronte ad un’aggressione armata?
Qualche giorno fa ho pubblicato su facebook il seguente pensiero: “Chi è consapevole di essere parte di un Tutto indivisibile non può concepire (e, meno che mai, fare) la guerra.”
Un amico così lo ha commentato: “E se la guerra te la fanno? Non ti difendi?”.
E’ questa, a mio avviso, la domanda fondamentale alla quale i pacifisti “senza se e senza ma”, coloro (tra i quali mi annovero anche io) che hanno fatto la scelta della nonviolenza, devono dare una risposta convincente e non (solo) ideologica, in grado pertanto di sensibilizzare le coscienze a livello di massa e provocare comportamenti conseguenti, non solo di piccole avanguardie ma di un popolo intero.
Ovviamente – sia detto per inciso – il pacifista nonviolento non prende nemmeno in considerazione il ricorso alla violenza di attacco; se rinuncia alla difesa violenta, per quanto legittima, come potrebbe prendere in considerazione l’azione violenta di attacco?
E però il pacifista nonviolento non può evadere, invece, gli argomenti che gli vengono opposti rispetto alla difesa nonviolenta, da lui ipotizzata, nei confronti di un attacco violento ricevuto: “che fai, se la guerra te la fanno, tu non ti difendi?”
A questa domanda bisogna necessariamente rispondere, non la si può evadere.
E la prima risposta che mi viene di dare è che, certo, anche il pacifista, anche il nonviolento hanno il diritto di difendersi; è non solo legittimo, ma naturale, anzi persino doveroso, che lo facciano.
Solo che il pacifista non violento si difende senza fare ricorso alla violenza, senza rispondere alla violenza con altra violenza.
Allo stesso modo di come fanno, del resto, la gran parte dei cittadini civili in una comunità civile.
Anche in una società complessivamente civile si verificano, infatti, talvolta episodi di violenza, ovverossia episodi di inciviltà; e ciascuno di noi corre il rischio di rimanerne vittima.
Io, ad esempio, una volta (era quasi mezzanotte) sono stato rapinato da una piccola banda armata di giovinastri mentre mi ritiravo a casa.
Ma non per questo andiamo in giro armati, per poterci difendere con le armi, nell’ipotesi di trovarci in una situazione simile a quella nella quale mi sono trovato io tempo fa.
Nella gran parte dei casi quasi tutti noi reagiamo a queste forme di violenza senza opporre resistenza, consapevoli che il gioco non varrebbe la candela; e solo successivamente ricorrendo alla denuncia dell’accaduto in un posto di polizia.
Questo è ciò che avviene in una società evoluta, quella che noi definiamo normalmente e sanamente civile.
Le società, nelle quali moltissimi cittadini si armano per poter fronteggiare autonomamente e privatamente situazioni simili a quelle che ho sopra descritto e nelle quali la legge permette o addirittura incoraggia tale tipo di autodifesa, appaiono alla maggior parte di noi più simili al Far West che a delle società compiutamente civili.
Il problema che sembra oramai risolto al livello delle comunità civili, al loro interno, si pone però (bisogna riconoscerlo!) quando la violenza si affaccia al livello dei rapporti tra le diverse comunità, tra i diversi Stati, tra le Nazioni.
Innanzitutto perché la violenza a questo livello assume dimensioni ben maggiori di quelle che normalmente sono toccate al livello delle relazioni interpersonali o tutt’al più delle relazioni tra gruppi all’interno di una stessa comunità.
Sia perché in questo caso mancano norme, legislazioni condivise, che tutelino efficacemente chi subisce violenza; sia (soprattutto) perché, anche quando queste norme e le Istituzioni che dovrebbero farle rispettare almeno formalmente ci sono, esse sono deboli o del tutto inadeguati gli strumenti e le forze per far rispettare queste norme (vedi ONU).
Come ci si può difendere allora a questi livelli, senza fare ricorso alle armi, senza rispondere alla violenza con la violenza, alla guerra con la guerra; e senza nello stesso tempo arrendersi passivamente all’avversario/nemico che ci ha assalito, che ha invaso e occupato i nostri territori?
Esistono risposte nonviolente alla violenza, che non siano la pura e semplice resa? A mio avviso, sì!
La prima è la non-collaborazione; un esercito nemico potrà invadere il nostro territorio, occuparlo, ma non potrà mai invadere ed occupare le nostre coscienze (nota 1); un popolo che non si arrende è un popolo che non collabora col nemico nella gestione del territorio occupato.
La seconda risposta possibile è il boicottaggio di tutte le iniziative che l’esercito nemico proverà a intraprendere sul territorio occupato; boicottaggio innanzitutto psicologico e poi anche materiale.
La terza risposta è quella dello sciopero di protesta nonviolenta; la discesa in campo aperta, con manifestazioni pubbliche, più o meno spontanee, meglio se organizzate, preparate magari in modo clandestino.
La quarta risposta è quella della ricerca il più possibile ampia della solidarietà internazionale, la quale potrà esprimersi con forme di sanzioni e prese di posizione formali diplomatiche da parte di altre nazioni, in modo da isolare il più possibile a livello internazionale la nazione occupante. (nota 2)
Certo, nessuna di queste risposte nonviolente ad un attacco violento è in grado di fermare l’avanzata e – ancora meno – provocare la ritirata e, quindi, la sconfitta militare dell’esercito nemico: di questo sono pienamente consapevole.
Ma d’altra parte è forse in grado di offrire migliori garanzie la risposta violenta?
Non mi sembra! A giudicare dalle immagini che la televisione ci trasmette ogni giorno, quasi ad ogni ora, della guerra attualmente in corso in Ucraina: intere città rase al suolo, migliaia di morti non solo tra i militari ma anche tra i civili, un apparato economico, soprattutto industriale, in gran parte distrutto, milioni di persone costrette a vivere in condizioni inumane da oramai più di tre mesi o ad abbandonare la loro patria per trovare rifugio all’estero.
Immagini di una tale violenza distruttiva non dovrebbero insinuarci qualche dubbio sul tipo di risposta che sia il popolo ucraino che la comunità (?) internazionale (almeno quella occidentale) hanno dato finora all’invasione russa e indurci a ipotizzare e immaginare (quantomeno ipotizzare e immaginare) altri scenari possibili?
© Giovanni Lamagna
…………………………………..
(nota 1): Ricordo a tale proposito la risposta che diede l’attuale Dalai Lama a chi gli chiedeva come mai non incitasse il proprio popolo ad una ribellione armata contro l’occupazione cinese del Tibet: “I cinesi hanno già occupato il nostro territorio; non posso permettere loro di occupare anche la mia anima.”
(nota 2) Ovviamente perché queste risposte possano risultare efficaci occorre che esse vengano preparate bene e anzitempo, cioè in tempo di pace; né più e né meno di come gli eserciti si addestrano ad azioni militari di guerra, quando la guerra non c’è.
E che tutto il popolo (o almeno la gran parte di esso) vi partecipi: non solo i giovani, bene in salute e prevalentemente maschi, ma anche le donne, le persone con handicap fisici e gli anziani; per alcune azioni, perfino i bambini e i vecchi.
Alcune considerazioni sul Cristianesimo
Un amico mi scrive: “Secondo me, amare i propri nemici è una follia contro natura e uno dei motivi per cui il cristianesimo è in via di estinzione. Anzi il vero cristianesimo è già estinto da secoli. Quello che sopravvive è un cristianesimo fai-da-te e ipocrita.”
Qui di seguito la mia risposta.
Caro B., amare i propri nemici sarebbe contro natura, se nell’uomo ci fossero solo pulsioni che tendono alla competizione e alla sopraffazione, per cui all’invidia, all’aggressività, all’odio non si può che rispondere con altrettanto odio e aggressività; in altre parole se fosse vero che “occhio per occhio, dente per dente”.
Come forse ritieni tu. Ma – devo riconoscere – non sei certo il solo: nella storia ti hanno preceduto caterve di uomini di pensiero illustri, quali – per fare solo quattro nomi – Machiavelli, Hobbes e, per molti aspetti, Nietzsche e Freud.
Io, invece, penso (ma mi sento, a mia volta, in buona compagnia, con fior di altri illustri pensatori) che nell’uomo esistano indubbiamente le pulsioni (negative e distruttive) di cui sopra, ma esistano anche quelle (positive e costruttive) che tendono alla compassione, alla cooperazione e persino all’amore.
Il “vero cristianesimo” (come lo definisci tu) mirava a che le seconde superassero, annullassero o, quantomeno, integrassero le prime in ogni singolo uomo; perciò invitava, sollecitava, ad una vera e propria conversione del cuore.
E questo non è, certo, facile da realizzarsi, ma, almeno a mio avviso, non è neanche del tutto impossibile o, addirittura, una follia, perché radicalmente “contro natura”, come invece sostieni tu.
Il Cristianesimo, il vero Cristianesimo, si è estinto da tempo?
Questo è forse il tuo auspicio, ma a me (e, a dire il vero, non solo a me) non sembra affatto; del resto, quando sembra morto, il Cristianesimo rinasce dalle sue ceneri.
Intanto sono vive e ancora abbastanza vegete le Chiese, che, pur con tutte le loro infinite contraddizioni (e, in certi casi, persino misfatti; pensiamo agli ultimi, recenti, episodi venuti alla luce di pedofilia tra i preti), al Cristianesimo si richiamano.
Questo è, che ci piaccia o no, un dato storico inoppugnabile; ora, mi sai dire quali altre istituzioni, che abbiamo conosciuto nella Storia, sono state in grado di durare così a lungo nel tempo?
Ma soprattutto il Cristianesimo ha gettato un seme profondo, ritengo oramai indelebile, che vive nella coscienza morale di tanti, tantissimi, uomini di spirito, che ne hanno colto e si sforzano di praticare il suo messaggio essenziale.
Perfino uomini che non si sono riconosciuti ieri e non si riconoscono oggi nelle Chiese che al Cristianesimo facevano e fanno riferimento; perfino uomini (tra i quali metto immodestamente il sottoscritto) che si dichiarano non credenti, che non si riconoscono in nessuna fede religiosa.
Basti pensare a uno per tutti, a Benedetto Croce, che su questo argomento scrisse un piccolo saggio diventato poi famoso e spesso citato: “Non possiamo non dirci cristiani”; e lui non era certo un “uomo di fede”, almeno nel senso classico e tradizionale che ha assunto questa espressione.
© Giovanni Lamagna
Virus terrorismo
Quando la situazione economica, sociale, culturale, politica e istituzionale di un paese è bloccata, paralizzata da forze e spinte contrapposte, molto probabilmente sta incubando il virus terrorismo.
© Giovanni Lamagna
La politica deve essere necessariamente una professione?
Il terzo mito filosofico da sfatare è quello della “politica come professione”. Che allude immediatamente e inevitabilmente al titolo (“Politik als Beruf”) della famosa conferenza tenuta da Max Weber nel 1919.
Chi intende la politica essenzialmente come una professione, infatti, spesso si rifà all’autorevolezza del grande pensatore tedesco per avvalorare la sua tesi, dimostrando di non aver letto bene o di non aver letto per niente lo scritto di Weber.
Infatti, a leggere bene il testo di Weber, non emergono affatto argomenti a sostegno della tesi che la politica debba essere terreno esclusivo degli specialisti, anzi dei professionisti della politica.
Innanzitutto perché il termine “Beruf” in tedesco può essere inteso sia come “professione” che come “vocazione”. E poi perché dalle argomentazioni che porta avanti Weber sembra che egli abbia voluto dare al termine più la seconda accezione che la prima.
E comunque qui io non voglio appoggiarmi tanto all’autorità intellettuale di Max Weber, ma provare a fare un ragionamento autonomo. Che tende a replicare a due argomenti forti di chi sostiene la tesi della “politica come professione”.
I due argomenti sono: 1) la politica richiede competenze specialistiche; 2) la politica richiede esperienza.
………………………………..
Al primo argomento così replico. Certo la politica richiede competenze specialistiche. Non credo affatto che la casalinga di Voghera possa andare al governo del Paese e governare bene. Né che “uno valga uno”, come sostengono i 5 Stelle.
Ritengo, infatti, che per occuparsi di questioni economiche occorra essere degli economisti, che per occuparsi di questioni scolastiche occorra essere esperti del mondo della scuola, che per occuparsi di questioni sanitarie occorra essere esperti del mondo della sanità, che per occuparsi di infrastrutture occorra essere degli ingegneri, che per occuparsi della questione della giustizia occorra essere dei giuristi e così via…
Ma, se questo è vero, allora il punto è mettere al posto giusto, per decidere delle questioni che riguardano il bene comune (cioè la politica), le persone giuste, cioè dei tecnici competenti. E non il politico di professione, che magari non capisce niente delle questioni tecniche di cui si dovrà occupare ed ha come unico titolo quello di fare il “politico di professione”.
E non mi si venga a dire che per fare il ministro o l’assessore non occorre essere competenti delle questioni di cui si occupa un certo ministero o un certo assessorato, perché il ministro o l’assessore deve avere e dare una linea politica e non essere un tecnico esperto della materia specifica di un ministero o di un assessorato.
Perché a questa obiezione rispondo: ma la linea politica riguardante un determinato settore di problemi mica nasce in un empireo astratto, separato dalle questioni concrete; si forma, invece, analizzando le questioni concrete e confrontando, diverse ipotesi di soluzione, per poi sceglierne una, certo anche in base ad una determinata line politica, ma non certo prescindendo da un obiettivo esame tecnico dei problemi.
Se il ministro o l’assessore delle questioni concrete facenti capo al suo ministero o al suo assessorato, non capisce niente, come farà a scegliere tra le varie ipotesi di soluzione?
Non sto manco dicendo (come dicono i 5 Stelle) che le questioni sono solo tecniche e che fare scelte politiche significa dare semplicemente soluzioni tecniche ai problemi. Perché non esisterebbero soluzioni di destra, di sinistra o di centro, esisterebbero solo “le soluzioni”, come fatti esclusivamente tecnici e, quindi, neutri.
Questa è un’emerita sciocchezza, contraddetta, tra l’altro dalla stessa esperienza politica dei 5 Stelle, che hanno rotto con la Lega sulle soluzioni politiche da dare alle questioni tecnico-politiche che via, via si ponevano. Segno evidente che ai problemi si posso dare soluzioni tecniche diverse, la cui diversità è data dal loro diverso segno politico.
Sto solo dicendo (e lo ribadisco di nuovo) che le soluzioni politiche non possono prescindere da un esame tecnico dei problemi. La scelta sulla TAV (per fare un solo esempio) è di natura squisitamente e prevalentemente politica (nel senso che dipende in ultima istanza dalla visione politica dello sviluppo e di ciò che si intende per “progresso”, che ciascuna forza politica ha).
Ma non può prescindere da una valutazione (anche) tecnica dei costi (non solo economici) ed degli eventuali benefici, che l’opera comporta.
Qual è allora la mia proposta per selezionare e scegliere il personale politico destinato a ricoprire determinati ruoli politico-istituzionali?
La mia proposta è quella di “pescare” nella società civile le competenze professionali migliori nei vari settori della vita economica e culturale. E affidare loro incarichi politici, cioè istituzionali, collegati alle loro competenze.
Ma per periodi non troppo prolungati. Conclusi i quali, il “professionista politico” (che è cosa ben diversa dal “politico di professione”) tornerà a svolgere la professione per cui si è formato e che praticava prima di “entrare in politica”.
In questo caso il professionista in questione non sarebbe “prestato alla politica”, come si suol dire oggi con un’espressione a mio avviso impropria, ma sarebbe semmai “prestato alle Istituzioni”.
Nessuno di noi può essere, infatti, “prestato alla politica”, perché ciascuno di noi è “politico” nella sua essenza, è politico vita natural durante e in ogni atto che compie. Non si entra in politica, perché si è già politici per il semplice fatto di essere cittadini. Semmai si entra nelle istituzioni: che è cosa diversa.
In questo modo, secondo questo mio criterio, nessuno diventerebbe mai “politico di professione”, non ci sarebbero più i cosiddetti “professionisti della politica”, e, nello stesso tempo, la politica avrebbe a sua disposizione le professionalità migliori presenti nel campo della cittadinanza, cioè della cosiddetta “società civile”.
Questo tipo di selezione garantirebbe, oltretutto, al massimo l’autonomia e l’indipendenza dell’uomo politico, il quale non verrebbe mai a trovarsi nella condizione di quei chierici che perdono la vocazione ma sono costretti a continuare a fare i chierici perché questo è anche il loro mestiere, quello che garantisce loro il reddito con cui vivere.
E nello stesso tempo limiterebbe al massimo il rischio che la categoria degli uomini a cui affidiamo la nostra rappresentanza e, soprattutto, la gestione delle nostre Istituzioni, si costituisca, come spesso è avvenuto in passato e come avviene ancora tuttora, in corporazione separata dagli altri cittadini e, quindi, come vera e propria casta.
……………………..
Al secondo argomento (“la politica richiede esperienza”) replico con le argomentazioni che seguono.
Certo, la politica richiede esperienza!
E, infatti, le scelte politiche non possono essere improvvisate: richiedono competenze tecniche, professionali (come abbiamo visto in precedenza); e le competenze uno o ce le ha o non ce le ha, non se le può inventare solo perché fa il politico di professione.
E questo è quindi (come abbiamo già visto) un argomento non a favore, ma semmai contro il concetto di “politica come professione”.
In secondo luogo, se la politica richiede esperienza, non ci si improvvisa politici. Perché le relazioni politiche richiedono ponderazione, capacità di dialogo, di diplomazia, di compromesso, conoscenza della vita, saggezza e chi più ne ha più ne metta.
Tutte doti, qualità, che possono anche essere innate in alcuni casi (lo dubito, però), ma che nella maggior parte dei casi, si maturano col tempo, con l’avanzare dell’età.
Questo va contro un vezzo oggi molto diffuso in politica, dopo la vertiginosa ascesa del giovane Renzi (seguita da una altrettanto vertiginosa e ben meritata sua caduta): quello che, se hai superato una certa soglia di età non sei più buono per fare politica, per ricoprire incarichi istituzionali, vai rottamato.
Magari sei buono per lavorare in miniera o presso un altoforno, ma non lo sei più per la “politica”.
La mia tesi sostiene esattamente il contrario: io penso che in politica più sono alti i livelli degli incarichi istituzionali da ricoprire e più bisogna affidarli a persone di età avanzata (non sto parlando, ovviamente, degli ottuagenari, come Napolitano, ad esempio). Perché gli anziani sono, appunto, dotati di esperienza (come ci hanno insegnato bene i Romani, per i quali i “senatores” erano appunto gli anziani).
Trovo singolare, quindi, che chi sostiene la tesi del “professionismo in politica” trovi poi del tutto naturale, anzi addirittura auspicabile, che vengano affidati incarichi istituzionali (perfino nel governo nazionale) a uomini e donne quarantenni o, addirittura, trentenni.
Per me l’esperienza necessaria in politica significa innanzitutto questo: che prima di una certa età non puoi (e non dovresti) ricoprire determinati incarichi istituzionali, perché potrai anche essere uno scienziato, ma non ne hai (appunto!) l’esperienza (quantomeno quella umana).
Come dimostra, ad esempio, da ultimo ma non da sola, la vicenda politica del 33enne Di Maio.
L’esperienza, quindi, per me (anche per me) necessaria in politica, non è quella maturata nella “professione della politica” (per intenderci, come funzionario di qualche organizzazione politica), ma piuttosto quella che matura cogli anni nel corso della vita in generale e nell’ambito delle professioni specifiche in particolare.
E’ di questa esperienza che le Istituzioni hanno un imprescindibile bisogno ed è questo tipo di esperienza (e solo di questa) che non bisogna far mancare alla politica, cioè alla gestione pubblica, dei nostri quartieri, dei nostri comuni, del nostro Paese.
Della esperienza dei “funzionari di partito” possiamo, invece, benissimo fare a meno. Questi, infatti, tendono a fare più i loro interessi personali o, tutt’al più, quelli dell’organizzazione di cui sono parte, che gli interessi comuni della collettività, da cui spesso anzi si sentono “separati”, quasi fossero una casta a parte.
Giovanni Lamagna
(4, fine)