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Ansia e atteggiamento ansioso.
L’ansia è l’eccesso di preoccupazione per ciò che ci riserverà il futuro.
Si può parlare di ansia quando la preoccupazione per il futuro è esagerata, non giustificata dai dati di realtà.
L’atteggiamento ansioso è, invece, la tendenza (che abbiamo spesso alcuni di noi) a fare le cose in maniera frettolosa e approssimativa, ovverossia nei tempi e coi modi sbagliati.
Più che con l’ansia, ha a che fare con il non rispetto dei tempi giusti, quelli cioè necessari a fare determinate cose.
Che si manifesta, in modo particolare, quando le cose che stiamo facendo non ci appassionano molto o addirittura ci annoiano.
Per cui vorremmo (e cerchiamo di) sbrigarle nel minor tempo possibile.
E non per senso del dovere, ma per liberarcene quanto prima possibile.
© Giovanni Lamagna
Prove e stato di grazia
Ho fatto caso in più circostanze (ma credo non sia una esperienza solo mia), che, quando devo affrontare un passaggio faticoso, doloroso o anche solo fastidioso, provo un’ansia e una preoccupazione maggiori quando la “prova” (definiamola così) da affrontare dista giorni o settimane; minori quando essa si avvicina o addirittura il giorno in cui poi la devo affrontare davvero.
E’ come se nel momento preciso della “prova” il mio spirito si rilassasse, calmasse, abbandonasse o, forse, al contrario, si concentrasse al massimo, utilizzando tutte le sue risorse e potenzialità; e, quindi, risultasse più forte, più coraggioso; quasi lo investisse uno “stato di grazia”, specifico, adatto ad affrontare e superare nel migliore dei modi la “prova” a cui ero stato chiamato.
© Giovanni Lamagna
Recensione del film “Girl” (2018)
Ieri sera al cineforum ho visto “Girl”, un film del giovanissimo (appena 28enne) regista belga Lukas Dhont, alla sua prima prova con un lungometraggio (aveva fino ad ora prodotto solo cortometraggi).
Film doloroso, a tratti drammatico, ma allo stesso tempo tenero e delicato.
E’ la vicenda di un ragazzo quindicenne che si sente donna e per giunta con la vocazione a diventare una ballerina di danza classica.
Il ragazzo (nato Victor) è deciso a intraprendere una terapia ormonale per arrivare all’intervento chirurgico che gli consenta di acquisire un corpo di donna (il corpo di Lara), conforme finalmente a quello che lei si sente dentro.
E, in questo, trova (cosa piuttosto insolita) un ecosistema familiare e sociale del tutto favorevole e accogliente, al limite dell’ideale, se non proprio della favola.
Un padre tenero e disponibile, che ha accettato profondamente la situazione del figlio nato col corpo di maschio ma con una psiche da femmina.
Perfino un fratellino (di sei anni) che lo vive quasi come una piccola madre: la madre dei due (stranamente e un po’ misteriosamente) nel film non compare mai, è una figura totalmente assente.
Gli amici di famiglia, che lo coccolano senza mai minimamente fargli pesare la sua condizione “ambigua”.
Uno psicologo estremamente empatico e incoraggiante.
Un’equipe medica competente, attenta, scrupolosa, delicata, allo stesso tempo assertiva e stimolante.
Degli insegnanti amorevoli, premurosi, severi, esigenti, ma anche capaci di dare il giusto sostegno.
Perfino un gruppo di compagne e compagni di classe ben socializzati, che non fanno minimamente pesare a Victor/Lara la sua condizione ambivalente e, sia pure con qualche punta di malizia tipica dell’età, in fondo l’aiutano a superare le sue timidezze e inibizioni (ad esempio, quella di fare la doccia assieme a tutte loro o di mostrare il suo sesso).
Eppure Lara, una volta avviata la “procedura” per cambiare il suo sesso fisico, vive molti momenti di tensione e paura. E’ presa dall’angoscia di non farcela, dalla preoccupazione che la terapia ormonale non sortisca i risultati voluti e sperati, soprattutto è presa dall’ansia e dalla conseguente fretta, dal desiderio di anticipare i tempi stabiliti dal protocollo medico.
Il suo conflitto è tutto interiore e contrasta, stride, con l’ambiente esterno estremamente (e, ripeto, anche singolarmente) favorevole.
Questa situazione psicologica prelude al dramma finale del film, che però non lo conclude del tutto.
C’è un’ultima scena, che sa di “happy end”, ma non ha però nulla di retorico e sdolcinato: resta coerente col tono complessivo del film, tutto giocato sul doppio registro (come dicevo all’inizio) del dramma e del dolore e, allo stesso tempo, della delicatezza e della tenerezza.
Nel complesso un bel film. Che affronta una tematica oggi molto attuale. Ben scritto, ben diretto e ben recitato.
L’unico appunto che gli si potrebbe muovere è il seguente: anche tenendo conto che la vicenda è ambientata in un contesto molto emancipato (come è probabilmente quello di un paese nordeuropeo: il Belgio), è da considerare del tutto realistica la descrizione dell’ambiente socio-familiare, in cui essa si svolge? non è forse un po’ troppo idilliaca?
E, però, è un appunto sul quale si può sorvolare. Perché i film non sempre e non necessariamente devono raccontare la pura e semplice realtà. A volte possono anche descrivere una situazione utopica e aiutarci a sognare.
Anche questo può essere utile a farci crescere culturalmente ed emotivamente, come singole persone e come comunità.
Giovanni Lamagna