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Il paradosso della psicoterapia: accettare sé stessi/cambiare sé stessi.

James Hillman, nel suo “La ricerca interiore” (Moretti & Vitali 2010), tra pag. 79 e pag. 80, scrive alcune cose, a mio avviso di fondamentale importanza, riguardo al suo modo di intendere la psicoterapia.

Le riporto qui in maniera schematica con parole mie, citando ogni tanto le sue (tra virgolette) e osando integrare, in qualche punto, il suo pensiero con il mio.

Lo faccio non solo perché penso che dicano cose molto importanti e significative a chiunque svolga una qualsiasi professione di aiuto; quindi non solo a chi fa lo psicoterapeuta di “mestiere”.

Ma perché penso che dicano cose molto importanti e significative anche a chi voglia impegnarsi da solo (senza cioè aiuti esterni) in un percorso di crescita interiore, per realizzare al meglio le sue potenzialità, la sua vocazione fondamentale.

1.Parto allora dalla prima affermazione di Hillman: “Amarsi non è una cosa facile”; con la quale concordo, anche se essa, sulle prime, può apparire paradossale.

Infatti, “amare sé stessi” significa non solo accettare la parte di sé che (eventualmente) risplende e ci piace, ma anche la parte di sé che sta in ombra, quella che di solito tendiamo a non mostrare all’esterno, perché non ci piace.

L’amore di sé richiede, insomma, l’accettazione (quantomeno l’accettazione) di tutte le parti di sé: quelle che ci piacciono e quelle che non ci piacciono.

L’umiltà di dire (innanzitutto a sé stessi e poi – come postura psicologica di fondo – anche agli altri): io sono questo, io sono fatto così; io mi accetto per come sono, abbiate anche voi (altri) la bontà, la misericordia, di accettarmi per come sono.

2. Senza questa accettazione la stessa psicoterapia non può manco iniziare.

In questo, il ruolo dello psicoterapeuta è fondamentale; chi svolge una professione di aiuto, come prima cosa, deve accettare così com’è la persona che è venuta da lui in cerca di aiuto e deve aiutare costui/costei a fare altrettanto; almeno come posizione di partenza.

Se lo psicoterapeuta o il counselor si mettono a giudicare il loro cliente e come prima cosa gli indicano in quale modo e in quale direzione deve cambiare, la relazione d’aiuto abortisce ancora prima di iniziare.

L’accettazione preliminare e incondizionata di sé – dice Hillman – è già parte della terapia; anzi costituisce la base, la prima fase di ogni terapia.

3. Questa accettazione deve essere vera e quindi totale; non può essere diplomatica e quindi parziale, finalizzata cioè ad altri scopi: la cura, la guarigione, la realizzazione di sé, il potenziamento dell’Io…

Deve essere, in un certo senso, come l’amore della madre, che esiste e sussiste a prescindere; a prescindere dalle doti e dalle qualità del figlio e, persino, dal suo comportamento morale; per una madre il figlio è figlio, sempre e comunque.

4. E però… qui c’è un però… che fonda il paradosso stesso della vita e, quindi, anche della terapia; che costituisce un po’ la sua follia, che non è la follia solo di alcuni (i matti, i nevrotici…), ma è la follia che possiamo rintracciare in tutti noi.

Allo stesso tempo che si accoglie ed accetta la propria Ombra, “gioiosamente”, per certi aspetti addirittura “definitivamente”, nel corso della psicoterapia si prende consapevolezza che ci sono parti di sé che sono “gravose e intollerabili e che devono cambiare”.

Qui insorge il ruolo che solitamente, prevalentemente (anche se non esclusivamente), svolge il padre nel rapporto genitori-figli.

Mentre la madre accetta e ama incondizionatamente il figlio, il padre gli impone degli obblighi, in quanto rappresenta “lacanianamente” la Legge; il padre gli indica dei traguardi, degli obiettivi.

Il paradosso della terapia è che ti porta, ti guida ad accettare, fino in fondo, incondizionatamente te stesso, quello che sei; ma, allo stesso tempo, ti chiede di cambiare, di apportare alla tua vita i cambiamenti necessari a realizzare al meglio le tue potenzialità.

La consapevolezza di sé e l’accoglimento/accettazione della propria Ombra costituiscono solo la prima parte della terapia, ne sono la base, ne rappresentano le fondamenta; ma su queste fondamenta bisogna poi costruire il nuovo Sé.

Quello capace di eliminare (il più possibile) dalla propria vita i fattori che generano sofferenze non necessarie e di aprirsi ai piaceri, alle gioie e perfino ai momenti di felicità possibili, alla nostra portata; in altre parole il Sé sano, rigenerato, persino saggio.

5. Qui – dice Hillman – gli opposti si incontrano e si integrano.

Si fa tutto con impegno e al tempo stesso si lascia perdere”; io aggiungo: si fa tutto con impegno, come se si stesse lavorando, e allo stesso tempo si fa tutto allegramente, gioiosamente, come se si stesse giocando; si fa come se tutto dipendesse da noi e allo stesso tempo sapendo bene che non tutto dipende da noi.

“… si giudica con durezza, e si sta insieme contenti.”; io aggiungo: ci si giudica con durezza, paternamente, ma allo stesso tempo ci si giudica con dolcezza, maternamente.

Moralismo occidentale e abbandono orientale”, io preferisco dire “attivismo occidentale e fatalismo orientale” si incontrano e fondono in un singolare, un po’ misterioso e pur reale paradosso.

Il Dio ebraico della Legge, dei dieci Comandamenti e della Giustizia, incontra e si fonde con il Dio ebraico “della misericordia, del perdono e dell’amore”.

Si vive, insomma, come i Chassidim, capaci di unire profondo rigore morale e intenso “piacere per la vita”.

© Giovanni Lamagna

Non basta voler amare. Bisogna imparare ad amare.

Non basta volere amare.

Ancora meno basta dire “Ti amo”.

Occorre, si deve, sapere amare, per amare davvero.

Occorre, insomma, tradurre l’intenzione di amare, il sentimento dell’amore, in atti effettivi di amore, di cura, attenzione, rispetto, interesse, ascolto, verso la persona che si dice di amare, che si desidera amare.

Infatti, quasi sempre in noi – come ci ha insegnato la psicoanalisi, specie Jung, che sosteneva l’esistenza in noi di una duplice personalità – c’è una persona che vuole una cosa e una persona che ne vuole un’altra, a volte addirittura una opposta alla prima.

C’è, dunque, una persona che ama effettivamente e una persona che, se non arriva proprio ad odiare (anche se, alle volte, arriva persino a questo), di certo non ama per davvero.

Ora, fin quando questa seconda persona è viva, attiva in noi, fin quando non sfumerà, non si dissolverà, perché sarà stata sconfitta, domata e resa inerme, l’amore in noi, il nostro amore sarà sempre in conflitto con sentimenti che ad esso si oppongono e, quindi, sarà disturbato, incerto, ambivalente, a volte impotente, come paralizzato.

Ne consegue che non basta volere amare.

Bisogna imparare ad amare, bisogna fare dell’amore una “costruzione”, come dice una bella canzone di Ivano Fossati.

L’amore in noi non è, affatto, un moto spontaneo, naturale, scontato, come i più ritengono: se io provo amore per una persona, allora la sto anche amando.

No, non è così, non è così semplice.

In amore non si nasce già imparati, l’amore si deve imparare, si deve apprendere.

Come diceva il grande Eric Fromm, l’amore è un’arte.

Che, come tutte le arti, si apprende, bisogna apprendere.

Se non ci sono, però, la giusta volontà, il desiderio fermo e non oscillante, la decisione forte e non più contrastata di andare alla scuola dell’amore, l’amore non si apprende, rimane in noi una pia intenzione, che non si realizza poi nei fatti.

La volontà e il desiderio di amare non diventano capacità effettiva di amare.

Come spiega bene Luigi Zoja (in “Nascere non basta. Iniziazione e tossicodipendenza”; 1985, Raffaello Cortina Editore), “L’innamoramento… nasce dall’inconscio. Ma… ha poi bisogno di forza di volontà, di forza dell’Io, per trasformarsi da fantasia autistica in evento reale che assolve una funzione rinnovatrice.”

E diventare, quindi, amore.

“L’amore – afferma ancora Zoja – poco alla volta, non dovrebbe essere più vissuto come “trasporto”, come qualcosa di esterno all’Io, come spinta dell’inconscio che ci trasporta. Va spostato nell’Io.”

In altre parole anche qui – come ci ha insegnato Freud – all’Es (l’amore come forza dell’inconscio, puro “trasporto” e “fantasia autistica”) dovrà subentrare l’Io (l’amore come forza conscia, della volontà; e, quindi, “evento reale”).

© Giovanni Lamagna

Nessun rapporto è mai solo a due.

Un rapporto, un qualsivoglia rapporto, non è mai un rapporto solo a due, ma è sempre almeno un rapporto a tre e, quasi sempre, a quattro.

Lo è in maniera più o meno consapevole (o inconsapevole), ma in ogni rapporto a due è sempre presente almeno un terzo e, spesso, un quarto.

In un rapporto a due, infatti, interagiscono i due quali appaiono all’esterno, con le loro personalità visibili, manifeste, esteriori: le personalità 1.

Ma anche le loro “ombre”, ovverossia le loro personalità invisibili, nascoste, i loro fantasmi interiori: le personalità 2, come le definiva Jung.

© Giovanni Lamagna

La vita non ha un senso, ma può darselo.

La vita ha un senso, può avere un senso, ma non è un senso che sta fuori di lei, che le proviene dall’esterno.

Bensì è un senso che la vita può trovare solo dentro sé stessa, che la vita si dà – quando ci riesce – da sé stessa.

Da questo punto di vista la vita non ha un fondamento esterno su cui poggiarsi, ma galleggia su un vuoto assoluto di senso.

Il senso che la vita può trovare in sé è, quindi, del tutto precario, fragile, instabile, soggetto a continui scossoni e messe in crisi.

Ma, se l’uomo non lo trova, la sua vita è condannata a inabissarsi nel mare senza fondo del non senso.

Coerenza logica vorrebbe – se la vita fosse solo logica – che chi non trova un senso alla sua vita se la togliesse, suicidandosi.

Ma – per fortuna o per sfortuna: non so! – la vita non è solo logica; come hanno potuto verificare di persona i vari Schopenhauer, Nietzsche e Cioran, filosofi del nichilismo.

© Giovanni Lamagna

“Ripetizione” e “ritorno del rimosso”.

Molto importante e interessante la distinzione che fa Massimo Recalcati tra il concetto di “ripetizione” e quello di “ritorno del rimosso”. (da “Un cammino nella psicoanalisi”; Mimesis 2016 ; p. 84-86)

Il “ritorno del rimosso” è il riaffiorare del desiderio che è stato allontanato dalla coscienza.

Esso si manifesta attraverso gli atti mancati, il sintomo, i lapsus, il sogno, i motti di spirito.

È, quindi, in qualche modo un segnale di vitalità del soggetto, anche se confligge con la sua vita conscia.

È il desiderio inconscio che ribolle ed affiora – sia pure in forme improprie, deviate, potremmo anche dire “travestite” – dall’interno verso l’esterno.

La “ripetizione” è, invece, la tendenza a ripetere nella vita conscia le situazioni del passato, nelle quali il desiderio del soggetto si è bloccato ed ha assunto una forma perversa, regressiva: invece di aprirsi alla vita, si è chiuso, anestetizzato.

La “ripetizione”, dunque, sa totalmente di morte, laddove il “ritorno del rimosso” sa, invece, comunque e in qualche modo, di vita, è la vita che si apre un varco, prova a riaffiorare da una situazione mortifera.

© Giovanni Lamagna

Capriccio e desiderio.

Il desiderio è un’esperienza umana ben diversa dal capriccio.

Il capriccio è un’esperienza del tutto narcisistica, incapace di confrontarsi con l’esistenza dell’Altro e con la durezza della Realtà.

Prescinde, quindi, dal freudiano “principio di realtà”, mira a forzare, se non a rimuovere del tutto, la realtà.

Il desiderio, invece, è un’esperienza dell’anima che, a partire da un moto fisico, emotivo o intellettuale del singolo individuo, si accorda però con i moti degli altri singoli individui e, soprattutto, con la realtà.

Dalla quale non sempre riceve accoglienza immediata; e, infatti, alle volte il desiderio deve fare piccole o grandi forzature sulla realtà, per potersi realizzare.

Ma non è mai totalmente sganciato dalla realtà, totalmente estraneo ed ostile ad essa, come lo è invece il capriccio.

Il desiderio è sempre parte della Realtà, non è mai fuori della realtà, con i suoi limiti, i suoi divieti e le sue imposizioni; è sempre realistico, anche quando tende a forzare consuetudini e status quo.

In questo senso il desiderio non è mai solo la realizzazione di un moto che nasce all’interno del nostro animo.

Ma è anche in qualche modo la risposta ad una chiamata che ci viene dall’esterno, la realizzazione di un compito, come lo intendeva Victor Frankl.

O addirittura la realizzazione di un dovere, come la pensava Jacques Lacan.

© Giovanni Lamagna

Madre, moglie e amante.

Nessuna donna potrà essere una buona madre se non sarà prima di tutto una buona moglie o compagna del suo uomo.

E, se dopo essere diventata madre e ad aver assolto per una certa fase al compito primario e impegnativo della cura e dell’allevamento dei figli, non tornerà ad essere prima o poi innanzitutto una moglie o una compagna.

O, meglio e per dirla tutta, l’amante del proprio uomo: nel senso propriamente erotico e sessuale del termine; recuperando appieno non solo la propria vita sessuale ma anche la propria femminilità e il proprio erotismo.

Cosa che, invece, non sempre accade; o, perlomeno, non è scontato che accada.

Anzi – se proprio vogliamo dirla tutta – molto spesso non accade.

Perché la donna molto spesso, una volta diventata madre, rimane prigioniera a vita, di questo suo ruolo di madre.

E, invece, – è questo che ci tengo a sottolineare qui – solo se tornerà ad essere prima di tutto l’amante del suo uomo, la donna riuscirà a trovare l’energia per separarsi dal figlio.

Così da favorirne il giusto distacco e allontanamento; e, quindi, una crescita sana, una positiva evoluzione.

Dimostrandosi in questo modo (e solo in questo modo) una buona e brava madre.

La madre, invece, che vuole tenere legato a sé il figlio (o la figlia), che fa del figlio (o della figlia) un sostituto (asessuato e sublimato) del marito, tutto è tranne che una buona e brava madre.

Anche se tenderà a spendersi questa immagine all’esterno e nell’immaginario collettivo sarà pure ritenuta, riconosciuta, confermata, come tale.

Mentre l’altra, la madre che tornerà a fare l’amante, sarà magari ritenuta una cattiva madre, solo perché non si riduce ad essere tutta “serva” e “tappetino” dei propri figli.

Perché avrà rotto il cordone ombelicale (anche quello simbolico) che correva il rischio di tenerla legata a vita in maniera simbiotica al figlio o ai figli.

© Giovanni Lamagna

Animali, istinti, bisogni, uomini, desideri.

Gli animali trasmettono ai loro cuccioli semplicemente un patrimonio genetico di istinti, cioè di risposte automatiche e irriflesse a determinati stimoli.

Gli uomini, invece, ai loro figli trasmettono un limitato patrimonio genetico di istinti e un abbondante patrimonio culturale di desideri.

I desideri non sono una risposta automatica e irriflessa agli stimoli – quindi per molti aspetti uguale per tutti, universali – come lo sono invece gli istinti.

Ma sono una risposta elaborata, particolare, differenziata, molto personalizzata, agli stimoli che ci vengono dall’esterno.

I desideri di ognuno di noi sono diversi, diversificati, dai desideri degli altri uomini; a volte addirittura opposti.

Il desiderio è, dunque, per sua natura, “perverso e polimorfo”; mentre l’istinto, essendo collegato ad un determinato bisogno, è piatto, uniforme, ripetitivo.

© Giovanni Lamagna

Super-io e Ideale dell’Io.

L’Ideale dell’Io non ha nulla a che fare – almeno per come lo intendo io – con il Super-io.

Perché l’Ideale dell’Io è il frutto, il risultato di una scelta consapevole (per quanto le nostre scelte possano essere consapevoli) dell’Io, del mio essere individuale nel pieno e libero (per quanto è possibile) possesso delle sue facoltà, emotive ed intellettuali.

E’ ciò che voglio, aspiro a diventare rispetto a ciò che sono; è il mio desiderio (per dirla con Jacques Lacan), è il mio daimon e la mia vocazione (per dirla con Carl Gustav Jung), è il compito che ho assegnato a me stesso nella vita (per dirla con Victor Frankl).

Mentre il Super-io è un modo di essere che viene imposto (“imposto” è il termine giusto) all’Io dell’individuo dall’esterno, in primis dalla sua famiglia di origine, poi dal contesto ambientale in cui è cresciuto ed ha vissuto i suoi primi anni di vita (decisivi per la formazione del Super-io), infine dal contesto sociale in cui vive da adulto.

E’ vero che i due (Ideale dell’Io e Super-io) si possono confondere; nel senso che noi possiamo ritenere come nostro Ideale dell’Io quello che è in realtà Super-io.

Però, se analizziamo bene le loro due strutture, esse hanno origini e conformazioni molto diverse.

L’Ideale dell’Io (ripeto, almeno per come lo considero io) esprime la nostra volontà e libertà, quel poco o molto di libera volontà che ci è consentita; è – come direbbe Sartre – “ciò che facciamo e vogliamo fare con quello che gli altri hanno fatto di noi”.

Il Super-io, invece, è la negazione della nostra libera e autonoma volontà; esprime i nostri condizionamenti psicologici, soprattutto quelli che abbiamo ricevuto nell’infanzia; è semplicemente “ciò che gli altri hanno fatto di noi”.

© Giovanni Lamagna

“Persona” e “Ombra”. (2)

Che cos’è per me – tradotta nella mia esperienza di vita – quella che Jung chiama “la persona”?

E che cos’è, invece, quella che sempre Jung chiama “l’ombra”?

Provo a dare una risposta, la più chiara che mi riesce.

“La persona” è la parte di me che riconosco immediatamente e che, soprattutto, dichiaro più facilmente, quella che mostro agli altri senza grandi difficoltà e remore.

E’ la parte di me che più e meglio emerge all’esterno e che – diciamo pure – riceve anche un rinforzo sociale da parte di coloro che mi conoscono e mi frequentano.

E’, insomma, l’immagine sociale di me.

“L’ombra”, invece, è la parte di me più nascosta, più in ombra (appunto!), quella che meno emerge (o, addirittura, non emerge per nulla) all’esterno.

Non direi tanto quella che conosco e nella quale mi riconosco di meno; perché semmai è proprio questa parte (in ombra) quella nella quale mi riconosco di più, più profondamente.

Ma piuttosto la parte che fatico di più a dichiarare e a mostrare all’esterno.

Perché, se non proprio me lo impediscono, quantomeno me lo ostacolano ragioni di carattere morale; o, meglio, i timori del giudizio (se non proprio della censura e della condanna) del contesto sociale che mi circonda.

E’ quasi inutile aggiungere che “la persona” è una parte di me incompleta, se non proprio del tutto falsa e inautentica.

E che non vivrò bene, vivrò sempre dei conflitti, in qualche modo scisso interiormente, fino a quando “l’ombra” non uscirà… dall’ombra e non verrà alla luce.

© Giovanni Lamagna