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Perché, nonostante tutto, desideriamo vivere?

Perché, nonostante tutto, desideriamo vivere? Tutti, chi più e chi meno, poveri e ricchi, sani e malati, belli e brutti, intelligenti e stupidi.

Nonostante che numerosi e illustri filosofi, soprattutto in questi ultimi due secoli, ci abbiano indotto a pensare che la vita è solo dolore e noia, sofferenze e malanni, un triste capriccio della natura.

Forse la risposta sta nel fatto – per quanto banale esso possa sembrare – che non è per niente vero quello che illustri filosofi hanno sostenuto; penso, per fare solo tre esempi, a Leopardi, a Schopenhauer e a Cioran.

Forse la vita non è solo dolore e noia, dispiaceri e sventure, come tanti filosofi – soprattutto moderni e, ancor più, contemporanei – si sono convinti a credere e hanno provato a convincerci.

La vita è anche gioie e piaceri, è anche avventure e scoperte.

Anzi forse, nonostante tutto, i secondi, per ognuno di noi, prevalgono sui primi.

Ne possiamo concludere che, quindi, la vita – checché ne pensino i Leopardi, gli Schopenahuer e i Cioran – vale la pena di essere vissuta, nonostante si concluda con la morte, che – non a caso – la maggior parte di noi si augura arrivi il più tardi possibile.

D’altra parte quegli stessi pensatori hanno confermato tale verità coi fatti, in contraddizione con le parole da loro dette e scritte.

Infatti, se pensavano veramente e fino in fondo le cose che affermavano sulla vita, perché hanno preferito tenersela cara, fino alla morte naturale, e non togliersela anticipandone la fine; come pure, se fossero stati coerenti con le loro teorie, avrebbero potuto fare?

© Giovanni Lamagna

Capriccio e desiderio (2)

La realizzazione di un desiderio produce integrazione tra le varie parti di sé.

E, quindi, un benessere e una soddisfazione pieni, duraturi.

La realizzazione di un capriccio provoca, invece, dissipazione interiore.

E, quindi, dopo un breve appagamento, malessere e insoddisfazione.

È questa la cartina di tornasole per distinguere un desiderio da un capriccio.

Gli alberi si riconoscono dai frutti che producono (Luca 6, 44).

© Giovanni Lamagna

Capriccio e desiderio.

Il desiderio è un’esperienza umana ben diversa dal capriccio.

Il capriccio è un’esperienza del tutto narcisistica, incapace di confrontarsi con l’esistenza dell’Altro e con la durezza della Realtà.

Prescinde, quindi, dal freudiano “principio di realtà”, mira a forzare, se non a rimuovere del tutto, la realtà.

Il desiderio, invece, è un’esperienza dell’anima che, a partire da un moto fisico, emotivo o intellettuale del singolo individuo, si accorda però con i moti degli altri singoli individui e, soprattutto, con la realtà.

Dalla quale non sempre riceve accoglienza immediata; e, infatti, alle volte il desiderio deve fare piccole o grandi forzature sulla realtà, per potersi realizzare.

Ma non è mai totalmente sganciato dalla realtà, totalmente estraneo ed ostile ad essa, come lo è invece il capriccio.

Il desiderio è sempre parte della Realtà, non è mai fuori della realtà, con i suoi limiti, i suoi divieti e le sue imposizioni; è sempre realistico, anche quando tende a forzare consuetudini e status quo.

In questo senso il desiderio non è mai solo la realizzazione di un moto che nasce all’interno del nostro animo.

Ma è anche in qualche modo la risposta ad una chiamata che ci viene dall’esterno, la realizzazione di un compito, come lo intendeva Victor Frankl.

O addirittura la realizzazione di un dovere, come la pensava Jacques Lacan.

© Giovanni Lamagna

Le uniche regole a cui dovrebbe obbedire la nostra coscienza.

Le uniche regole che dovremmo assumere a guida delle nostre scelte e delle nostre azioni dovrebbero essere quelle che Sigmund Freud definì – in modo estremamente chiaro e preciso – con le espressioni “principio del piacere” e “principio di realtà”.

E che Lacan ribattezzò con i termini, a mio avviso abbastanza equivalenti, di “desiderio” e “Legge”, anche se forse, soprattutto il secondo, meno precisi e più equivoci di quelli usati da Freud.

In altre parole, prima di agire e di compiere qualsiasi scelta, dovremmo chiederci: “Cosa desidero davvero? Qual è il mio desiderio profondo?”.

E poi: “E’ realizzabile questo desiderio o è un irrazionale capriccio della mia fantasia, fuori e contro la realtà? Fa danni a qualcuno o è del tutto compatibile con il desiderio di altri?”

E, infine: “Anche se fa oggettivamente e indirettamente dei danni a qualcuno, sono io davvero il responsabile di questi danni?”

Una volta ottenuto il via libera dalla nostra coscienza che si è posta queste domande, dovremmo poter agire di conseguenza; liberamente, abbastanza serenamente e senza paralizzanti sensi colpa.

Spesso, invece, molti di noi assumono a regola di comportamento quanto impone loro il Super-ego; a voler usare un altro termine famoso inventato da Freud.

Cioè l’insieme delle norme che tutti abbiamo introiettato – soprattutto durante la nostra infanzia, fanciullezza e adolescenza – dall’ambiente che ci circondava, in primo luogo dalla nostra famiglia; in altre parole una coscienza eterodiretta.

In questo modo molti di noi dimostrano di non essersi mai emancipati da quelle epoche della vita (infanzia, fanciullezza e adolescenza), di non essere mai diventati veramente adulti.

In uno dei suoi scritti più famosi (la trentunesima lezione di “Introduzione alla psicoanalisi”) Freud fece ricorso ad una frase divenuta celebre: “Dove era l’Es, deve subentrare l’Io”.

Io oggi, se mi posso permettere e col massimo rispetto per il padre della psicoanalisi, aggiornerei e completerei tale sua frase con quest’altra: “Dove era il Super-io, deve subentrare l’Io”.

© Giovanni Lamagna

Piacere, dovere e terra di mezzo.

Molte persone (forse la maggioranza) non fanno mai una scelta netta tra il piacere e il dovere.

Come ci si aspetterebbe che facesse una qualsiasi persona normale: in alcuni momenti, quando le circostanze della vita lo consentono, facendo prevalere il piacere, in altri momenti, quando le situazioni della vita lo richiedono, facendo prevalere il dovere.

A me pare che molte persone, nella maggior parte delle situazioni che si trovano a vivere, non scelgano mai fino in fondo né il piacere né il dovere; non siano insomma né calde né fredde, ma tiepide sia nei confronti del piacere che del dovere.

Non scelgono fino in fondo il piacere, sono incapaci di fare una scelta radicale in tal senso, perché il più delle volte se ne sentono (sia pure irrazionalmente) in colpa.

Come se la vita non potesse, anzi non dovesse, concedere loro un dono simile, come se a loro questo dono non spettasse mai del tutto.

E così, anche quando (ogni tanto) si concedono al piacere, devono ben presto rientrare in una zona se non proprio spiacevole, quantomeno neutra, come se il piacere non potesse occupare la loro vita oltre un certo spazio e un certo tempo.

Ma, soprattutto, non possono sperimentare il piacere oltre una certa soglia: non ne reggono la tensione e lo spasimo che pure spesso il piacere comporta; per quanto siano una tensione e uno spasimo del tutto piacevoli e per niente dolorosi.

Allo stesso modo (e paradossalmente) queste stesse persone non scelgono neppure fino in fondo il dovere, quando sono chiamate a compierlo.

Almeno se per dovere intendiamo la risposta ad una chiamata interiore e non la corrispondenza passiva e non consapevole alle convenzioni sociali o a ciò che ci viene chiesto dalle imposizioni (a volte solo psicologiche, altre volte anche fisiche) esterne, soprattutto quelle che provengono dalle persone significative che ci circondano.

Se per dovere intendiamo, insomma, non il Super-io freudiano, ma il “principio di realtà” (di cui parlava lo stesso Freud), che ogni tanto (anzi spesso) si oppone al “principio del piacere” o perché ce lo fa vedere come del tutto irrealizzabile o perché ci consiglia di rimandarlo ad altro momento, più adatto, più favorevole.

E – ancora di più, a maggior ragione – se per dovere intendiamo la chiamata a realizzare il proprio compito nella vita (di cui ha parlato spesso nelle sue opere lo psicoanalista austriaco Victor Frankl), il proprio “desiderio” (quello di cui parlava Lacan, che è altra cosa dal capriccio dell’uomo infantile e immaturo), il proprio “daimon”, la propria vocazione interiore (di cui ha invece parlato spesso Jung).

Infatti, a quanti doveri reali, molto più importanti dei “doveri” dettati dal Super-io, queste persone sfuggono?

A quante chiamate interiori e dello spirito esse non corrispondono, preferendo rimuoverle dalla loro coscienza o ignorarle, disattenderle, quando pure esse affiorano e appaiono chiare alla loro consapevolezza?

In altre parole e per concludere, queste persone sono abituate a vivere la loro vita (o almeno la gran parte di essa) come in una terra di mezzo tra il piacere e il dovere.

Per cui non si concedono né pienamente al piacere, alle (poche o molte) gioie che la vita pure sarebbe in grado di donare loro, né pienamente al dovere, inteso come risposta alla propria vocazione interiore, al proprio “desiderio”, al proprio daimon.

Per conseguenza nel primo caso restano persone fondamentalmente insoddisfatte, se non proprio infelici, col bicchiere mezzo vuoto e mai completamente pieno.

Nel secondo caso persone sostanzialmente irrealizzate, incomplete, come chi, avendo cominciato ad attraversare un fiume, si fermi a metà del guado.

© Giovanni Lamagna

Il desiderio come dovere?

Massimo Recalcati nel suo libro “Contro il sacrificio” (2017 Raffaello Cortina Editore), nel paragrafo intitolato “Il desiderio come dovere” (pag. 113-118), sulla scorta dell’insegnamento ricevuto dal suo maestro Jacques Lacan e, ancor prima, da Freud, mette in correlazione molti concetti (quali quello di sacrificio, etica, desiderio, Legge, fedeltà, infedeltà, godimento, Super-io, Altro, Dio, Padre, Stato, Madre, Famiglia, Natura, Razza, vita, dovere, imperativo, senso, capriccio, vocazione, sofferenza, colpa, trasgressione, peccato, violazione, norme, psicoanalisi, senso di colpa, responsabilità, padronanza, coscienza, inconscio, soggetto, sogni…) facendo molte osservazioni interessanti, ma non sciogliendo però del tutto (almeno a mio modesto avviso) alcuni nodi problematici e lasciando alcune zone d’ombra che sarebbe utile a mio avviso rischiarare.

Voglio qui provare a farlo.

Il paragrafo si apre con il riferimento al principio generale evocato da Lacan di “un’altra etica, non più imbrigliata dai lacci del sacrificio”.

Dico subito che questa esigenza lacaniana mi trova perfettamente d’accordo. Per millenni l’etica delle varie società umane è stata fondata sul principio del sacrificio, in moltissimi casi di un sacrificio fine a se stesso, come valore in sé, quasi masochisticamente inteso.

Sono altresì pienamente d’accordo con Lacan quando afferma che questo fondamento è del tutto arbitrario, quindi insano, e che occorre liberare l’etica da questo imbrigliamento; che occorre perciò una nuova etica.

Per Lacan questa nuova etica si deve fondare “sul proprio desiderio”; il principio fondamentale della nuova etica dovrà essere quello di “non cedere sul proprio desiderio”.

E qui, a mio avviso, nascono le confusioni; o, almeno, le possibili confusioni.

Perché quello di “desiderio” è (come tutti possono intuire) un concetto quantomeno ambiguo.

Per “desiderio” possiamo intendere la pura spinta pulsionale, assimilabile quasi all’istinto, per sua natura sregolato, quindi affine al capriccio.

Inteso in tale senso (e questo è indubbiamente uno dei modi possibili di intendere il “desiderio”) si può fondare su di esso la nuova etica?

Domanda del tutto retorica, perché è a tutti evidente che no, non si può fondare l’etica sul desiderio inteso come puro capriccio: ci sarebbe una contraddizione in termini.

Ma per “desiderio” possiamo intendere anche “la propria vocazione fondamentale” (per utilizzare un’espressione a cui fa ricorso Recalcati) o il proprio “daimon” (per utilizzare un’espressione a cui ricorrevano gli antichi Greci e più volte ripresa da un pensatore come Jung, a voler fare un solo esempio).

E’ a questa seconda accezione di “desiderio” che mi pare faccia riferimento, come è ovvio, Lacan ed è su di essa che egli intende fondare “un’altra etica”, opposta a quella tradizionale, fondata sul “sacrificio” o, meglio, sul “fantasma sacrificale”.

E però, nonostante questa distinzione chiarisca un primo possibile equivoco, non mi pare che tutti gli equivoci e i fraintendimenti possibili siano stati con essa dissipati.

Cosa vuol dire, infatti, ciò che afferma Lacan, con molta drasticità (mi pare): “… propongo che l’unica cosa di cui si possa essere colpevoli, perlomeno nella prospettiva analitica, sia di aver ceduto sul proprio desiderio”?

Che non esiste altra Legge per il singolo soggetto che la Legge del desiderio? Che il proprio desiderio mai e poi mai debba essere posposto e, quindi, in qualche modo, per quanto provvisoriamente o parzialmente, sacrificato?

Ci rendiamo tutti conto (io penso) che, detta così e presa alla lettera, l’affermazione lacaniana, ripresa e condivisa dal suo discepolo Recalcati, sia inaccettabile.

Quale etica può, infatti, porre al centro dei suoi imperativi esclusivamente il soggetto, per quanto nella forma nobilitata della fedeltà alla propria vocazione o “tendenza” o “inclinazione” o “prospettiva” o “propria via” (termini, quelli virgolettati, usati da Lacan)?

Per nessuna etica il soggetto può porsi come assolutamente autoreferenziale, sganciato cioè dall’esistenza dell’Altro o, meglio, degli altri, i quali dal punto di vista etico hanno almeno uguali diritti (oltre che doveri) rispetto a quelli rivendicati dal singolo soggetto.

Allora il problema per me diventa: come si può conciliare la Legge del proprio desiderio, a cui ciascun soggetto è indubbiamente chiamato ad essere fedele, con il rispetto di analogo desiderio presente nell’Altro, nei soggetti altri?

La mia risposta è che la Legge del proprio desiderio non può essere considerata (narcisisticamente, egoicamente) come un assoluto, ma che va sempre e necessariamente conciliata con la Legge del desiderio altrui.

In altre parole il mio desiderio e la sua realizzazione trovano un limite e un argine laddove inizia il desiderio dell’Altro, degli altri.

Il limite, il confine rappresentato dall’altro impongono il sacrificio, perlomeno parziale e provvisorio, del mio desiderio.

E in questo caso si tratta di un giusto e, quindi, necessario sacrificio, che non ha nulla di masochistico e di insano, come nel caso ampiamente descritto sia da Lacan che da Recalcati del cosiddetto “fantasma sacrificale” (su cui non mi soffermo, rimandando alla lettura del libro).

In ultima analisi (e qui valgono alcune “posizioni alla Bataille”, giustamente citato in proposito da Recalcati: ibidem; pag. 100) l’etica umana non può essere fondata su “una concezione meramente edonistico conformistica della vita”: la libertà di affermare e realizzare il mio desiderio finisce laddove incomincia la libertà dell’altro (degli altri) di affermare il suo (i loro).

Ma c’è un altro motivo per cui la Legge del desiderio non può essere posta sic et simpliciter al centro e a fondamento della nuova morale di cui parlano Lacan prima e, sulla sua scorta, Recalcati poi.

Questo secondo motivo è che non tutti i nostri desideri sono poi di fatto realizzabili: i nostri desideri devono, infatti, fare sempre i conti con la Realtà; con la realtà fisico-materiale, innanzitutto, ma anche con la realtà psicosociale nella quale siamo immersi e dalla quale non possiamo mai totalmente prescindere, per quanto vogliamo (giustamente) affermare la nostra autonomia e libertà.

Questa Realtà è uno zoccolo duro con il quale il nostro desiderio deve fare ogni volta i conti, è la Cosa che consente all’Es di diventare Io. E non ha nulla a che fare con il Super-io, dunque con il “fantasma sacrificale”.

Il “fantasma sacrificale”, infatti, ci chiede di rinunciare al nostro desiderio in nome di una Legge che è puro capriccio.

La Realtà, invece, ci chiede di sacrificarlo in nome di una Legge che è scritta nella natura fisica del mondo e in alcune convenzioni psicosociali, che è impossibile trasgredire (almeno oltre un certo limite).

Nel primo caso, se rinunciamo al nostro desiderio in nome del “fantasma sacrificale”, ci suicidiamo psicologicamente; e allora pagheremo la nostra rinuncia, cioè il nostro “tradimento” del desiderio, con “il ritorno del rimosso; il sintomo, la depressione, lo spegnimento della vita e del desiderio stesso o di altre forme di sofferenza delle quali si occupa la clinica psicoanalitica” (ibidem; pag. 113).

Nel secondo caso, se il nostro desiderio pretende di contravvenire alle leggi della natura, corriamo il rischio di suicidarci addirittura fisicamente.

Per fare un esempio estremo ma che rende bene l’idea, se il mio desiderio è quello di volare e allora mi lancio dal balcone di casa, andrò fatalmente a sbattere al suolo con conseguenze più o meno gravi a seconda dell’altezza dalla quale mi sono lanciato.

Allo stesso modo, se il mio desiderio è quello di disobbedire alle leggi dello Stato in cui vivo, devo essere consapevole che subirò conseguentemente delle sanzioni civili o addirittura penali. Non posso certo pretendere che in uno Stato ciascuno faccia quello che vuole in nome della “Legge del proprio desiderio”.

Ugualmente, se il mio desiderio è quello di trasgredire alcune convenzioni sociali (i casi più frequenti sono quelli che riguardano la morale sessuale corrente), devo essere consapevole che pagherò dei prezzi in termini di sanzioni sociali, sotto forma di giudizio e di conseguente isolamento.

Poi, magari, in alcuni casi la nostra coscienza morale (l’altra morale, di cui parla Lacan) ci imporrà di disobbedire ad alcune Leggi dello Stato e di trasgredirne altre della morale corrente, in nome della fedeltà al nostro desiderio (non inteso come capriccio del momento, ma come nostra vocazione profonda).

E, però, lo ripeto, in questo caso dovremo essere consapevoli delle sanzioni giuridiche o semplicemente psicologiche a cui andremo incontro. La nostra scelta non potrà essere avventata e compiuta con faciloneria, in nome di una pretesa anarchica del nostro desiderio.

Per concludere io ritengo che la coscienza dell’Io sia costretta a muoversi sempre tra due sponde, quasi una Scilla e una Cariddi, come del resto ci ha insegnato Freud: – da una parte la pulsione del desiderio, alla quale bisogna cercare di rispondere e che in qualche modo bisogna cercare di soddisfare, “pena il pagamento di questo tradimento attraverso il ritorno del rimosso”; – dall’altra il “principio della realtà” che ci impedisce di soddisfare sempre e, soprattutto, pienamente la pulsione inconscia del nostro desiderio. In questo modo avverrà quanto auspicato da Freud: “Dove c’è l’Es ci sarà l’Io (Wo es war Ich werden)”.

Non potrà quindi affidarsi unilateralmente e totalmente alla Legge del desiderio, come sembrano dire sia Lacan che Recalcati, in maniera – a mio avviso – eccessivamente drastica e perentoria, suscitando, quindi, equivoci che possono invece facilmente essere evitati, come ho cercato di dimostrare con questa mia riflessione.

Allo stesso tempo per me la coscienza dell’Io dovrà assolutamente evitare di sottoporsi (almeno oltre un certo limite) alla Legge del sacrificio, del tutto gratuita e arbitraria, imposta dal Super-io, rappresentata dai dettami familiari e dalle convenzioni sociali correnti, fino a rendersene del tutto schiava, come avviene nel caso delle nevrosi.

Da questo punto di vista – fatte le precisazioni di cui sopra – la lezione di Lacan e di Recalcati è del tutto corretta e da me pienamente condivisa. Sono d’accordo pertanto che uno dei compiti principali in molti casi della terapia psicoanalitica è quello di alleggerire “la presenza implacabile del Super-io del paziente”.

Tanto è vero che arrivo a dire (parafrasando Freud) che “dove c’era il Super-io dovrà esserci l’Io”.

© Giovanni Lamagna