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Attaccamento alla vita e amore per la vita.
L’attaccamento eccessivo alla vita non equivale affatto all’amore per la vita.
L’amore per la vita, infatti, presuppone un certo distacco dalla vita stessa.
Un atteggiamento di abbandono, che è il contrario dell’attaccamento, dell’aggrapparsi alla vita.
L’amore per la vita mette in conto (e vi si conforma) anche il destino inesorabile della vita.
Che è la morte.
Ama la vita nonostante la morte.
L’attaccamento alla vita, invece, rimuove, respinge, l’idea della morte.
© Giovanni Lamagna
Fondo depressivo.
Dice Recalcati: “… (c’è un) fondo depressivo che accompagna ogni fine analisi che, come tale, implica sempre l’incontro del soggetto con l’inesistenza dell’Altro.”.
Io aggiungo: c’è un fondo depressivo che accompagna ogni distacco, ogni separazione, ogni lontananza.
E, quindi, ogni trasloco, ogni fine estate, ogni fine vacanza o viaggio, perfino la fine della lettura di un libro che ci aveva particolarmente coinvolto, appassionato.
© Giovanni Lamagna
Sviluppo dell’autonomia e sviluppo del linguaggio.
C’è un rapporto strutturale tra lo sviluppo dell’autonomia di un bambino – che significa distacco, separazione simbolica e, almeno in parte, anche reale dalle figure genitoriali (specie da quella materna) – e sviluppo del linguaggio, della padronanza nell’uso della parola da parte dello stesso bambino.
Fin quando un bambino rimarrà attaccato alle figure genitoriali avrà difficoltà ad apprendere l’uso del linguaggio; e ciò creerà in lui una sorta di circolo vizioso: più egli si sentirà incerto nel parlare, più avvertirà il bisogno di rimanere aggrappato alle figure genitoriali, specie a quella materna.
© Giovanni Lamagna
Madre, moglie e amante.
Nessuna donna potrà essere una buona madre se non sarà prima di tutto una buona moglie o compagna del suo uomo.
E, se dopo essere diventata madre e ad aver assolto per una certa fase al compito primario e impegnativo della cura e dell’allevamento dei figli, non tornerà ad essere prima o poi innanzitutto una moglie o una compagna.
O, meglio e per dirla tutta, l’amante del proprio uomo: nel senso propriamente erotico e sessuale del termine; recuperando appieno non solo la propria vita sessuale ma anche la propria femminilità e il proprio erotismo.
Cosa che, invece, non sempre accade; o, perlomeno, non è scontato che accada.
Anzi – se proprio vogliamo dirla tutta – molto spesso non accade.
Perché la donna molto spesso, una volta diventata madre, rimane prigioniera a vita, di questo suo ruolo di madre.
E, invece, – è questo che ci tengo a sottolineare qui – solo se tornerà ad essere prima di tutto l’amante del suo uomo, la donna riuscirà a trovare l’energia per separarsi dal figlio.
Così da favorirne il giusto distacco e allontanamento; e, quindi, una crescita sana, una positiva evoluzione.
Dimostrandosi in questo modo (e solo in questo modo) una buona e brava madre.
La madre, invece, che vuole tenere legato a sé il figlio (o la figlia), che fa del figlio (o della figlia) un sostituto (asessuato e sublimato) del marito, tutto è tranne che una buona e brava madre.
Anche se tenderà a spendersi questa immagine all’esterno e nell’immaginario collettivo sarà pure ritenuta, riconosciuta, confermata, come tale.
Mentre l’altra, la madre che tornerà a fare l’amante, sarà magari ritenuta una cattiva madre, solo perché non si riduce ad essere tutta “serva” e “tappetino” dei propri figli.
Perché avrà rotto il cordone ombelicale (anche quello simbolico) che correva il rischio di tenerla legata a vita in maniera simbiotica al figlio o ai figli.
© Giovanni Lamagna
Il mio antidoto alla frenesia e al logorio della vita moderna.
Vedo, constato, che, in questa nostra epoca nella quale la velocità è diventata un valore principe, la grande maggioranza delle persone corre, si affanna, fa le cose senza un attimo di tregua, senza mai tirare il fiato.
Come presa da un ingranaggio al quale non riesce a sottrarsi, ma che anzi forse le piace perfino assecondare, in certi casi addirittura autolesionisticamente e, quindi, masochisticamente.
Io, invece, a differenza di questa maggioranza, amo stare il più possibile fermo, seduto, a pensare, a riflettere, a meditare, a contemplare, a connettermi con la parte di me più intima e nascosta, con il mio io profondo.
È questo il mio status fondamentale, stavo quasi per dire il mio lavoro odierno, specie da quando sono andato in pensione e non vado più a lavorare.
L’ho scelto e lo preferisco anche a costo di apparire (anzi, essere) un po’ lento, se non proprio passivo, nelle mie reazioni agli stimoli esterni o eccessivamente statico, inattivo.
E, forse, questo mio atteggiamento, ne sono consapevole, può indurre reazioni negative nei miei confronti da parte di alcuni, che possono giudicarlo persino indolente, pigro.
Eppure niente e nessuno riesce a smuovermi, a distogliermi da questa mia postura fondamentale.
Quasi mi fossi assegnato un compito: quello di andare contro corrente, di compensare con una loro aggiunta, un loro surplus, un loro eccesso, la carenza di lettura-meditazione-contemplazione, direi addirittura di anima, di spiritualità, che a me sembra caratterizzare il muoversi frenetico, in certi casi e momenti addirittura caotico e agitato, della maggior parte dei miei simili.
Cosa è, infatti, l’agire senza il necessario distacco e, quindi, senza una quota parte di pensiero, di riflessione, di meditazione, se non un inutile e a volte persino sciocco girare a vuoto?
Non che sia tale o che giudichi tale la maggior parte delle azioni degli uomini che mi circondano; non arrivo a pensare questo; anche se talvolta, anzi in molti casi – devo confessarlo – tale pensiero mi sfiora.
È che, forse, a mio giudizio, un po’ più di riflessione prima di agire, prima di tradurre un impulso istintivo o puramente emotivo in azione, non farebbe male; anzi!
È a questa carenza, a questa deficienza di consapevolezza, che ritengo voglia (lo ammetto: forse presuntuosamente), quasi per un istinto o per un riflesso condizionato uguale e contrario, sopperire il mio non-agire, il mio “stare fermo”.
Che, forse, per altri aspetti, non lo nego, arriva ad essere anch’esso negativo, per motivi opposti, soprattutto quando eccede, quando supera un certo livello.
Come se esso (forse mi illudo in questo) potesse essere il necessario o, quantomeno, utile bilanciamento di altri eccessi; quelli che vedo prevalere attorno a me.
© Giovanni Lamagna
La cattiva madre.
La cattiva madre tende a trattenere il figlio con sé, a impedirne l’autonomia e il distacco.
Certo, perché non ha fiducia nel figlio!
Ma, prima di tutto, perché non ha fiducia in sé stessa.
Ha paura di ogni separazione.
© Giovanni Lamagna
Quanti equivoci dietro la parola “amore”!
La cronaca giornaliera ma anche l’esperienza che ho dei rapporti umani mi portano a dire che in nome dell’amore si pensano e (peggio ancora!) si commettono a volte le peggiori nefandezze.
Basti pensare al caso estremo degli omicidi che avvengono in nome del presunto amore o, addirittura, (come alcuni lo definiscono) di un “eccesso di amore”.
In realtà perché l’omicida era preda della gelosia o perché non riusciva a sopportare l’abbandono o la richiesta di separazione della persona che (a parole) diceva di amare.
Il termine “amore” checché ne pensino molti e anche a prescindere dai casi estremi, prima citati, che finiscono in tragedia, è, dunque, alquanto vago e generico, anzi perfino ambiguo e contraddittorio nei suoi molteplici significati possibili.
Ogni volta che parliamo di “amore” dovremmo dunque metterci d’accordo, in premessa, su quale significato (in termini di azioni concrete) attribuiamo a tale parola e imparare a distinguere “il grano dal loglio”.
Ci sono azioni e comportamenti (per fare un altro esempio, meno estremo, ma non privo anch’esso di esiti a volte nefasti: quello del rapporto dei genitori coi loro figli) che spesso non sono affatto d’amore, anche se i più li considerano perfettamente tali.
Quanti genitori, in nome dell’amore, in realtà in nome del possesso, del desiderio a volte gravemente morboso di tenerseli stretti, di non “perderli”, impediscono ai loro figli una crescita autonoma e non favoriscono il loro distacco, la loro indipendenza!
Quanti genitori, sempre in nome dell’amore, in realtà per tenerseli buoni ed evitare quei conflitti, che a volte sono invece necessari, diciamo pure fisiologici, incapaci di porre limiti e regole, comunicano ai figli il messaggio che a loro tutto è consentito!
© Giovanni Lamagna
Perdere chi dava senso alla nostra vita significa perdersi?
Davvero “Perdere chi dava senso alla nostra vita significa perdersi”, come afferma Massimo Recalcati a pag. 27 del suo “La luce delle stelle morte” (2022 Feltrinelli)?
No, non lo penso.
Certo, non ci sono dubbi manco per me, che la perdita di un’amicizia e, ancora più, di un amore (di un genitore, di un amante, di un figlio…) comporti un dolore, più o meno grande, più o meno lacerante, a seconda del significato e del valore che il legame con loro aveva per noi.
E’ innegabile – non c’è dubbio manco per me – che la perdita di un legame significativo crei in noi un vuoto, una mancanza, uno smarrimento esistenziale, un appannamento, se non un vero e proprio obnubilamento, del senso del vivere.
Ma di qui a “perdersi”, come sostiene Recalcati, ce ne corre; o, perlomeno, ce ne dovrebbe correre.
Il “perdersi” (dopo la perdita di un legame importante) può essere anche molto grave, può durare anche un tempo molto lungo, ma non può essere (o, almeno, non dovrebbe essere) totale e, soprattutto, non può essere (o, almeno, non dovrebbe essere) definitivo.
Prima o poi, anche dopo la perdita più grave e significativa, la natura ha previsto (e per fortuna!) l’elaborazione e la fine del “lutto” legato alla perdita.
E questo per una ragione fondamentale, che si oppone allo stesso assunto iniziale di Recalcati; e cioè che nessuno, in fondo, costituisce (o, meglio, dovrebbe costituire) “il senso” della nostra vita; a nessuno dovremmo attribuire un tale valore e un tale significato, potremmo dire anche un tale potere.
Nel senso che (ed è questo l’assunto fondamentale dal quale io parto e che – almeno per me -sostituisce quello da cui è partito Recalcati) il significato profondo della nostra vita deve (o, meglio, dovrebbe) poggiare su altro: non le singole persone e, meno che mai, le singole cose; manco le persone alle quali siamo legati dagli affetti più grandi e profondi.
Dovrebbe, in altre parole, poggiare su un’accettazione della vita nel suo complesso, nella sua totalità, con le sue luci e con le sue ombre, e non su suoi singoli aspetti (situazioni, oggetti, persone… per quanto importanti, preziosi) isolati dal resto.
Singoli aspetti che sono tutti inevitabilmente soggetti a caducità e possono tutti, quindi, sfuggirci, venirci a mancare da un momento all’altro.
Mentre il resto della vita bene o male perdura, perdura oltre ogni morte, ha un che di immortale, di solido, di eterno.
E’ dunque l’amore della vita in sé – un sentimento che ha a che fare con le pascaliane ragioni del cuore più che con quelle della mente (quindi o c’è non c’è), un sentimento quasi religioso di fede o, meglio, fiducia di base – che (almeno a mio avviso) dà (o, meglio, può dare) un senso alla nostra vita e fonda poi tutti gli altri amori.
Compresi, quindi, quelli la cui perdita, quando ci colpisce, ci fa un male da morire.
Non viceversa.
Ecco perché, quando perdiamo un’amicizia o un amore, staremo male, per un tempo anche molto lungo; avremo persino la (momentanea) sensazione di morirne, di non poter sopravvivere alla perdita, perlomeno psicologicamente, se non fisicamente.
Ma, prima o poi, la persona sana, solida, strutturata psicologicamente, ne uscirà: questo ci insegna l’esperienza dei più; anche quella di coloro che nel momento in cui subiscono una perdita ci appaiono disperati, distrutti, devastati dal dolore.
Corre il rischio, invece, di perdersi definitivamente (o si perde effettivamente) la persona che aveva con la persona “amata” una relazione di attaccamento simbiotico, di dipendenza patologica, più che di vero amore.
Il vero amore, infatti, prevede e richiede indubbiamente intimità, interdipendenza, vicinanza, legame, perfino attaccamento, ma anche confini, autonomia, giusta distanza e libertà, finanche un certo distacco.
Non è (o, meglio, ripeto, non dovrebbe essere) la ragione stessa della nostra vita, quella senza la quale viene meno il senso stesso della nostra esistenza, che si ridurrebbe pertanto ad un mero e depresso sopravvivere.
© Giovanni Lamagna