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A proposito di I. A. (Intelligenza Artificiale).

Ci è sufficientemente chiaro che “intelligenza” non è sinonimo di “sapienza” o “saggezza”?

Ho l’impressione di no.

Se ci fosse chiara questa (in fondo banale) distinzione, forse ci sarebbe ipso facto chiaro (e, invece, vedo che per molti non lo è) che l’I. A. potrà anche superare (e, forse, persino sostituire) l’I U. (Intelligenza Umana), ma non potrà mai sostituire la sapienza e la saggezza, che sono fenomeni tipicamente e solamente umani.

A meno che l’Umanità non decida (in una maniera che certamente non sarà consapevole, ma potrà essere solo l’esito di una deriva inconsapevole) di suicidarsi, scivolando verso un’era che (non a caso) alcuni già definiscono come “post-umana”.

Allo stesso modo di come potrebbe suicidarsi abbandonandosi ad un’escalation bellica sempre più accelerata (come purtroppo sembra stia avvenendo oggi in Ucraina), scivolando ineluttabilmente (e quasi senza accorgersene) verso un conflitto nucleare e mondiale.

© Giovanni Lamagna

Oggi non basta dirsi a favore della pace.

Oggi non basta dirsi per la pace.

Anche perché tutti dicono di esserlo.

Anche quelli che poi inviano (o sono favorevoli a inviare) armi all’Ucraina, perché – dicono – è giusto, è necessario che l’Ucraina si difenda dall’invasore russo.

“Perché – dicono – anche noi vogliamo la pace, ma una pace giusta, non una pace che sia una resa al prepotente invasore.

Mentre voi pacifisti, che siete contrari all’invio delle armi affinché l’Ucraina possa difendersi, volete una pace ingiusta, che è in realtà una resa passiva e incondizionata all’invasore.”

Per questo oggi non basta dire: “vogliamo la pace!”.

Perché bisogna dare una risposta alle ovvie, scontate, direi addirittura naturali, obiezioni dei “pacifisti” che sono favorevoli all’invio delle armi affinché l’Ucraina possa difendersi dall’invasione russa.

Occorre allora dire che noi siamo non solo pacifisti, ma siamo soprattutto nonviolenti.

E’ questo che ci distingue e divide, in modo radicale, dai pacifisti armati.

Pensiamo, cioè, con molta fermezza e convinzione, che la difesa dal nemico aggressore non debba essere quella militare ed armata, ma una resistenza attiva e nonviolenta.

Fatta di scioperi, di boicottaggi, di manifestazioni pubbliche e private di dissenso e di ribellione; non certo – dunque – una resa passiva e rassegnata al nemico invasore.

Come i pacifisti armati ci accusano di volere ed auspicare.

Costoro potranno, allora, dirci (e contestarci) che questa forma di lotta è ingenua e senza nessuna efficacia; che equivale in realtà ad una resa.

E, certo, noi non potremmo convincerli del contrario, se in loro non è maturata o fino a quando non maturerà in loro un’intima convinzione (che è una specie di fede) del contrario.

Anche se nella storia, soprattutto in quella recente, non sono mancate importanti testimonianze (vedi Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela…) dell’efficacia di una tale forma di lotta, nonviolenta.

Potremmo solo obiettare loro che il ricorso alle armi e la conseguente, molto probabile, progressiva, escalation bellica, nell’attuale situazione storica, con il rischio incombente del ricorso alle armi nucleari, ci porterà quasi sicuramente dritti, dritti verso un’ecatombe mondiale e, dunque, la probabile estinzione della nostra specie.

Hanno presente i nostri pacifisti favorevoli all’uso delle armi (fossero anche solo di difesa) un tale rischio, che, a dire il vero, è molto più di un rischio, perché è invece una quasi assoluta certezza?

Chi è quindi più ingenuo e realista?

Chi, in nome del presunto realismo, si dice contrario all’utopia nonviolenta o chi azzarda questa utopia, come unica forma di realismo e non solo di idealismo, perché mai come oggi vede reale la possibilità che la specie umana si autodistrugga con le sue stesse mani?

C’è, in altre parole, oggi, nell’attuale situazione storica, una reale alternativa alla nonviolenza (attenzione: non il semplice e generico appello alla pace!), se si vuole salvaguardare il futuro dell’Umanità e non rimuovere il problema, come, invece, la maggior parte dei “pacifisti armati” fa?

© Giovanni Lamagna

Pulsione di morte e guerra.

Nel capitolo VI del suo “Il disagio della civiltà” (1929) Freud riprende un concetto di cui, a partire dal saggio del 1920 “Al di là del principio di piacere”, si era andato sempre più convincendo nel corso degli anni, gli ultimi della sua vita: il concetto secondo cui “oltre alla pulsione a conservare la sostanza vivente e a legarla in unità sempre più larghe, doveva esisterne un’altra, ad essa opposta, che mirava a dissolvere queste unità e a ricondurle allo stato primevo, inorganico”.

Freud negli ultimi anni della sua vita si è, insomma, convinto che oltre ad una pulsione (Eros) che tende a conservare la vita ce ne sia un’altra (Thanatos) che tende ad annientarla.

Egli riconosce, però, che non fu facile all’inizio documentare questa seconda pulsione; perché, mentre le manifestazioni della prima balzano evidenti agli occhi, la seconda lavora sotto traccia, silenziosamente.

Più spesso essa si intreccia e mescola alla prima, ad esempio nel sadismo e nel masochismo.

Ovviamente, dice Freud, lo sviluppo della civiltà trova nella pulsione di morte “il suo più grave ostacolo”.

Lo sviluppo della civiltà, infatti, si pone al servizio dell’Eros, in quanto – scrive testualmente Freud – “mira a raccogliere prima individui sporadici, poi famiglie, poi stirpi, popoli, nazioni, in una grande unità, il genere umano…

… Ma a questo programma della civiltà si oppone la naturale pulsione aggressiva dell’uomo, l’ostilità di ciascuno contro tutti e di tutti contro ciascuno. Questa pulsione aggressiva è figlia e massima rappresentante della pulsione di morte…

…Ed ora, mi sembra, il significato dell’evoluzione civile non è più oscuro. Indica la lotta tra Eros e Morte, tra pulsione di vita e pulsione di distruzione…

Questa lotta è il contenuto essenziale della vita e perciò l’evoluzione civile può definirsi in breve come la lotta per la vita della specie umana.”

Da queste pagine di Freud, che ancora una volta mi sono tornate sotto gli occhi in questi giorni, è scaturita spontanea dentro di me la riflessione che segue.

Alla luce di quanto si sta verificando, da quasi nove mesi a questa parte, sotto i nostri occhi, soprattutto sotto gli occhi di noi Europei, come dare torto a Freud?

Come negare che nell’Uomo, oltre che un istinto di vita che lo spinge a cercare la felicità e la convivenza pacifica con i suoi simili, ci sia un istinto malefico, che lo spinge verso la distruzione della vita altrui e persino verso l’autodistruzione della propria?

Tale istinto mi sembra si sia manifestato evidente nell’invasione russa dell’Ucraina.

La Russia potrà avere (e forse ha) mille ragioni per essere aggressiva con l’Ucraina, con la Nato e con l’Europa; ma non ci sono dubbi che il suo intervento e le modalità estremamente distruttive con cui si sta svolgendo abbiano a che fare con l’istinto mortifero di cui parlava Freud.

E tuttavia questo istinto, in fondo, in fondo, lo si percepisce anche nelle reazioni che ci sono state all’invasione russa; sia da parte dei governanti di molti altri Paesi che da parte dell’opinione pubblica internazionale.

Innanzitutto nella reazione del popolo ucraino o, quantomeno, dei suoi governanti, che i più definiscono esclusivamente coi termini di nobile, eroica e fiera, ma che a me sembra francamente anche molto fanatica, a tratti delirante e, alfine, suicida.

E’ poi, financo, nelle reazioni degli Stati Uniti, della Nato e dell’Europa; che sembrano incuranti non solo delle conseguenze economiche disastrose che il loro coinvolgimento nella guerra comporta e comporterà sempre più, ma anche del rischio di innescare un’escalation bellica che potrebbe sfociare, prima o poi, in un conflitto mondiale e nucleare, il cui esito non vedrebbe né vinti né vincitori, ma solo un’ecatombe globale.

Ultima considerazione: quale dei due istinti, di cui parla Freud, la spunterà alla lunga nel corso della Storia?

E’ difficile, anzi impossibile, per tutti prevederlo.

Anche se molti indizi (soprattutto quelli che ci rimandano le cronache di questi ultimi nove mesi) sembrano dare per favorito il secondo.

Non si tratta qui di essere nevroticamente, patologicamente pessimisti; si tratta di vedere le cose per come sono, con gli occhi del realismo.

© Giovanni Lamagna

Freud, la psicoanalisi e il sentimento religioso.

Io condivido pienamente e sottoscrivo in buona sostanza “le tesi di Freud sulla religione e sull’antropologia dell’uomo religioso che appaiono prive di sfumature: la religione è una nevrosi dell’umanità, o, addirittura, un suo delirio

E’ un’illusione destinata fatalmente a dileguarsi con il progresso della scienza;l’uomo religioso è il prodotto di una regressione, il suo Dio non sarebbe altro se non il prolungamento dell’idealizzazione infantile del padre che non vuole estinguersi…

La credenza religiosa serve a sopportare questa vita e il suo dolore promettendone un’altra – una vita eterna – finalmente liberata dalla sofferenza e dalla mancanza che invece ci affliggono…

L’uomo religioso è dunque un uomo in fuga, incapace di assumere responsabilmente il carattere irrevocabilmente finito e precario della sua esistenza.”

Il virgolettato è una citazione di Massimo Recalcati tratta dal suo “La legge della parola”; Einaudi; 2022; pag. V dell’Introduzione.

Non condivido, invece, per niente il giudizio di Freud sull’inutilità totale del sentimento religioso e, quindi, sulla necessità che esso venga storicamente del tutto superato, se l’uomo vuole uscire dallo stato di “minorità” kantiana, di “nevrosi”, di “delirio”, di “illusione”, da cui pure il sentimento religioso indubbiamente, almeno in parte, nasce.

Credo, infatti, che questo sentimento, le ragioni da cui esso nasce ed è motivato, siano anche altre, oltre a quelle indicate così bene e così lucidamente dal padre della psicoanalisi.

C’è, infatti, nell’uomo – e ben radicata – una tensione a trascendersi, ad andare oltre sé stesso, che non possono ridursi soltanto alla paura della sofferenza (soprattutto alla suprema paura che è l’angoscia di morire) e al desiderio di sfuggire alla precarietà che affligge la sua vita.

C’è nell’uomo un desiderio di realizzare i doni (per usare un linguaggio evangelico, i “talenti”) che la vita gli ha messo a disposizione, una tensione a realizzare una comunione con il Tutto, in primo luogo con gli altri suoi simili, che non possono essere spiegati, a mio avviso, solo col sentimento della paura e della precarietà e, quindi, con la spinta a fuggire, a evadere, ad alienarsi in un altro “mondo dietro al mondo”, per usare un’espressione di Nietzsche, anche questa citata da Recalcati.

Tensione, desiderio, che certo non possono essere identificati sic et simpliciter col sentimento, spesso rozzo e primitivo, dal quale sono nate le religioni.

Rispetto al quale valgono, dunque, tutte le critiche e i giudizi drastici con i quali le bolla Freud.

Ma sicuramente hanno una qualche affinità, hanno (almeno in parte) una radice comune con i sentimenti e le aspirazioni da cui storicamente sono nate le religioni, non sono proprio del tutto un’altra cosa.

Per cui il mio giudizio sulla religione (o, meglio, su quello che io definisco come “sentimento religioso”) coincide solo in parte con quello di Freud.

Ne coglie e critica (come lui) la dimensione regressiva, che indubbiamente va superata, se l’uomo vuole andare avanti sul piano della evoluzione emotiva, psicologica, intellettuale, culturale in senso lato.

Ma allo stesso tempo ne recupera, invece, e sostiene come perennemente valida la dimensione progressiva, che consiste, a mio avviso, nella spinta continua alla ricerca, che spinge l’uomo a trascendere sé stesso.

E che, lungi dall’essere “destinata fatalmente a dileguarsi con il progresso della scienza”, è proprio ciò che, invece, sostiene e motiva il progresso delle scienze.

Ne recupera inoltre la spinta necessaria e fondamentale per la sublimazione delle pulsioni primarie, che da sempre caratterizza il sentimento religioso nelle sue varie forme ed espressioni, anche in quelle più primitive e per tanti altri aspetti deteriori.

In modo particolare ne recupera la spinta alla sublimazione della pulsione primaria più forte, che è quella aggressiva, spinta che, anche grazie alle religioni, è stata in passato in grado di unire (almeno in parte) gli uomini, di farli andare oltre le loro tendenze disgregative e quindi autodistruttive, di condurli insomma sulla via della civiltà.

Per cui io arrivo a sostenere che la costruzione della civiltà umana non possa proseguire ed ottenere ulteriori significativi risultati, se l’Uomo nella sua complessità di specie, non recupera e conserva il nucleo fondamentale e ancora vitale di “verità” da cui sono originate le religioni.

Se, in altre parole, non conserva in sé ciò che ancora oggi non esito a definire, perché non trovo un’espressione migliore, il “sentimento religioso”, da cui le religioni storiche, pur con tutte le loro infinite contraddizioni – giustamente denunciate da Freud e dalla psicoanalisi – trassero origine.

Quel sentimento che può portare (e, in certi casi, porta) gli uomini, pur tra mille altre spinte contraddittorie, a sentirsi figli di un’unica Madre (la Natura, la Terra che tutti ci accomuna), se non proprio di un unico padre (quel Dio, che nella Storia ha assunto molti nomi diversi, spesso in conflitto tra di loro).

E li fa (o può farli sentire) quindi (come conseguenza naturale dell’avere una Madre – se non un Padre – in comune) fratelli tra di loro.

Arrivo anzi a dire, con parole ancora più radicali, che o l’Umanità recupera il nocciolo duro del “sentimento religioso” così inteso (depurato cioè delle incrostazioni con cui lo hanno rivestito storicamente le religioni tradizionali) o sarà destinato fatalmente all’autodistruzione.

Come del resto le vicende di questi ultimi mesi (vedi la guerra in corso in Ucraina, cioè nel cuore stesso del continente europeo) sembrano prefigurare drammaticamente; anche se la gran parte dell’Umanità pare non rendersene adeguatamente conto.

© Giovanni Lamagna

Pulsione di morte e guerra.

Nel capitolo VI del suo “Il disagio della civiltà” (1929) Freud riprende un concetto di cui, a partire dal saggio del 1920 “Al di là del principio di piacere”, si era andato sempre più convincendo nel corso degli anni, gli ultimi della sua vita: il concetto secondo cui “oltre alla pulsione a conservare la sostanza vivente e a legarla in unità sempre più larghe, doveva esisterne un’altra, ad essa opposta, che mirava a dissolvere queste unità e a ricondurle allo stato primevo, inorganico”.

Freud negli ultimi anni della sua vita si è, insomma, convinto che oltre ad una pulsione (Eros) che tende a conservare la vita ce ne sia un’altra (Thanatos) che tende ad annientarla.

Egli riconosce, però, che non fu facile all’inizio documentare questa seconda pulsione; perché, mentre le manifestazioni della prima balzano evidenti agli occhi, la seconda lavora sotto traccia, silenziosamente.

Più spesso essa si intreccia e mescola alla prima, ad esempio nel sadismo e nel masochismo.

Ovviamente, dice Freud, lo sviluppo della civiltà trova nella pulsione di morte “il suo più grave ostacolo”.

Lo sviluppo della civiltà, infatti, si pone al servizio dell’Eros, in quanto – scrive testualmente Freud – “mira a raccogliere prima individui sporadici, poi famiglie, poi stirpi, popoli, nazioni, in una grande unità, il genere umano…

… Ma a questo programma della civiltà si oppone la naturale pulsione aggressiva dell’uomo, l’ostilità di ciascuno contro tutti e di tutti contro ciascuno. Questa pulsione aggressiva è figlia e massima rappresentante della pulsione di morte…

…Ed ora, mi sembra, il significato dell’evoluzione civile non è più oscuro. Indica la lotta tra Eros e Morte, tra pulsione di vita e pulsione di distruzione…

Questa lotta è il contenuto essenziale della vita e perciò l’evoluzione civile può definirsi in breve come la lotta per la vita della specie umana.”

Da queste pagine di Freud, che proprio in questi giorni ho avuto modo di rileggere e meditare, è scaturita spontanea dentro di me la riflessione che segue.

Alla luce di quanto si sta verificando, da più di tre mesi a questa parte, sotto i nostri occhi, soprattutto sotto gli occhi di noi Europei, come dare torto a Freud?

Come negare che nell’Uomo, oltre che un istinto di vita che lo spinge a cercare la felicità e la convivenza pacifica con i suoi simili, ci sia un istinto malefico, che lo spinge verso la distruzione della vita altrui e persino verso l’autodistruzione della propria?

Tale istinto mi sembra si sia manifestato evidente nell’invasione russa dell’Ucraina; la Russia potrà avere (e forse ha) mille ragioni per essere aggressiva con l’Ucraina, con la Nato e con l’Europa; ma non ci sono dubbi che il suo intervento e le modalità (a quanto sembra) estremamente distruttive con cui si sta svolgendo abbiano a che fare con l’istinto mortifero di cui parla Freud.

E tuttavia l’istinto di cui stiamo parlando, in fondo, in fondo, lo si percepisce anche nelle reazioni che ci sono state all’invasione russa; sia da parte dei governanti di molti altri Paesi che da parte dell’opinione pubblica internazionale; innanzitutto nella reazione del popolo ucraino o, quantomeno, dei suoi governanti, che i più definiscono esclusivamente coi termini di nobile, eroica e fiera, ma che a me sembra francamente anche molto fanatica, a tratti delirante e, alfine, suicida.

E’ da ravvisare poi, financo, nelle reazioni degli Stati Uniti, della Nato e dell’Europa; che sembrano incuranti non solo delle conseguenze economiche disastrose che il loro coinvolgimento nella guerra comporta e comporterà sempre più, ma anche del rischio di innescare un’escalation bellica che finirà per sfociare, se non sarà arrestato quanto prima, in un conflitto mondiale e nucleare, che non vedrebbe né vinti né vincitori, ma solo un’ecatombe globale.

Ultima considerazione: quale dei due istinti, di cui parla Freud, la spunterà alla lunga nel corso della Storia?

E’ difficile per tutti prevederlo.

Anche se molti indizi (soprattutto quelli che ci rimandano le cronache di questi giorni) sembrano dare per favorito il secondo.

Non si tratta qui di essere nevroticamente, patologicamente pessimisti; si tratta di vedere le cose per come sono, con gli occhi del realismo.

© Giovanni Lamagna

Esiste la possibilità di una difesa nonviolenta di fronte ad un’aggressione armata?

Qualche giorno fa ho pubblicato su facebook il seguente pensiero: “Chi è consapevole di essere parte di un Tutto indivisibile non può concepire (e, meno che mai, fare) la guerra.”

Un amico così lo ha commentato: “E se la guerra te la fanno? Non ti difendi?”.

E’ questa, a mio avviso, la domanda fondamentale alla quale i pacifisti “senza se e senza ma”, coloro (tra i quali mi annovero anche io) che hanno fatto la scelta della nonviolenza, devono dare una risposta convincente e non (solo) ideologica, in grado pertanto di sensibilizzare le coscienze a livello di massa e provocare comportamenti conseguenti, non solo di piccole avanguardie ma di un popolo intero.

Ovviamente – sia detto per inciso – il pacifista nonviolento non prende nemmeno in considerazione il ricorso alla violenza di attacco; se rinuncia alla difesa violenta, per quanto legittima, come potrebbe prendere in considerazione l’azione violenta di attacco?

E però il pacifista nonviolento non può evadere, invece, gli argomenti che gli vengono opposti rispetto alla difesa nonviolenta, da lui ipotizzata, nei confronti di un attacco violento ricevuto: “che fai, se la guerra te la fanno, tu non ti difendi?”

A questa domanda bisogna necessariamente rispondere, non la si può evadere.

E la prima risposta che mi viene di dare è che, certo, anche il pacifista, anche il nonviolento hanno il diritto di difendersi; è non solo legittimo, ma naturale, anzi persino doveroso, che lo facciano.

Solo che il pacifista non violento si difende senza fare ricorso alla violenza, senza rispondere alla violenza con altra violenza.

Allo stesso modo di come fanno, del resto, la gran parte dei cittadini civili in una comunità civile.

Anche in una società complessivamente civile si verificano, infatti, talvolta episodi di violenza, ovverossia episodi di inciviltà; e ciascuno di noi corre il rischio di rimanerne vittima.

Io, ad esempio, una volta (era quasi mezzanotte) sono stato rapinato da una piccola banda armata di giovinastri mentre mi ritiravo a casa.

Ma non per questo andiamo in giro armati, per poterci difendere con le armi, nell’ipotesi di trovarci in una situazione simile a quella nella quale mi sono trovato io tempo fa.

Nella gran parte dei casi quasi tutti noi reagiamo a queste forme di violenza senza opporre resistenza, consapevoli che il gioco non varrebbe la candela; e solo successivamente ricorrendo alla denuncia dell’accaduto in un posto di polizia.

Questo è ciò che avviene in una società evoluta, quella che noi definiamo normalmente e sanamente civile.

Le società, nelle quali moltissimi cittadini si armano per poter fronteggiare autonomamente e privatamente situazioni simili a quelle che ho sopra descritto e nelle quali la legge permette o addirittura incoraggia tale tipo di autodifesa, appaiono alla maggior parte di noi più simili al Far West che a delle società compiutamente civili.

Il problema che sembra oramai risolto al livello delle comunità civili, al loro interno, si pone però (bisogna riconoscerlo!) quando la violenza si affaccia al livello dei rapporti tra le diverse comunità, tra i diversi Stati, tra le Nazioni.

Innanzitutto perché la violenza a questo livello assume dimensioni ben maggiori di quelle che normalmente sono toccate al livello delle relazioni interpersonali o tutt’al più delle relazioni tra gruppi all’interno di una stessa comunità.

Sia perché in questo caso mancano norme, legislazioni condivise, che tutelino efficacemente chi subisce violenza; sia (soprattutto) perché, anche quando queste norme e le Istituzioni che dovrebbero farle rispettare almeno formalmente ci sono, esse sono deboli o del tutto inadeguati gli strumenti e le forze per far rispettare queste norme (vedi ONU).

Come ci si può difendere allora a questi livelli, senza fare ricorso alle armi, senza rispondere alla violenza con la violenza, alla guerra con la guerra; e senza nello stesso tempo arrendersi passivamente all’avversario/nemico che ci ha assalito, che ha invaso e occupato i nostri territori?

Esistono risposte nonviolente alla violenza, che non siano la pura e semplice resa? A mio avviso, sì!

La prima è la non-collaborazione; un esercito nemico potrà invadere il nostro territorio, occuparlo, ma non potrà mai invadere ed occupare le nostre coscienze (nota 1); un popolo che non si arrende è un popolo che non collabora col nemico nella gestione del territorio occupato.

La seconda risposta possibile è il boicottaggio di tutte le iniziative che l’esercito nemico proverà a intraprendere sul territorio occupato; boicottaggio innanzitutto psicologico e poi anche materiale.

La terza risposta è quella dello sciopero di protesta nonviolenta; la discesa in campo aperta, con manifestazioni pubbliche, più o meno spontanee, meglio se organizzate, preparate magari in modo clandestino.

La quarta risposta è quella della ricerca il più possibile ampia della solidarietà internazionale, la quale potrà esprimersi con forme di sanzioni e prese di posizione formali diplomatiche da parte di altre nazioni, in modo da isolare il più possibile a livello internazionale la nazione occupante. (nota 2)

Certo, nessuna di queste risposte nonviolente ad un attacco violento è in grado di fermare l’avanzata e – ancora meno – provocare la ritirata e, quindi, la sconfitta militare dell’esercito nemico: di questo sono pienamente consapevole.

Ma d’altra parte è forse in grado di offrire migliori garanzie la risposta violenta?

Non mi sembra! A giudicare dalle immagini che la televisione ci trasmette ogni giorno, quasi ad ogni ora, della guerra attualmente in corso in Ucraina: intere città rase al suolo, migliaia di morti non solo tra i militari ma anche tra i civili, un apparato economico, soprattutto industriale, in gran parte distrutto, milioni di persone costrette a vivere in condizioni inumane da oramai più di tre mesi o ad abbandonare la loro patria per trovare rifugio all’estero.

Immagini di una tale violenza distruttiva non dovrebbero insinuarci qualche dubbio sul tipo di risposta che sia il popolo ucraino che la comunità (?) internazionale (almeno quella occidentale) hanno dato finora all’invasione russa e indurci a ipotizzare e immaginare (quantomeno ipotizzare e immaginare) altri scenari possibili?

© Giovanni Lamagna

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(nota 1): Ricordo a tale proposito la risposta che diede l’attuale Dalai Lama a chi gli chiedeva come mai non incitasse il proprio popolo ad una ribellione armata contro l’occupazione cinese del Tibet: “I cinesi hanno già occupato il nostro territorio; non posso permettere loro di occupare anche la mia anima.”

(nota 2) Ovviamente perché queste risposte possano risultare efficaci occorre che esse vengano preparate bene e anzitempo, cioè in tempo di pace; né più e né meno di come gli eserciti si addestrano ad azioni militari di guerra, quando la guerra non c’è.

E che tutto il popolo (o almeno la gran parte di esso) vi partecipi: non solo i giovani, bene in salute e prevalentemente maschi, ma anche le donne, le persone con handicap fisici e gli anziani; per alcune azioni, perfino i bambini e i vecchi.

Gli uomini e la guerra.

Se io rispondo ad un insulto con uno schiaffo o un pugno, molto probabilmente l’altro risponderà con pugni e schiaffi e si arriverà così alla rissa.

A quel punto si innescherà, molto probabilmente, un’escalation di violenze, che potrà essere interrotta solo dall’intervento di terzi neutrali, che faranno da pacieri, o dalla sconfitta e resa unilaterale di uno dei due litiganti.

Questo era probabilmente quello che succedeva di norma agli inizi dei tempi, quando gli uomini erano poco più che delle bestie, quando vigeva la “legge” della giungla e la sopraffazione del più forte sui più deboli.

La civiltà, le società degli umani, sono nate quando, alla prima scintilla di violenza, chi l’ha subita è stato capace (o è stato costretto) a non reagire con la stessa violenza o, magari, con una violenza ancora maggiore.

La civiltà umana è nata quando la catena della violenza che poteva innescarsi – e che normalmente si innescava quando la vita sociale degli ominidi era praticamente simile a quella delle altre bestie – si è interrotta, per scelta consapevole di chi l’aveva subita o per l’intervento di un terzo estraneo alla contesa.

Questo principio – che si è affermato ed è diventato abbastanza egemone, oramai già da parecchio tempo, tra gli individui, i singoli cittadini di uno Stato, all’interno delle società civilizzate – non si è ancora affermato però (se non in maniera molto limitata e a fasi alterne) a livello dei rapporti tra i popoli, gli Stati e le nazioni.

Per cui viene ancora considerato legittimo l’uso della violenza quando un popolo o una nazione sono attaccati da un altro popolo o da un’altra nazione.

La guerra è – generalmente e tutto sommato – ancora considerata un modo legittimo per dirimere, risolvere, le controversie tra le nazioni.

La guerra viene ritenuta ancora oggi – come ebbe a dire il generale prussiano Von Klausevitz a metà Ottocento, con un’affermazione divenuta poi famosissima – il proseguimento della politica, con altri mezzi; quando cioè la diplomazia fallisce, si arena, si incaglia, giunge su un binario morto.

In altre parole quello che oramai abbastanza universalmente viene considerato “incivile” a livello dei rapporti tra gli individui, tra i singoli cittadini all’interno di uno Stato e di una Nazione, viene considerato, invece, ancora legittimo a livello dei rapporti tra gli Stati e le Nazioni.

Ciò vuol dire che ne abbiamo ancora di strada da percorrere sulla via del progresso civile ed umano.

Ne abbiamo di cammino da compiere prima che si avveri l’auspicio di alcuni uomini illustri (quali, per fare solo alcuni nomi, Albert Einstein o Bertrand Russell o Gino Strada); l’auspicio che la guerra diventi un tabù, come lo sono già diventati, in epoche passate, l’incesto e la schiavitù!

Ed io – a dire il vero – non sono manco convinto che, come Umanità, siamo ancora in tempo a percorrere questa lunga strada che ci resta da fare, prima che uno scontro di infinite proporzioni ci (auto)distrugga anzitempo.

Anzi, se devo essere del tutto sincero con me stesso, la ragione non mi spinge affatto ad essere ottimista rispetto a questa prospettiva.

Dal momento che oramai abbiamo tutti gli strumenti perché questo rischio incombente, che già da alcuni decenni pesa minaccioso sulle nostre teste, da pura eventualità si trasformi in mostruosa e tragica realtà.

E potrebbe bastare anche una piccola scintilla per innescare un incendio immane e senza ritorno: questa scintilla potrebbe essere ad esempio il conflitto attualmente in corso in Ucraina.

© Giovanni Lamagna

Nonviolenza o autodistruzione.

E’ venuto il tempo, io dico, di concepire e provare a realizzare un nuovo ordine internazionale: fondato sulla pace e sulla nonviolenza.

Finora nella storia, quando scoppiavano delle controversie che non si riuscivano a risolvere in modo pacifico e non violento, la strada obbligata, dai più ritenuta perfino scontata e naturale, era la guerra.

“La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è, dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi.”

Con queste parole, famosissime, il generale prussiano Carl von Clausewitz esprimeva, quasi due secoli fa, non solo un sentimento ma anche un’idea, un concetto, un’ideologia diffusissimi, accettati dal senso comune come ovvii, indiscutibili, del tutto scontati.

Persino la morale della Chiesa cattolica, che pure si rifà (o dovrebbe rifarsi) all’insegnamento indubitabilmente pacifista e non violento di Cristo, è giunta a teorizzare e ritenere legittima la guerra in determinate situazioni, almeno in quelle configurabili nella forma della legittima difesa.

Tanto è vero che in questi giorni perfino un vescovo e un teologo molto noto e illuminato come Bruno Forte, citando la dottrina cattolica, è arrivato a giustificare l’invio delle armi in Ucraina, a sostegno della resistenza di un popolo attaccato da un’altra nazione, quella russa, e a criticare un certo pacifismo che ha definito “ingenuo”; come a dire: in certe situazioni il ricorso alle armi è inevitabile.

Io, invece, dico, che siamo giunti ad un punto, ad un tornante, della Storia in cui bisogna mettere in discussione quello che finora è apparso come assiomatico, pensiero comune, scontato, senza alternative, perfino naturale, quindi giuridicamente legittimo.

E’ venuto il tempo di dire che all’uso della forza (o, meglio, della violenza e, quindi, delle armi) si può, anzi si deve (o, perlomeno, si dovrebbe), rispondere senza fare ricorso alle stesse modalità e agli stessi strumenti di morte; che alla violenza si può, si deve, si dovrebbe, rispondere con la nonviolenza.

Lo richiede il tempo storico nel quale viviamo, io direi la stessa realpolitik e non solo la morale o una certa concezione ideale della vita e dei rapporti tra gli uomini.

Oggi iniziare una guerra (ne è un esempio quella ora in corso in Ucraina) può innescare una tale escalation militare da sfociare, prima o poi e inevitabilmente, in un conflitto planetario e, a quel punto, nucleare; il cui esito molto probabile sarebbe l’autodistruzione dell’Umanità.

Oggi l’uso delle armi, anche solo quello delle armi convenzionali, è talmente devastante, sia in termini di feriti e morti che di distruzioni di edifici e strutture economiche, da porre legittimamente la domanda: vale davvero la pena difendersi con le armi da un attacco straniero?

Conosco già e molto bene l’obiezione che di solito viene fatta ad un tale ragionamento da coloro che non concepiscono altra risposta alla violenza armata che il ricorso all’uso delle armi: “ma allora, voi pacifisti, volete, state in pratica chiedendo, la resa dell’Ucraina all’invasione russa?”.

E’ questa un’obiezione senz’altro fondata e del tutto legittima; certo, se ad un attacco violento, noi reagissimo in maniera inerte, semplicemente alzando le mani in atto di resa, avrebbero del tutto ragione i critici della posizione pacifista e nonviolenta!

Il punto è che i pacifisti e nonviolenti non pensano affatto che l’alternativa alla risposta militare ad un attacco militare sia (solo) la resa incondizionata all’avversario; pensano che un’alternativa possibile, praticabile, sia un altro modo di resistere e, quindi, di realizzare il conflitto (sì, il conflitto: non esito ad usare questo termine) con l’esercito invasore.

Sia, ad esempio e innanzitutto, la non collaborazione civile con le nuove autorità che verrebbero ad insediarsi al potere, la disobbedienza civile diffusa e di massa.

In secondo luogo, la ricerca e l’instaurazione di alleanze negli organismi internazionali deputati a risolvere le controversie tra popoli e nazioni, per isolare e sanzionare con metodi non violenti la nazione attaccante.

In terzo luogo la risposta mite, perfino gentile, ma ferma, non pavida, alla brutalità e violenza dei militari invasori, in modo da mettere continuamente a confronto umanità e disumanità e suscitare nei violenti sentimenti di vergogna e possibilmente di pentimento e cambiamento.

So benissimo che tali modalità e strumenti alternativi di praticare il conflitto non sono di facile uso, che richiedono un’educazione ed una preparazione lunga, difficile e delicata; e, soprattutto, che di primo acchito appaiono ai più del tutto ingenui e completamente inefficaci, quindi improponibili.

La riflessione che il pacifista oppone a tale reazione istintiva e immediata è però: a quali risultati porta invece la risposta militare ad un intervento armato (ovviamente il pacifista non prende manco in considerazione l’intervento armato di attacco)?

E’ effettivamente più efficace la resistenza armata rispetto a quella non armata?

Forse fino ad ottanta anni fa questo si poteva ancora sostenere; nessuno può negare, neanche il più strenuo dei pacifisti nonviolenti, che la resistenza armata al nazifascismo ha impedito che questo mostro ideologico, politico e militare prendesse il sopravvento e affermasse il suo dominio nel mondo.

Ma oggi si può ancora dire lo stesso? Si può ancora affermare che la resistenza armata sia la risposta giusta, anzi l’unica adeguata e proporzionata ad un attacco militare; anche col rischio di un’escalation mondiale e quindi nucleare del conflitto?

Io credo di no.

Per questo penso che ci troviamo oggi in una fase completamente nuova della Storia, che ci costringe a cambiare radicalmente i nostri paradigmi culturali; una fase in cui l’Umanità deve decidere del suo destino, non del suo futuro remoto, ma di quello prossimo: vuole continuare a vivere e a evolvere, progredire; o vuole sprofondare nell’incubo dell’autodistruzione?

Questa domanda non ha a che fare solo con la morale e con l’ideologia (come molti ancora oggi credono ed affermano); ha a che fare con il senso della realtà, anche se, purtroppo, una realtà che a molti ancora sfugge; è una domanda che ha a che fare con la realpolitik e non più con l’utopia.

Allo stesso modo di come (e non è un caso che i due problemi si pongano nello stesso momento, nella stessa fase storica) l’Umanità è chiamata a decidere oggi, consapevolmente, del futuro dell’ambiente, dell’ecosistema, in cui vive.

Con il tipo di sviluppo economico che da secoli (soprattutto negli ultimi due secoli) gli uomini si sono dati, il loro futuro è segnato da una prospettiva di oramai neanche tanto lenta autodistruzione.

O l’Umanità, quindi, nel giro non di secoli ma di pochi anni, sarà capace di modificare, anzi invertire il modello di sviluppo (specie quello economico) che finora ne ha caratterizzato la storia, oppure il suo destino è segnato, già deciso: nel giro di qualche generazione essa scomparirà dalla faccia di questo pianeta.

Non so quanti riescono ad avere consapevolezza della fase storica assolutamente nuova, inedita, nella quale ci troviamo.

So solo che chi ha raggiunto questa consapevolezza ha il dovere morale e il compito storico di segnalarlo ai suoi simili; saranno poi essi a decidere del loro destino; che per me non è affatto scontato; o, meglio, a giudicare dai segnali prevalenti che vedo in giro è un destino niente affatto roseo e positivo.

La ragione, che guarda freddamente i dati di realtà, mi rende anzi piuttosto pessimista; e mi ha colpito molto che perfino il capo della Chiesa cattolica, un uomo illuminato dalla fede e quindi piuttosto propenso verso la speranza, si sia autodefinito in una recente e importante intervista con lo stesso termine.

Anche se, come ci invitava a fare un illustre pensatore italiano, non voglio che al pessimismo della ragione segua, si unisca anche quello della volontà; perché come ci insegna un vecchio adagio “finché c’è vita c’è speranza”; ed io voglio (ancora) crederci, se non altro per il bene che voglio e auguro a mia figlia e ai miei nipoti.

© Giovanni Lamagna

Le donne prediligono l’amore e gli uomini la guerra?

Ieri pomeriggio (chissà perché? sarà per questo clima di guerra che in questi giorni fa da sfondo angoscioso alle mie giornate) mi è venuta in mente la famosa commedia “Lisistrata”, scritta da Aristofane e rappresentata ad Atene nel 411 a. C.

Nella commedia si racconta lo “sciopero del sesso” (ovverossia l’astensione dai rapporti sessuali) messo in atto dalle donne ateniesi come forma di protesta contro i loro uomini, che, impegnati nella guerra del Peloponneso, trascorrevano pochissimo tempo con le loro famiglie.

Dalla commedia viene fuori un’immagine delle donne che preferirebbero fare l’amore anziché la guerra, mentre gli uomini preferirebbero il contrario.

A me questa commedia piace molto, la trovo molto divertente, in certi passaggi addirittura esilarante.

Ma non credo – francamente – che descriva bene la psicologia maschile e quella femminile.

La mia esperienza, infatti, mi porta a dire che le donne amano la violenza (se non proprio la guerra, che della violenza è la manifestazione estrema) esattamente come la amano gli uomini.

Per carità, non voglio certo dire tutte le donne, ma sicuramente molte donne (ed io propendo a dire la maggioranza delle donne) amano, prediligono (e per me non a caso) il maschio “macho”, il maschio guerriero, molto più del maschio mite, pacifico, nonviolento, che in cuor loro evidentemente giudicano poco macho, quasi femmineo.

E talvolta arrivano a invaghirsi persino del maschio che è violento, anche estremamente violento, nei loro confronti: misteri della psicologia umana!

Cosa voglio dire con questa breve riflessione?

Voglio dire che la violenza, il machismo, lo spirito guerrafondaio sono radicati nella natura umana molto più di quanto noi siamo comunemente portati a pensare; sono presenti a volte anche nelle persone nelle quali non lo sospetteresti neppure lontanamente.

Sono un tarlo, un cancro, che spesso si insediano nell’animo umano (magari vi si radicano sin dal momento della nascita) e lo corrodono, devastano, portandolo alla distruzione di sé e di ciò che è fuori di sé.

Se davvero metà del genere umano fosse così refrattaria all’uso della violenza ed ostile alla guerra, come sembra dirci la commedia di Aristofane, forse la Storia non sarebbe stata contrassegnata da così tante guerre, come invece lo è stata.

E forse si sarebbe riuscita ad evitare anche quest’ultima guerra, quella attualmente in corso in Ucraina, a due passi da casa nostra.

Sento e vedo, infatti, donne – anche nell’odierna vicenda – parlare come i maschi, esaltate e quasi fanatiche allo stesso modo; donne che, anziché mettere pace, aggiungono benzina sul fuoco già acceso della guerra.

© Giovanni Lamagna

Alcune semplici riflessioni – obbligatorie oggi – sulla guerra e sulla pace.

Stamattina apro il computer, vado su facebook e il primo post che leggo è quello di un mio amico, Antonio, persona assolutamente pacifica e perbene, che così scrive: “Se i popoli usciti dall’oppressione sovietica hanno scelto la NATO significa che temevano la Russia. I fatti lo confermano.”

Ho sentito l’immediato impulso a rispondergli con queste parole:

“… e quindi?… abbiamo fatto bene a far entrare alcuni di questi paesi nella Nato o a far credere loro (come nel caso dell’Ucraina) che prima o poi ci sarebbero entrati?… abbiamo fatto bene a stringere la Russia in una morsa politico/militare ed a provocarne l’istinto revanscista?… ovviamente a questo punto perché non mandiamo le nostre truppe a difendere l’Ucraina dall’invasore russo, invece di limitarci alle sole sanzioni economiche?… che importa poi se ne nasce una guerra totale e (perché no?) nucleare?… per la “libertà dei popoli” si fa questo e altro!… continuiamo a soffiare, anzi a gettare benzina, sul fuoco!… in questo modo otterremo la pace… non certo “la pace perpetua”, che invocava Kant… ma “la pace eterna” dei cimiteri…

Comincio davvero ad avere paura, quando da bocche assolutamente miti (fino a ieri) come la tua, Antonio, sento pronunciare parole come quelle che leggo nel post di cui sopra…”

D’altra parte, appena poche ore prima, il segretario del PD Enrico Letta, quindi non un cittadino qualunque come me e come Antonio, aveva così twittato: “Alla Camera ho posto la necessità di non limitarsi al sostegno politico ed economico all’Ucraina aggredita dalla guerra di Putin. Ho detto che dovremmo aiutarla a difendersi, fornendo loro materiale ed attrezzature militari che li aiutino concretamente a respingere gli invasori.”

Se un uomo (all’apparenza mite come Letta, su cui ricadono responsabilità politiche non proprio insignificanti) arriva a scrivere parole simili, c’è da essere davvero preoccupati: il passo immediatamente successivo è quello di chiedere direttamente l’entrata in guerra dell’Italia, dell’Europa, della Nato.

Ma si rende precisamente conto Enrico Letta delle conseguenze di quello che ha detto e scritto e di quale esito avrebbero le sue parole se ad esse seguissero i fatti? Io ho l’impressione che in molti qua da noi stiano cominciando a perdere la testa, il controllo dei propri pensieri.

Proprio in un momento nel quale, invece di esternare propositi bellicosi e muscolari, occorrerebbe fare un bel po’ di esame di coscienza ed analizzare quali sono state (e ce ne sono state!) le nostre responsabilità (di noi paesi occidentali, della Nato e degli Stati Uniti in primo luogo) in questa lunga vicenda.

Ci rendiamo conto di cosa significherebbe (come in fondo propone Letta) rispondere alla forza e alla violenza con uguale forza e violenza?

Qualcuno in questi giorni ha avuto l’insipienza, prima ancora che l’ardire, di evocare la guerra partigiana contro Hitler e Mussolini. Credo che tale evocazione abbia a che fare con l’ignoranza prima ancora che con la temerarietà.

Si rende conto chi fa simili accostamenti e paragoni storici, di come siano mutati i tempi rispetto a quelli in cui si svolse la guerra partigiana? Di quali armi (per quanto sofisticatissime) usavano allora gli eserciti e di quali armi usano oggi? Si rende conto che una risposta militare occidentale ci porterebbe diritti, diritti dentro una guerra mondiale e nucleare mai vista finora? E chi ne uscirebbe vincitore alla fine?

Io credo, alla luce di tali semplici e persino banali ragionamenti, che oggi come non mai si ponga il problema di dire, una buona volta e per sempre, “no alla guerra!”, a qualsiasi guerra, anche a quella difensiva, anche a quella motivata dalle ragioni più sacrosante; e che non abbia più molto senso ricorrere alle antiche categorie di “aggressori” ed “aggrediti”, di “vittime” e di “carnefici”.

Che sia venuto il tempo di individuare altri strumenti di resistenza alla forza e alla violenza e persino all’invasione di un soggetto “nemico”; di “costringerlo” alla pace senza scendere sul suo stesso terreno di confronto.

Sono ben consapevole che un tale discorso può sembrare imbelle o quantomeno astratto e inattuale; temo (purtroppo! a giudicare dalle affermazioni che stanno facendo in questi giorni) che così lo giudichino (senza manco prenderlo in considerazione) un Enrico Letta o un Biden o chi sta a capo della Nato.

Ma che alternative abbiamo, se non quella di andare incontro ad una guerra totale e definitiva, che di certo non avrebbe come esito la sconfitta del nemico “brutto, sporco e cattivo”, ma un suicidio collettivo di tutti i popoli del pianeta, a cominciare da quelli europei?

E’ venuto il momento di provare a far nascere dal basso (non vedo altre vie) una tale coscienza collettiva e popolare e di imporla ai nostri governanti, dell’una e dell’altra parte. A tale scopo mirava e mira, nel suo piccolissimo, questa mia riflessione.

© Giovanni Lamagna