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Il parlare e lo scrivere dovrebbero essere preceduti sempre dal pensare. Dovrebbero…

Ci sono persone che arrivano a parlare o (addirittura!) a scrivere (specie sui social, da quando esistono i social; ma non solo sui social) per il solo gusto narcisistico di ascoltarsi o leggersi o farsi ascoltare e leggere.

Senza aver non solo pensato bene le cose che volevano dire o scrivere, ma (in alcuni casi, almeno) senza minimamente sapere (nemmeno loro) cosa volevano dire o scrivere.

Questa precondizione (pensare, riflettere e avere le idee il più possibile chiare, prima di parlare o di scrivere), indispensabile per le persone intelligenti e prudenti, è per loro, invece, un semplice optional.

Ovviamente di quello che dicono o scrivono queste persone nessuno capisce niente, perché insensato o, nel migliore dei casi, confuso e poco chiaro.

Oppure lo “capiscono” (ma sarebbe più esatto dire: fanno finta di capirlo) solo le persone che sono simili a loro.

Si viene così a creare una “comunità” di ignoranti e incompetenti, per giunta anche narcisi e presuntuosi.

Sia detto per inciso (e in aggiunta) questo non succede solo ai livelli bassi, delle persone “senza titoli”: che ci starebbe pure.

Ma succede pure ai livelli “alti”, delle persone ricche di titoli (specie nelle cosiddette Accademie); e questo non finisce mai di stupirmi.

© Giovanni Lamagna

La comunicazione epistolare ai tempi di Kafka e la comunicazione sui social oggi.

Leggo che Kafka odiava “le lettere, sosteneva che tutta l’infelicità della sua vita proveniva proprio dalla possibilità di scriverle”.

Era convinto che la felicità di intrattenere rapporti epistolari avesse portato “nel mondo uno spaventevole scompiglio delle anime.”

Parlava di contatto tra fantasmi, e non solo col fantasma del destinatario, ma anche col proprio, che si sviluppa tra le mani nella lettera che stiamo scrivendo, o magari in una successione di lettere, dove una conferma l’altra e ad essa può appellarsi per testimonianza.

Si domandava come fosse mai nata l’idea che gli uomini possano mettersi in contatto fra loro in questo strano modo, dal momento che “a una creatura umana distante si può pensare e si può afferrare una creatura umana vicina, tutto il resto sorpassa le forze umane.” (da Fabrizio Coscia; “Soli eravamo”; pag. 206).

Mi chiedo cosa avrebbe pensato (e scritto) Kafka oggi a proposito dei social, ad esempio di facebook.

Dove entrano in contatto persone che in moltissimi casi non si sono mai incontrati fisicamente, manco mezza volta, che il più delle volte non manifestano nessuna voglia di incontrarsi de visu, neppure in futuro, e che pure si scrivono spesso fittamente (elogiandosi, criticandosi, amandosi, innamorandosi, litigando ferocemente…), magari sapendo quasi nulla o ben poco l’uno/a dell’altro/a.

Mi dico e chiedo: se Kafka giudicava che fosse per gli uomini del suo tempo uno strano modo di mettersi in contatto tra di loro quello di scriversi lettere, come avrebbe giudicato quello degli uomini d’oggi di comunicare tra loro attraverso le email o facebook o istantgram o tweet?

© Giovanni Lamagna

Noi e i social.

Sento spesso dire con atteggiamento snobistico: “Io non frequento i social…”; e talvolta con espressione ancora più drastica e severa: “Io schifo i social!”.

Non condivido né l’uno atteggiamento né l’altra espressione.

I social sono null’altro che delle “piazze”, che la moderna tecnologia ci mette a disposizione: piazze virtuali, che si sono aggiunte da qualche anno a quelle reali, da tempo immemorabile luogo abituale di incontro e frequentazione tra persone di vario tipo e livello.

Dire “io non frequento i social” o, addirittura, “io schifo i social” equivale a dire “io non scendo mai per strada e non vado mai in piazza, perché schifo le persone che le frequentano”.

Come se tutte le persone che frequentano strade e piazze fossero lo stesso tipo di persone; mentre non è così.

Nelle strade, nelle piazze, nei bar si incontrano persone che non sanno fare altro che parlare di sport o fare pettegolezzi, le classiche e banali “quattro chiacchiere da bar”.

Ma ci sono e si incontrano anche persone che leggono libri oltre che giornali, che sono attente agli altri ed hanno sviluppato una sensibilità interiore, che sono capaci di una conversazione profonda e stimolante, oltre che educata, persino, gentile e garbata.

La stessa, analoga cosa avviene anche sui social: vi si incontrano persone banali, superficiali, astiose, rabbiose, che spesso insultano ed aggrediscono i loro interlocutori.

Ma vi si incontrano anche belle persone: sensibili, intelligenti, persino colte, che sono disposte ad ascoltare ed imparare e dalle quali è possibile apprendere cose nuove e a volte molto interessanti e stimolanti.

Si possono incontrare persone come il cantante rapper Federico Lucia (in “arte” Fedez) e la sua compagna, l’imprenditrice e blogger Chiara Ferragni, che utilizzano i social, per fare mostra frivola e volgare del loro privato, come si usa fare ne “Il grande fratello”, al puro scopo di promuovere sé stessi ed ottenere, quindi, facile arricchimento.

Ma si possono incontrare anche persone di spessore e grande livello umano e culturale, quali (faccio solo tre nomi) Franco Arminio (poeta), Vito Mancuso (filosofo) e Massimo Recalcati (psicoanalista), dei quali leggo spesso cose interessantissime, a volte addirittura sublimi.

Frequentando i social non ci si condanna, quindi, ad incontrare solo persone cretine e negative; si ha anche la possibilità di incontrare persone positive e intelligenti.

Basta saperle scegliere; proprio come si fa nel mondo delle amicizie reali.

© Giovanni Lamagna

Sul senso religioso della vita.

Ho già sostenuto altre volte la mia ferma convinzione che o come Umanità nel suo complesso (quantomeno, nella sua larga maggioranza) recuperiamo il senso religioso dell’esistere e, quindi, un atteggiamento religioso verso la vita, oppure andremo a sbattere di brutto e ci sfracelleremo, andremo incontro – presto o tardi (a mio avviso, più presto che tardi) – ad una sorta di suicidio collettivo.

Ho altresì già avuto modo di chiarire che, quando parlo di “senso religioso dell’esistere” non mi riferisco tanto (o perlomeno non solo) al sentimento di fede professato dalle religioni classiche e tradizionali, fede cioè nell’esistenza di una Entità metafisica, ultraterrena, e in una seconda vita (questa volta eterna) dopo la morte.

Ma mi riferisco piuttosto a quel sentimento religioso di cui parlava anche Einstein quando affermava: “La religione del futuro, sarà una religione cosmica. Trascenderà il Dio personale e lascerà da parte dogmi e teologia. Abbracciando insieme il naturale e lo spirituale, dovrà essere fondata su un senso religioso che nasce dall’esperienza di tutte le cose, naturali e spirituali, come facenti parte di un’unità intelligente.”

Qui vorrei pertanto meditare su che cosa sia concretamente, in termini del tutto laici e quindi esclusivamente psicologici e per niente teologici, l’esperienza di questo sentimento religioso, a quali atteggiamenti interiori e comportamenti esteriori esso corrisponda, per rintracciare ed evidenziarne le caratteristiche principali.

Prima di iniziare questa riflessione vorrei però chiarire anche una seconda cosa e, subito, in premessa: quando io parlo di senso religioso dell’esistenza, mi riferisco a qualcosa che ha a che fare più con la sfera dei sentimenti che con quella delle idee, più col cuore che con la testa.

In altre parole il sentimento religioso è per me, come tutti i sentimenti del resto, qualcosa di prerazionale o di arazionale, che nulla o ben poco ha a che fare con la ragione.

Credo che la ragione non lo possa contraddire, smentire, delegittimare; non è quindi un sentimento irrazionale o, addirittura, isterico, nevrotico, folle; ma credo che non lo possa manco avvalorare, allo stesso modo di come avvalora, dimostra, in maniera inconfutabile, una scoperta scientifica o, perfino, una “verità” filosofica.

E’ piuttosto (come ho già accennato in precedenza) un’esperienza, che si impone (o non si impone) all’uomo (o, meglio, ad alcuni uomini) con una sua evidenza apriori e non richiede quindi dimostrazioni di tipo razionale.

Può imporsi ben presto, sin dall’infanzia, quando il bambino nasce e cresce in un ambiente caratterizzato da un senso religioso dell’esistere; in questo caso tale sentimento il bambino lo assorbirà molto probabilmente dalla famiglia in cui è nato e cresciuto e dal contesto fisico, sociale e culturale che lo circonda.

O può imporsi ad un certo punto della vita, a causa di circostanze, esperienze e fattori, in genere molto forti, quasi al limite del trauma (anche se qui il trauma è da intendersi in senso positivo), che determinano una metanoia, una conversione, quindi un cambiamento radicale del modo di vedere e di vivere, della persona che ne è oggetto.

Una parola che di solito definisce questa sorta di trauma è quella di “grazia”: l’uomo raggiunto e trasformato da questa esperienza non ne ha nessun merito; comincia a sperimentare il sentimento religioso per una sorta di destino a lui benigno, senza che egli abbia fatto niente o molto poco per meritarlo; quindi per una “grazia ricevuta”.

Ovviamente (sia ben chiaro!) qui, per me, il termine “grazia” non ha e non vuole avere nessuna connotazione miracolistica e soprannaturale; per come la intendo io è una esperienza del tutto umana, terrena, laica; che ad alcuni uomini viene donata, offerta, regalata, e ad altri no (perciò “grazia”); anche se il clima psicologico, ambientale, in cui il soggetto, che ne viene raggiunto, è cresciuto, è stato allevato, certamente la favorisce, la predispone.

E veniamo finalmente al dunque: quali sono allora le caratteristiche essenziali di questo sentimento religioso, attorno alla cui definizione sto girando già da un bel po’ di parole e di frasi, senza averla però ancora articolata e resa chiara, per quanto sia possibile rendere chiara un’esperienza che si può cogliere nella sua essenza solo nella misura in cui la si esperimenta direttamente come singolo, come persona?

Cerco qui di seguito di indicarne alcune in maniera il più possibile chiara e perfino schematica.

1.La prima, anzi la più essenziale, caratteristica è data, a mio avviso, da quello che potremmo definire un sentimento di fiducia di base nella vita.

Quel sentimento che ci porta a pensare e a dire, se non sempre, almeno nella maggior parte delle nostre giornate, che la vita – nonostante tutto, nonostante i suoi dolori (fisici e spirituali), le sue paure, le sue angosce, i suoi fantasmi, che a volte ci assalgono – vale la pena di essere vissuta.

Ciò detto, si potrebbe pensare allora che tale sentimento di fiducia di base possa essere sperimentato e vissuto solo da coloro che la fortuna ha voluto godessero di una buona salute fisica e di una situazione esistenziale esteriore tutto sommato agiata, favorevole, in grado di soddisfare almeno i loro principali bisogni, quelli primari: il cibo, una casa, un lavoro, degli affetti, una buona salute fisica…

Ma l’osservazione, anche superficiale, dell’umanità che ci circonda ci dice invece che una tale supposizione non è del tutto vera; perché ci sono persone che nascono con malattie congenite, anche gravi, oppure si ammalano seriamente ad un certo punto della loro vita, persone che vivono in situazioni logistiche e materiali difficili, a volte estremamente precarie, ai limiti della sopravvivenza, e che però hanno voglia e desiderio di vivere, hanno una innata fiducia nella vita.

Mentre ce ne sono altre, alle quali apparentemente non è mancato e non manca nulla o, perlomeno, non sono mancate e non mancano le cose principali, e che però, al contrario delle prime, in teoria meno fortunate, non godono dello stesso desiderio e della stessa gioia di vivere; sono afflitte in altre parole da una sfiducia più o meno grave nell’esistenza, soffrono del male di vivere, non vedono luce nella loro vita, vivono in uno stato di fondamentale cupezza e depressione interiore.

Questo premesso, le prime sono per me persone predisposte a vivere il senso religioso dell’esistenza e spesso lo sperimentano come se fosse una condizione naturale, ovvia, scontata; le seconde no, non sanno manco dove stia di casa; anzi si meravigliano, stupiscono che altri possano viverlo e, perciò, molto spesso li irridono, quasi fossero vittime di un atteggiamento superficiale, irrazionale, alienante, illusorio, infantile, in altre parole nevrotico (Freud, ad esempio, fu una di queste persone).

2. La seconda, fondamentale, caratteristica di quello che io definisco “il senso religioso dell’esistenza” è data dall’atteggiamento di cura, potremmo anche dire di custodia, del sentimento di fiducia di base nella vita.

Questo sentimento, infatti, non è qualcosa che si può dare come scontato “vita natural durante”, una volta che lo si è sperimentato.

Una persona può nascere e vivere i suoi primi anni di presenza nel mondo con questo sentimento e poi perderlo ad un certo punto della sua vita; perderlo come, appunto, si perde (o si può perdere) la fede, quella che comunemente chiamiamo “fede in Dio” e che io invece chiamo molto più semplicemente e laicamente “sentimento di fiducia di base nella vita”.

E’ un sentimento, che, come ho già detto, viene ricevuto per grazia, quindi senza alcun merito, ma che va però curato, coltivato, perché esso si mantenga vigoroso e vitale, anche in mezzo alle prove a cui inevitabilmente il cammino della nostra esistenza ci sottoporrà.

Altrimenti è destinato a perdersi, ad essere smarrito.

E come va custodito? Con un atteggiamento di raccoglimento interiore, che accompagnerà tutte le nostre azioni e i nostri movimenti nel mondo.

Lo stesso, immagino, che caratterizzò Maria, la madre di Gesù, a partire dal messaggio dell’angelo che le annunciò la prossima nascita del figlio: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Vangelo di Luca; 1, 38).

Quello stesso atteggiamento che la caratterizzerà dopo la visita dei pastori alla mangiatoia, nella quale Gesù era nato, che, esultanti, “riferirono ciò che del bambino era stato detto loro” (Vangelo di Luca; 2, 17): “ed ella custodiva tutte queste cose, meditandole in cuor suo” (Vangelo di Luca; 2, 19).

Infatti, per vivere, sperimentare, il senso religioso della vita, non basta averlo ricevuto in dono, come grazia e senza alcun merito, ad un certo punto della propria esistenza, ma bisogna essere capaci, in seguito, dopo il momento di illuminazione iniziale, di averne cura, di mantenerlo in essere e anzi, possibilmente, farlo crescere.

Altrimenti esso è destinato gradualmente a spegnersi, rifluire, e, infine, fatalmente morire.

3. A questo punto occorre allora chiedersi: quali sono le condizioni per non disperdere questo sentimento, che ad un certo punto, lo ripeto: per grazia ricevuta, ci ha raggiunto?

La prima è quella di mantenersi in contatto con la voce interiore cha ha cominciato a parlarci, quando questo sentimento ci si è manifestato la prima volta.

In ciascuno di noi, infatti, esiste un Altro da sé, quello che qualcuno ha chiamato “il vero Sé”, una sorta di Maestro interiore, che è in grado, se ci mettiamo nella disposizione giusta, che è quella dell’ascolto, di indicarci la strada da seguire, quella più adatta alle nostre inclinazioni e alla nostra natura, quella che ci permetterà di realizzare, se la seguiremo, le nostre potenzialità, cioè i talenti di cui Madre Natura ci ha dotato.

Spesso noi manco sappiamo dell’esistenza di questa Realtà interiore, presi come siamo dal tran tran quotidiano, dal chiasso che ci circonda, dalla folla alla quale tendiamo nella maggior parte dei casi a conformarci, come fanno le pecore col loro gregge.

Se però abbiamo la fortuna di venirci in contatto e impariamo ad ascoltarne la voce, dapprima molto fioca e sottile, poi un poco alla volta sempre più chiara e distinta, capiamo, ci rendiamo conto di aver ricevuto un’enorme grazia e allora ci impegneremo a non mollarla più, a seguirne sempre più fedelmente i consigli e la guida.

4. La seconda condizione è molto legata alla prima, anzi ne è la premessa; è quella di imparare ad apprezzare il silenzio e la solitudine, almeno in alcuni momenti della nostra vita, e dedicare ad essi con costanza una sorta di rituali quotidiani, isolandoci dalla folla e dal chiasso, che di solito, almeno oggi, circonda la nostra vita.

Chi ha paura della solitudine e del silenzio, chi è incapace di sottrarsi ai rumori e a volte al vero proprio frastuono delle relazioni, dei mass media, dei contatti sui social, ben difficilmente riuscirà a mantenersi in contatto con la voce interiore – quand’anche ad un certo momento, si fosse da lui fatta sentire – e di coltivare, quindi, il senso religioso del vivere.

5. Ovviamente la pratica religiosa (anche se intesa nel senso che sto qui descrivendo) non è fatta solo di contemplazione, ovverossia di contatto e relazione col proprio mondo interiore; per quanto questa ne sia la condizione basica.

La pratica religiosa richiede, infatti, scelte e modi di agire, che comporteranno uno stile di vita, anche esteriore, che sia conseguente, coerente col proprio vissuto interiore.

Richiede una vera e propria “metanoia”, cioè la conversione ad un modo di vivere completamente diverso da quello che caratterizza la gran parte degli uomini che questo senso religioso del vivere non ce l’hanno.

Richiede la scelta di valori morali e sociali radicalmente alternativi a quelli comuni e normalmente diffusi.

6. Quali?

Innanzitutto un distacco dai beni materiali.

Non nel senso (come una certa – per me cattiva – ascesi tende a consigliare) della rinuncia radicale a tutti i beni materiali, di qualsiasi natura essi siano, in favore di una povertà assoluta.

Ma nel senso di una pratica della sobrietà, cioè del non attaccamento ai beni materiali e, soprattutto, della non avidità nella loro conquista e possesso.

La sobrietà, in altre parole, come il punto di giusto equilibrio tra la rinuncia assoluta ai beni in favore della povertà e l’avidità smodata dei beni in cerca della ricchezza.

L’uomo religioso per definizione non ambisce alla ricchezza, anche se non per questo ama o predilige la povertà.

L’uomo religioso vive una vita materiale in condizioni di sobrietà.

7. La pratica religiosa richiede altresì un certo distacco non solo dai beni materiali, ma anche dagli affetti e dalle passioni.

Non certo nel senso della rinuncia a sperimentare i sentimenti della fraternità, dell’amicizia e dell’amore erotico.

Ma nel senso di non farsi da essi dominare e travolgere in nome della brama di possesso, che genera fatalmente gelosie e invidie, sentimenti oltremodo tossici e ben poco spirituali.

L’uomo religioso è per me colui che è in grado di sperimentare pienamente e caldamente tutta la gamma dei sentimenti umani verso i suoi simili, ma non si attacca alle persone e non mira a che esse si attacchino a lui.

E’ in grado in altre parole di sperimentare la singolarità e allo stesso tempo l’universalità dei rapporti con gli altri suoi simili; senza farsene ingabbiare e monopolizzare; ma allo stesso tempo in maniera calda e profonda.

8. La pratica religiosa richiede, infine, la rinuncia alla propria volontà egoica ed egocentrica, intesa come puro arbitrio e assoluta libertà di scelta, al di fuori di ogni limite e confine.

Nel senso reso bene da alcune affermazioni bibliche, che, ben interpretate, possono essere recepite anche da uno come me che intende dare al “sentimento religioso” una valenza del tutto laica e umanistica.

Ne cito solo due: “… sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.” (Vangelo di Giovanni; 6, 38); e “… non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me.” (Paolo; Lettera ai Galati; 2, 20)

Beninteso questa decentramento della propria volontà non comporterà che l’uomo religioso si faccia schiavo di qualcuno o di qualcosa; richiederà però la consapevolezza profonda che egli non è la misura di tutte le cose e l’obbligo a rispondere e ad obbedire alla voce interiore, che ad un certo punto della sua vita lo ha raggiunto e che gli indicherà e illuminerà, momento per momento, la via da seguire.

9. In altre parole lo stile di vita dell’homo religiosus – anche nel senso del tutto laico (e spero sufficientemente chiaro) che qui ho inteso dargli – sarà caratterizzato da un senso di profonda umiltà, dedizione e devozione.

Umiltà nel senso di consapevolezza di non essere lui l’autore e il padrone del proprio destino, ma di esserne solo strumento o, tutt’al più, coautore.

Dedizione ai valori della fiducia, della speranza nel futuro (di cui si sentirà responsabile costruttore in prima persona) e dell’amore fraterno e universale.

Devozione alla chiamata e alla guida interiore costituite dal Maestro spirituale che lo abita e che abita ognuno di noi, anche se e quando non ne siamo consapevoli.

© Giovanni Lamagna

Social e incontri.

Gli attuali social sono le piazze moderne o – qualcuno potrebbe dire – postmoderne.

Certamente paragonabili all’agorà o al foro dove gli antichi Greci e Romani si incontravano per fare la spesa, chiacchierare, conversare, parlare di politica, talvolta persino filosofare.

Agli attuali social manca però, indubbiamente, il calore umano dell’incontro reale, fisico e non solo virtuale.

Sono già l’inizio del post-umano?

© Giovanni Lamagna

De amicitia

Epicuro così scriveva a proposito dell’amicizia: “Di tutte le cose che la saggezza procura per ottenere un’esistenza felice, la più grande è l’amicizia.

Su questa affermazione concordo pienamente.

Non a caso anche la saggezza popolare è arrivata a coniare un adagio che dice più o meno la stessa cosa di Epicuro: “chi trova un amico trova un tesoro”.

Ma in cosa consiste questa particolare forma di relazione che siamo soliti chiamare “amicizia”? In cosa si distingue da altre forme di relazione?

Per rispondere a queste domande ci può aiutare il ricorso alla lingua greca (non a caso la lingua di Epicuro) e l’analisi etimologica della parola che in greco traduce il termine “amicizia”.

La parola greca è “philia”. Che deriva dal verbo “philein”, che vuol dire “volere bene, amare”.

L’amicizia, dunque, per gli antichi Greci, aveva a che fare con l’amore, anzi era amore.

Ed anche per me l’amicizia o è amore o semplicemente non è.

E’ una forma di relazione che può arrivare a coinvolgere perfino la dimensione sessuale; nel qual caso si definisce, con un’espressione oggi alquanto in voga, “amicizia erotica”.

In questo caso, soprattutto in questo caso, cosa distingue allora l’amicizia (la relazione che solitamente definiamo così) dall’amore (la relazione che solitamente definiamo così)?

La distingue una sola caratteristica.

L’amicizia tutti danno per scontato che sia un tipo di relazione poligama: nessuno/a si sognerebbe di chiedere all’amico/a l’esclusività del rapporto (anche se non mancano – a dire il vero – forme di esclusività e di gelosia, a volte anche molto forti e violente, pure nei rapporti di amicizia).

L’amore, invece, per la grandissima maggioranza delle persone è e deve essere un legame di natura monogama.

Anche se poi in molti rapporti di amore la fedeltà monogamica è di fatto tradita, essa viene però, comunque, teorizzata, perfino da quegli stessi che poi nei fatti la tradiscono.

Pure se stanno venendo sempre più allo scoperto persone che teorizzano (e, a volte, praticano) il cosiddetto poli-amore, cioè una forma di relazione amorosa non monogamica, ma esplicitamente, apertamente, dichiaratamente poligama: un tipo di relazione quindi molto simile alle amicizie erotiche.

Fatte queste distinzioni tipologiche e non solo terminologiche, che hanno a che fare più con la storia e con la sociologia delle relazioni che con la loro psicologia, cosa invece caratterizza nel profondo la relazione che siamo soliti definire come amicizia?

Non è certamente un amore indistinto, indifferenziato, universale, come è quello che già gli antichi Greci definivano col termine “agape”.

L’amore-agape nasce da una scelta etica, potremmo anche dire ideologica, ma sarebbe meglio definire filosofica ed esistenziale, spesso religiosa, in base alla quale si considerano tutti gli uomini (a prescindere dalle loro caratteristiche individuali, quindi perfino quelli che ci vogliono male, perfino quelli che ci sono nemici) come nostri fratelli.

L’amore-agape è quindi un amore unidirezionale che si prova e si manifesta a prescindere dalla risposta di colui/colei a cui è rivolto: può anche non essere corrisposto, anzi può essere addirittura respinto, può trovare perfino una reazione opposta (di odio), eppure esso sussiste, continua a sussistere.

Appunto perché non è motivato dalle caratteristiche e dalle reazioni di colui/colei a cui si rivolge, ma affonda le sue radici in una motivazione del tutto personale, interiore e spirituale.

L’amicizia ha, invece, con piena evidenza e secondo il senso comune, tutt’altre caratteristiche: in altre parole non si può essere amici di tutti indistintamente; si può essere amici solo di determinate persone, con certe determinate caratteristiche e non altre.

Da questo punto di vista l’amore di amicizia non è e non può essere una forma di amore totalmente disinteressato, come molti propendono a pensare e come lo è invece l’amore di fratellanza universale, cioè l’agape.

Anzi, potremmo dire, l’amicizia si fonda proprio sull’interesse reciproco a vivere questa relazione. Non un interesse di tipo materiale, economico, ovviamente. Ma un interesse di tipo psicologico, certamente.

L’amicizia si fonda, dunque, sull’interesse o, meglio, sul piacere condiviso (espressione sulla quale Epicuro avrebbe senz’altro concordato) dello stare assieme: piacere spirituale in senso lato (che in certi casi è principalmente intellettuale, in altri prevalentemente emozionale, in altri ancora soprattutto sentimentale), ma a volte è perfino di natura fisica e sessuale.

Più questi piaceri sono profondi, grandi e intensi, più sono sommati e intrecciati tra di loro, più l’amicizia è ovviamente grande ed importante.

Credo che appaia a tutti chiaro, a questo punto, come l’amicizia, la vera amicizia, manco lontanamente possa essere identificata con la semplice conoscenza tra due persone; e manco con la loro pura e semplice frequentazione, dettata dalle circostanze o dal caso.

L’amicizia nasce e si sviluppa tra due persone per una loro precisa e consapevole volontà e scelta, figlie di un’attrazione e di un desiderio reciproci.

Meno che mai si può definire “vera amicizia” quella che a volte con un po’ di superficialità concediamo e riceviamo sui social e che non a caso si definisce “virtuale”.

Anche se non è da escludere che anche l’incontro sui social possa – almeno in certi casi – costituire l’occasione, lo spunto, l’avvio per costruire una vera e propria amicizia, non solo virtuale, ma ben concreta e reale.

© Giovanni Lamagna

Rapporti virtuali e rapporti reali

Io non avrei difficoltà a trasformare i rapporti “virtuali”, quelli che nascono e si intrattengono sui social, in rapporti reali, vis a vis, in carne ed ossa.

Almeno laddove ciò fosse reso possibile dalla vicinanza spaziale, territoriale.

Ma constato che c’è, invece, una resistenza diffusa, una specie di blocco psicologico (di cui non so spiegarmi bene le ragioni) a far sì che questo avvenga.

© Giovanni Lamagna

Amicizia virtuale ed amicizia reale

Non penso che un’amicizia “virtuale” (quella che si realizza, per intenderci, sui social) sia simile (o anche solo paragonabile) a quella di un’amicizia “in carne e ossa”.

Penso, però, che un’amicizia “virtuale” possa ritenersi comunque un’amicizia reale e non puramente immaginata.

Penso, dunque, che anche un’amicizia solamente “virtuale” possa produrre alcuni frutti positivi tipici dell’amicizia.

Se poi da amicizia inizialmente solo “virtuale” si trasforma, ad un certo punto, in amicizia anche “in carne ed ossa”, è il massimo.

© Giovanni Lamagna

Fantasie e fantasticherie.

Fantasie e fantasticherie.

Anche se hanno la stessa radice, le due parole hanno significati molto, profondamente diversi.

Entrambe hanno un contenuto intellettuale, tanto è vero che potremmo definirle anche delle idee.

Sono, tuttavia, idee dal forte sostrato emozionale-sentimentale: entrambe, infatti, sono idee impregnate di desiderio.

Nessuna fantasia (e meno che mai una fantasticheria) potrebbe nascere senza avere un desidero alle spalle, che la generi, che la muova, che la motivi.

Sia la fantasia che la fantasticheria nascono, quindi, da una mancanza, da un’insoddisfazione di ciò che abbiamo o di ciò che siamo, della realtà che ci circonda.

E, però, le fantasie sono idee che hanno una base realistica, un contatto con la realtà.

Con la fantasia immaginiamo (e allo stesso tempo desideriamo) ciò che non c’è o che non c’è ancora, ma che potrebbe esserci (realisticamente) in un futuro prossimo, se ci daremo da fare, se ci adopereremo perché l’idea si realizzi.

Le fantasie, quindi, hanno a che fare con i progetti, sono alla base dei progetti, a volte stanno addirittura dietro alle scoperte scientifiche o alle invenzioni tecnologiche.

I fratelli Wright non avrebbero potuto inventare il prototipo dell’aereo se non avessero prima coltivato il sogno, la fantasia di volare.

Le fantasie svolgono, dunque, un ruolo grandemente positivo nella vita psichica di noi umani e potrei dire anche nella storia dell’Umanità.

Senza di esse la vita del singolo uomo e quella dell’Umanità resterebbero (sarebbero rimaste) ferme, appiattite in un unico istante presente, non ci sarebbe (stata) evoluzione, non ci sarebbe (stato) progresso.

In questo senso le fantasie hanno in qualche modo a che fare con le buone e sane utopie.

Che non sono (come si potrebbe credere) luoghi inesistenti, ma luoghi che stanno altrove o che, in questo momento storico, non stanno qui, dove ci troviamo noi.

Ma che noi potremo raggiungere, visitare, esplorare, farli diventare addirittura nostra patria, se ci metteremo in cammino e non ci lasceremo vincere dalla paura o dalla pigrizia.

Altra cosa sono le fantasticherie.

Le fantasticherie sono fantasie vuote, che non hanno nessun rapporto con la realtà.

Chi vive le fantasticherie si astrae dalla realtà, non ha nessun volontà concreta, seria di realizzare ciò che vive nella sua immaginazione.

Vive indubbiamente un desiderio, altrimenti nessuna fantasticheria avrebbe in lui origine.

Ma vive un desiderio già frustrato, condannato in partenza.

Chi vive una fantasticheria ha paura che il desiderio da lui/lei provato si realizzi poi nella realtà.

Si accontenta di viverlo ad un livello virtuale.

Penso adesso al desiderio di socializzazione che provano molti di quelli che oggi frequentano la rete, i social.

Spesso, in molti casi la volontà, il desiderio di socializzare sono, appunto, fantasticherie, cioè desideri immaginati, pensati, più che realmente e seriamente perseguiti.

Le fantasticherie sono, dunque, fantasie impotenti. Incapaci di produrre progetti. Anzi terrorizzate dall’idea che esse possano tradursi in fatti reali.

Hanno ben poco a che fare con le stesse utopie.

Queste sono luoghi dell’altrove.

Le fantasticherie immaginano invece luoghi semplicemente inesistenti.

Chi vive di fantasticherie non realizza nessun cambiamento, nessun avanzamento, nessuna crescita ed evoluzione nella sua vita.

S’aggira sempre attorno allo stesso orticello, chiuso in una prigione, ripiegato su se stesso.

Le fantasie sono segno di sana vitalità spirituale, di ricerca, di creatività.

Le fantasticherie sono, invece, un sintomo di debolezza della psiche.

Se prendono piede eccessivamente nella nostra vita, possono addirittura diventare causa di una vera e propria malattia dello spirito.

Spesso chi vive di fantasticherie è incapace di coltivare fantasie.

Come chi ribolle di fantasie aborre, disprezza le fantasticherie.

Giovanni Lamagna