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Quando la nostra rabbia ha radici lontane, molto lontane.

Quando stiamo male, spesso proviamo rabbia; e la prima cosa che facciamo è quella di prendercela con gli altri, di indirizzare la nostra rabbia contro gli altri.

In primis con quelli che abbiamo a tiro, che ci stanno più vicini.

Come se fosse (solo e in primis) colpa degli altri se stiamo male; e se, perciò, siamo arrabbiati; come se essi fossero la “causa prima” del nostro malessere.

Mentre in realtà non è così, non è oggettivamente così.

In realtà – se volessimo essere del tutto sinceri e radicalmente onesti – noi ce la dovremmo prendere (anche, anzi soprattutto) con noi stessi.

Perché nessuno ci impone di stare con le persone che abbiamo d’attorno.

Se ci stiamo, evidentemente è perché ne traiamo delle convenienze.

Solo che la rabbia ci annebbia la vista e ci fa vedere, invece, solo le cose negative e non anche quelle positive, che – nonostante tutto – ci fanno preferire la compagnia di alcuni a quella di altri e, a maggior ragione, alla totale solitudine.

Quando siamo arrabbiati dovremmo prendercela innanzitutto con noi stessi, che ci siamo infilati e messi in certe situazioni.

Comprese quelle che ci hanno portato ad avere rapporti (in certi casi, addirittura convivere) con le persone verso cui proviamo rabbia.

Tutt’al più, dunque, dovremmo prendercela con il nostro passato (specie con quello legato alla nostra infanzia) che ci ha reso così come siamo (per una grandissima percentuale) e ci ha portato pertanto a fare (spesso) scelte sbagliate, a stare con le persone e nei posti sbagliati, quelle a cui poi oggi (spesso) attribuiamo le ragioni della nostra rabbia.

Ma – anche qui – che senso ha prendersela con il passato, addirittura con le nostre radici, con la nostra infanzia?

Di questo passo dovremmo risalire addirittura ad Adamo ed Eva per trovare le cause e le origini del nostro malessere e, quindi, della nostra insofferenza.

Anche qui, forse, la cosa più conveniente (e saggia: sempre che ci teniamo a diventare minimamente saggi) è accettare il passato che ci trasciniamo appresso e, non dico farci pace, ma quantomeno imparare a conviverci.

Tanto quel passato 1) non lo possiamo più modificare e 2) non ne siamo noi i responsabili.

Nessun bambino è responsabile delle condizioni e dell’ambiente in cui è nato e cresciuto; del dolore vissuto e, quindi, della rabbia e, in certi casi, persino del rancore, accumulati negli anni della sua infanzia.

In conclusione: forse, questa presa di coscienza ci aiuterà (potrebbe aiutarci) a diventare un po’ più tolleranti e misericordiosi con noi stessi.

Ad essere meno arrabbiati con noi stessi; e, indirettamente, di conseguenza, anche con gli altri.

Specialmente con quelli che abbiamo maggiormente a tiro, coi quali spesso conviviamo, verso i quali nutriamo rancore per come sono e per come si comportano.

Non è cosa facile, sicuramente; di certo è più facile a dirsi che a farsi.

Ma che alternative abbiamo?

Tanto vale – quantomeno – provarci.

© Giovanni Lamagna

Compagnia.

Solo in pochi, anzi in rari casi la compagnia costituisce un profondo, durevole piacere, una gioia; quelli che è capace di donare solo la vera amicizia.

In genere costituisce una cura palliativa, che lenisce, appena per un po’ e ad un livello superficiale, il dolore della nostra solitudine fondamentale.

© Giovanni Lamagna

Solitudine,isolamento, compagnia.

Io sto bene da solo; anzi, in certi momenti, preferisco più stare da solo che in compagnia.

Ma non sono certo contento quando la solitudine diventa troppo prolungata.

Quando cioè la solitudine corre il rischio di trasformarsi in isolamento, che è altra cosa dalla solitudine.

La solitudine, infatti, si sceglie; l’isolamento si subisce.

Dopo un po’ che sono stato da solo (e, magari, ci sono stato pure bene) è inevitabile che anch’io cerchi compagnia.

Naturalmente una buona compagnia, non una qualsiasi compagnia.

Morale della “favola” (almeno per me): la solitudine fa bene entro certi limiti, fa male quando supera certi limiti.

Ovviamente i limiti di cui parlo qui sono del tutto soggettivi.

© Giovanni Lamagna

Solitudine.

La solitudine, quando diventa eccessivamente prolungata, credo non faccia bene a nessuno.

Immalinconisce, rattrista, amareggia, ci costringe a ripiegare su noi stessi, ci rende cupi ed ombrosi.

Specie quando non è accompagnata ad un buon rapporto con sé stessi.

Ecco che allora siamo portati ad accontentarci di qualsiasi compagnia, pur di non rimanere soli.

© Giovanni Lamagna

Solitudine e compagnia. (2)

Quando siamo soli da troppo tempo, non andiamo più tanto per il sottile: siamo capaci di accontentarci di qualsiasi compagnia.

Un po’ come chi non mangia e non beve da molte ore: non sta certo a sottilizzare su quello che trova da mangiare e da bere.

© Giovanni Lamagna

Solitudine e compagnia.

Bisogna imparare a stare bene pure da soli.

Anche se “per l’uomo non è bene stare solo” (Genesi 2, 18).

In compagnia si sta indubbiamente meglio che da soli.

Perlomeno quando la compagnia è buona.

Perché, al contrario, quando la compagnia non è buona, per me vale il vecchio detto: meglio soli che male accompagnati.

© Giovanni Lamagna

Farsi compagnia.

La compagnia è un’ottima cosa.

Soprattutto quando – come consiglia Seneca – è alternata a momenti di solitudine.

Questa, infatti, oltre certi limiti, non è sopportabile, se non dai misantropi, e non fa bene allo spirito; è – possiamo dirlo – una brutta bestia.

“Il farsi compagnia” all’interno di una coppia, quando è tramontata la passione, con i doveri e gli impegni di solidarietà reciproca che questo comporta, è, in fondo, pur sempre una forma di amore reciproco.

Soprattutto quando la cosa è vissuta con consapevolezza e come decisione condivisa.

Ma non è certo l’amore erotico; non ha più niente a che fare con l’amore erotico, che aveva caratterizzato magari la prima fase della relazione di coppia.

E, forse, non è manco l’amicizia, una vera amicizia.

Perché anche l’amicizia, perlomeno la vera amicizia, non è fatta di routine, come lo è quasi sempre il semplice “farsi compagnia”, ma è uno scoprirsi e uno scoprire continui.

© Giovanni Lamagna

Compagnia e solitudine.

“Non è bene che l’uomo sia solo…” dice il Signore Dio in Genesi 2,18

Ed è vero, concordo: gli uomini soli (come le donne sole, del resto) sono tristi e fanno tristezza.

Ma, c’è un ma.

Non ogni compagnia fa bene.

Ci sono compagnie che fanno male o fanno altrettanta tristezza che la solitudine.

Non a caso un vecchio adagio recita: “Meglio soli che male accompagnati”.

© Giovanni Lamagna

Innamoramento e complicità.

Quando ci si innamora, forse, il primo sentimento che si sperimenta è quello della complicità.

Si ha la sensazione di aver trovato una persona che finalmente potrà farci compagnia, rompere, infrangere, la solitudine fondamentale che avvolgeva prima la nostra vita.

Con la quale poter discorrere, confrontando le rispettive visioni del mondo, tra le quali si è scoperta affinità.

Una luce, a volte abbagliante, altre volte semplicemente confortante, si accende nel buio della nostra stanza.

Poi magari col tempo questa luce si fa fioca o addirittura si spegne del tutto.

Ma, quando ci si innamora, sono queste le sensazioni (molte volte del tutto illusorie) che si provano.

© Giovanni Lamagna

Perché scriviamo (3)

Quando scriviamo viviamo una speranza (spesso solo illusoria, purtroppo!): che qualcuno ci leggerà.

È questo un modo per vincere, anche se per poco, anche se in maniera effimera, la solitudine.

Inoltre, quando scriviamo, parliamo con noi stessi, quindi ci facciamo compagnia.

Ed anche questo è un modo per lenire (quantomeno lenire) il sentimento di solitudine fondamentale che ci affligge.

© Giovanni Lamagna