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Nonviolenza o autodistruzione.
E’ venuto il tempo, io dico, di concepire e provare a realizzare un nuovo ordine internazionale: fondato sulla pace e sulla nonviolenza.
Finora nella storia, quando scoppiavano delle controversie che non si riuscivano a risolvere in modo pacifico e non violento, la strada obbligata, dai più ritenuta perfino scontata e naturale, era la guerra.
“La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è, dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi.”
Con queste parole, famosissime, il generale prussiano Carl von Clausewitz esprimeva, quasi due secoli fa, non solo un sentimento ma anche un’idea, un concetto, un’ideologia diffusissimi, accettati dal senso comune come ovvii, indiscutibili, del tutto scontati.
Persino la morale della Chiesa cattolica, che pure si rifà (o dovrebbe rifarsi) all’insegnamento indubitabilmente pacifista e non violento di Cristo, è giunta a teorizzare e ritenere legittima la guerra in determinate situazioni, almeno in quelle configurabili nella forma della legittima difesa.
Tanto è vero che in questi giorni perfino un vescovo e un teologo molto noto e illuminato come Bruno Forte, citando la dottrina cattolica, è arrivato a giustificare l’invio delle armi in Ucraina, a sostegno della resistenza di un popolo attaccato da un’altra nazione, quella russa, e a criticare un certo pacifismo che ha definito “ingenuo”; come a dire: in certe situazioni il ricorso alle armi è inevitabile.
Io, invece, dico, che siamo giunti ad un punto, ad un tornante, della Storia in cui bisogna mettere in discussione quello che finora è apparso come assiomatico, pensiero comune, scontato, senza alternative, perfino naturale, quindi giuridicamente legittimo.
E’ venuto il tempo di dire che all’uso della forza (o, meglio, della violenza e, quindi, delle armi) si può, anzi si deve (o, perlomeno, si dovrebbe), rispondere senza fare ricorso alle stesse modalità e agli stessi strumenti di morte; che alla violenza si può, si deve, si dovrebbe, rispondere con la nonviolenza.
Lo richiede il tempo storico nel quale viviamo, io direi la stessa realpolitik e non solo la morale o una certa concezione ideale della vita e dei rapporti tra gli uomini.
Oggi iniziare una guerra (ne è un esempio quella ora in corso in Ucraina) può innescare una tale escalation militare da sfociare, prima o poi e inevitabilmente, in un conflitto planetario e, a quel punto, nucleare; il cui esito molto probabile sarebbe l’autodistruzione dell’Umanità.
Oggi l’uso delle armi, anche solo quello delle armi convenzionali, è talmente devastante, sia in termini di feriti e morti che di distruzioni di edifici e strutture economiche, da porre legittimamente la domanda: vale davvero la pena difendersi con le armi da un attacco straniero?
Conosco già e molto bene l’obiezione che di solito viene fatta ad un tale ragionamento da coloro che non concepiscono altra risposta alla violenza armata che il ricorso all’uso delle armi: “ma allora, voi pacifisti, volete, state in pratica chiedendo, la resa dell’Ucraina all’invasione russa?”.
E’ questa un’obiezione senz’altro fondata e del tutto legittima; certo, se ad un attacco violento, noi reagissimo in maniera inerte, semplicemente alzando le mani in atto di resa, avrebbero del tutto ragione i critici della posizione pacifista e nonviolenta!
Il punto è che i pacifisti e nonviolenti non pensano affatto che l’alternativa alla risposta militare ad un attacco militare sia (solo) la resa incondizionata all’avversario; pensano che un’alternativa possibile, praticabile, sia un altro modo di resistere e, quindi, di realizzare il conflitto (sì, il conflitto: non esito ad usare questo termine) con l’esercito invasore.
Sia, ad esempio e innanzitutto, la non collaborazione civile con le nuove autorità che verrebbero ad insediarsi al potere, la disobbedienza civile diffusa e di massa.
In secondo luogo, la ricerca e l’instaurazione di alleanze negli organismi internazionali deputati a risolvere le controversie tra popoli e nazioni, per isolare e sanzionare con metodi non violenti la nazione attaccante.
In terzo luogo la risposta mite, perfino gentile, ma ferma, non pavida, alla brutalità e violenza dei militari invasori, in modo da mettere continuamente a confronto umanità e disumanità e suscitare nei violenti sentimenti di vergogna e possibilmente di pentimento e cambiamento.
So benissimo che tali modalità e strumenti alternativi di praticare il conflitto non sono di facile uso, che richiedono un’educazione ed una preparazione lunga, difficile e delicata; e, soprattutto, che di primo acchito appaiono ai più del tutto ingenui e completamente inefficaci, quindi improponibili.
La riflessione che il pacifista oppone a tale reazione istintiva e immediata è però: a quali risultati porta invece la risposta militare ad un intervento armato (ovviamente il pacifista non prende manco in considerazione l’intervento armato di attacco)?
E’ effettivamente più efficace la resistenza armata rispetto a quella non armata?
Forse fino ad ottanta anni fa questo si poteva ancora sostenere; nessuno può negare, neanche il più strenuo dei pacifisti nonviolenti, che la resistenza armata al nazifascismo ha impedito che questo mostro ideologico, politico e militare prendesse il sopravvento e affermasse il suo dominio nel mondo.
Ma oggi si può ancora dire lo stesso? Si può ancora affermare che la resistenza armata sia la risposta giusta, anzi l’unica adeguata e proporzionata ad un attacco militare; anche col rischio di un’escalation mondiale e quindi nucleare del conflitto?
Io credo di no.
Per questo penso che ci troviamo oggi in una fase completamente nuova della Storia, che ci costringe a cambiare radicalmente i nostri paradigmi culturali; una fase in cui l’Umanità deve decidere del suo destino, non del suo futuro remoto, ma di quello prossimo: vuole continuare a vivere e a evolvere, progredire; o vuole sprofondare nell’incubo dell’autodistruzione?
Questa domanda non ha a che fare solo con la morale e con l’ideologia (come molti ancora oggi credono ed affermano); ha a che fare con il senso della realtà, anche se, purtroppo, una realtà che a molti ancora sfugge; è una domanda che ha a che fare con la realpolitik e non più con l’utopia.
Allo stesso modo di come (e non è un caso che i due problemi si pongano nello stesso momento, nella stessa fase storica) l’Umanità è chiamata a decidere oggi, consapevolmente, del futuro dell’ambiente, dell’ecosistema, in cui vive.
Con il tipo di sviluppo economico che da secoli (soprattutto negli ultimi due secoli) gli uomini si sono dati, il loro futuro è segnato da una prospettiva di oramai neanche tanto lenta autodistruzione.
O l’Umanità, quindi, nel giro non di secoli ma di pochi anni, sarà capace di modificare, anzi invertire il modello di sviluppo (specie quello economico) che finora ne ha caratterizzato la storia, oppure il suo destino è segnato, già deciso: nel giro di qualche generazione essa scomparirà dalla faccia di questo pianeta.
Non so quanti riescono ad avere consapevolezza della fase storica assolutamente nuova, inedita, nella quale ci troviamo.
So solo che chi ha raggiunto questa consapevolezza ha il dovere morale e il compito storico di segnalarlo ai suoi simili; saranno poi essi a decidere del loro destino; che per me non è affatto scontato; o, meglio, a giudicare dai segnali prevalenti che vedo in giro è un destino niente affatto roseo e positivo.
La ragione, che guarda freddamente i dati di realtà, mi rende anzi piuttosto pessimista; e mi ha colpito molto che perfino il capo della Chiesa cattolica, un uomo illuminato dalla fede e quindi piuttosto propenso verso la speranza, si sia autodefinito in una recente e importante intervista con lo stesso termine.
Anche se, come ci invitava a fare un illustre pensatore italiano, non voglio che al pessimismo della ragione segua, si unisca anche quello della volontà; perché come ci insegna un vecchio adagio “finché c’è vita c’è speranza”; ed io voglio (ancora) crederci, se non altro per il bene che voglio e auguro a mia figlia e ai miei nipoti.
© Giovanni Lamagna
A proposito di pentiti
Chi può dirsi realmente pentito di un reato giudiziario o anche solo di un’azione moralmente spregevole da lui commessa?
Non – di certo – chi semplicemente li ammette, li confessa.
La semplice confessione di un’azione colpevole non basta a dimostrare la reale contrizione di chi l’ha commessa.
Può dirsi realmente pentito di un’azione spregevole confessata solo chi dimostra un’afflizione profonda, sincera, non ipocrita, non esteriore, non superficiale.
Non solo; ma anche per un tempo sufficientemente esteso, prolungato, adeguatamente proporzionato all’entità dell’azione spregevole commessa.
E, soprattutto, dimostra un cambiamento profondo, radicale, di vita, cioè un comportamento, anzi uno stile di vita opposto a quello di cui si era reso colpevole.
La semplice ammissione, fosse anche spontanea, di un’azione colpevole non basta a dimostrare il reale pentimento di chi l’ha commessa.
© Giovanni Lamagna
Sesso e disagio
Può succedere che, dopo un atto sessuale, si provi una sorta di vago o profondo disagio, rammarico, in certi casi persino pentimento, accompagnati da una sottile, a volte malcelata, aggressività verso l’altro/a.
Rammarico/pentimento per essersi abbandonati, quasi persi nell’altro, arresi al nostro stesso desiderio.
Aggressività nei confronti dell’altro, per averci egli sedotto, rapito, sottratti alla nostra indipendenza/separazione.
E’ il nostro Io (quello malsano, ovviamente) che protesta, recalcitra, si difende.
© Giovanni Lamagna
Celibato, sessualità e potere
La recentissima vicenda del libro scritto a quattro mani dal papa emerito Benedetto XVI e dal cardinale Robert Sarah ha, ancora una volta, posto al centro del dibattito nella Chiesa cattolica (e non solo) il tema del celibato dei preti.
Perché è così importante questo tema, per molti nella Chiesa addirittura decisivo, tanto è vero che, se venisse meno il celibato dei preti, alcuni, come il cardinale Sarah, temono e prevedono una vera e propria “catastrofe pastorale”?
Io credo che la risposta a questa domanda sia semplice, anche se per nulla semplicistica. Provo a darla, dal mio punto di vista di uomo laico, quindi estraneo alle vicende della Chiesa e al suo dibattito interno, ma comunque molto attento interessato ad entrambi.
Come è a tutti evidente il tema del celibato attiene a quello più vasto della sessualità. Come è altrettanto noto che per secoli la sessualità ha occupato ampio spazio nel dibattito sulla morale, in modo particolare in quello della Chiesa.
Non a caso e non a torto molti ricordano ironicamente che per secoli il sesto comandamento è stato considerato quello più importante; non solo – a dire il vero – dalla Chiesa cattolica, ma in modo particolare da questa.
Per cui viene da chiedersi: perché tanta importanza attribuita ai temi della sessualità nella condotta morale degli uomini?
La mia risposta è: perché la “morale” sessuale è uno dei modi, forse il più semplice e, quindi, anche il più diretto, forte e decisivo, per instaurare un controllo sulle coscienze degli uomini, attraverso l’introiezione della sequenza “peccato/senso di colpa/esclusione dalla comunione ecclesiale/pentimento/confessione/riammissione alla comunione ecclesiale”.
Far sentire in colpa i membri della propria comunità per le loro condotte sessuali è stato per secoli uno strumento formidabile in mano al/i potere/i per intimorirli e tenerli psicologicamente sottomessi, sudditi, “fedeli” all’autorità, alla gerarchia (a voler usare un termine blando, quasi eufemistico, che ben si addice – nel caso specifico – ai credenti, agli uomini iscritti ad una Chiesa).
Lo dimostra molto bene il fatto che la Chiesa cattolica mentre è molto rigida sui principi morali che riguardano la sessualità lo è poi molto meno nella prassi pastorale.
Come a dire: miei cari figlioli, a me non interessa tanto che voi siate realmente casti, a me interessa che vi sentiate soprattutto in colpa, dopo aver “peccato”; perciò io sarò sempre disposta ad assolvere i vostri peccati, se voi verrete, dopo esservene più o meno immediatamente “pentiti”, a confessarli ai miei ministri, dimostrandovi, in questo modo, buoni e docili fedeli di Santa Madre Ecclesia.
Sulla base di queste considerazioni, io arrivo a dire (tenendo conto sia della lezione freudiana che di quella marxiana) che la morale sessuale (o, meglio, sessuofobica) è per le coscienze, per la psiche delle persone, ciò che la proprietà dei mezzi di produzione è per i rapporti di classe all’interno delle società: sono entrambe strumenti di sottomissione e, quindi, di potere, di tenuta delle gerarchie.
Ora, se questa premessa teorica è vera, è facile dedurne che mettere in discussione la morale sessuale tradizionale o anche solo mettere in discussione alcuni canoni teologici che hanno a che fare con la sessualità, come il celibato dei preti (ma la stessa cosa la potremmo dire per il sacerdozio delle donne o per l’Eucarestia ai divorziati) mette in discussione, anzi sconvolge, logiche e assetti di potere, su cui si è retto l’autorità per secoli, anzi per millenni.
Nel caso specifico da cui trae spunto questa mia riflessione, l’autorità delle gerarchie ecclesiastiche, ma la stessa cosa si potrebbe dire anche di altre autorità.
Ecco spiegato, a mio avviso, perché una questione in sé molto limitata e, in fondo, persino un po’ banale, come quella del celibato dei preti, diviene agli occhi di alcuni cattolici tradizionalisti, specie delle gerarchie ecclesiastiche che rientrano in questa categoria, una questione di vita o di morte.
Perché, se si “aprisse” su tale questione, si aprirebbe un varco, una vera e propria voragine, crollerebbe tutto un sistema di pensiero teologico, su cui si reggono strutture di potere plurisecolari.
E’ per questi motivi, dunque, che anche per i laici (cioè per coloro che sono esterni alla Chiesa) non è e non deve essere indifferente l’esito di questo dibattito, anzi di questa vera e propria battaglia culturale che da qualche tempo si è aperta e che infuria ancora all’interno della Chiesa.
Perché da questo esito dipenderà anche lo sviluppo in senso progressivo o, all’opposto, la regressione in senso conservativo-reazionario della coscienza morale di una parte non piccola né tanto meno poco significativa della Umanità di cui siamo tutti parte, gente di Chiesa e non.
Giovanni Lamagna