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Quando la nostra rabbia ha radici lontane, molto lontane.

Quando stiamo male, spesso proviamo rabbia; e la prima cosa che facciamo è quella di prendercela con gli altri, di indirizzare la nostra rabbia contro gli altri.

In primis con quelli che abbiamo a tiro, che ci stanno più vicini.

Come se fosse (solo e in primis) colpa degli altri se stiamo male; e se, perciò, siamo arrabbiati; come se essi fossero la “causa prima” del nostro malessere.

Mentre in realtà non è così, non è oggettivamente così.

In realtà – se volessimo essere del tutto sinceri e radicalmente onesti – noi ce la dovremmo prendere (anche, anzi soprattutto) con noi stessi.

Perché nessuno ci impone di stare con le persone che abbiamo d’attorno.

Se ci stiamo, evidentemente è perché ne traiamo delle convenienze.

Solo che la rabbia ci annebbia la vista e ci fa vedere, invece, solo le cose negative e non anche quelle positive, che – nonostante tutto – ci fanno preferire la compagnia di alcuni a quella di altri e, a maggior ragione, alla totale solitudine.

Quando siamo arrabbiati dovremmo prendercela innanzitutto con noi stessi, che ci siamo infilati e messi in certe situazioni.

Comprese quelle che ci hanno portato ad avere rapporti (in certi casi, addirittura convivere) con le persone verso cui proviamo rabbia.

Tutt’al più, dunque, dovremmo prendercela con il nostro passato (specie con quello legato alla nostra infanzia) che ci ha reso così come siamo (per una grandissima percentuale) e ci ha portato pertanto a fare (spesso) scelte sbagliate, a stare con le persone e nei posti sbagliati, quelle a cui poi oggi (spesso) attribuiamo le ragioni della nostra rabbia.

Ma – anche qui – che senso ha prendersela con il passato, addirittura con le nostre radici, con la nostra infanzia?

Di questo passo dovremmo risalire addirittura ad Adamo ed Eva per trovare le cause e le origini del nostro malessere e, quindi, della nostra insofferenza.

Anche qui, forse, la cosa più conveniente (e saggia: sempre che ci teniamo a diventare minimamente saggi) è accettare il passato che ci trasciniamo appresso e, non dico farci pace, ma quantomeno imparare a conviverci.

Tanto quel passato 1) non lo possiamo più modificare e 2) non ne siamo noi i responsabili.

Nessun bambino è responsabile delle condizioni e dell’ambiente in cui è nato e cresciuto; del dolore vissuto e, quindi, della rabbia e, in certi casi, persino del rancore, accumulati negli anni della sua infanzia.

In conclusione: forse, questa presa di coscienza ci aiuterà (potrebbe aiutarci) a diventare un po’ più tolleranti e misericordiosi con noi stessi.

Ad essere meno arrabbiati con noi stessi; e, indirettamente, di conseguenza, anche con gli altri.

Specialmente con quelli che abbiamo maggiormente a tiro, coi quali spesso conviviamo, verso i quali nutriamo rancore per come sono e per come si comportano.

Non è cosa facile, sicuramente; di certo è più facile a dirsi che a farsi.

Ma che alternative abbiamo?

Tanto vale – quantomeno – provarci.

© Giovanni Lamagna

Dolori antichi.

Ci sono dolori dell’anima così forti, acuti, sordi, lancinanti, così insostenibili per noi, che non riusciamo manco a riconoscerli, a guardarli in faccia.

Tendiamo per questo a rimuoverli, a deporli sul fondo della nostra coscienza.

Anche per questo poi facciamo fatica ad elaborarli e a superarli.

Sono, in genere, i dolori più antichi, che trovano le loro radici nella nostra infanzia.

In modo particolare quelli legati al rapporto che abbiamo avuto con nostra madre o con nostro padre o con entrambi.

Verso i quali proviamo, quindi, un rancore non risolto per quello che ci hanno dato, ma in modo sbagliato, o non ci hanno dato, mentre noi lo desideravamo tanto.

E, siccome è un rancore non risolto, ci fa sentire in colpa.

Per cui al dolore per ciò che ci è mancato si aggiunge anche il dolore che deriva dai sensi di colpa.

© Giovanni Lamagna

Il perdono esige il pentimento.

Il pentimento è una condizione/premessa indispensabile del perdono, per ricevere un perdono.

Senza una reale conversione del cuore non ci può essere perdono.

Il perdono, infatti, non è e non può essere un atto di gratuito e unilaterale buonismo.

Ma è, può essere solo – ammesso che si verifichi, che maturi – la presa d’atto, il riconoscimento di una realtà da parte chi ha ricevuto un’offesa, di chi è stato ferito.

Di quale realtà?

Che chi ha commesso una colpa non è più la stessa persona che l’ha commessa, ma è cambiata profondamente nel cuore; si è pentita profondamente del male commesso; è diventata (spiritualmente, psicologicamente) un’altra persona.

Non importa, dunque, quando avviene il pentimento; il pentimento può anche avvenire – al limite – “in limine mortis”.

Il perdono non conta il tempo in cui si è rimasti nella colpa; non è misurato su questo tempo.

Al perdono basta semplicemente che il pentimento ci sia stato, che la conversione del cuore sia realmente avvenuta.

Il perdono non conosce l’espressione “è troppo tardi!”.

Il perdono preferisce l’espressione “meglio tardi che mai!”.

Il perdono è sempre lì pronto, disponibile a manifestarsi.

Non attende altro che la conversione del cuore di chi ha commesso una colpa.

Purché essa sia reale, sincera.

Questa è l’unica condizione – ma indispensabile, ineludibile – perché il perdono si attivi, si manifesti.

Il perdono non conosce vendetta.

Il perdono è strutturalmente, intrinsecamente, animato dalla misericordia.

La quale si manifesta – per definizione – solo davanti alla miseria della colpa, non certo di fronte allo splendore della virtù.

La virtù, infatti, non ha – come è ovvio – bisogno di misericordia; è la colpa che la invoca.

Purché sia una colpa alla quale segua un pentimento sincero, profondo e adeguato.

Che deve essere, dunque, caratterizzato innanzitutto dal dolore e dal rimorso, proporzionati alla colpa commessa.

E poi dalla intenzione, dalla decisione e dall’impegno sinceri, profondi, non formali, di invertire la rotta, di cambiare vita, di non ricadere più nella stessa colpa.

Questo è il vero pentimento; condizione necessaria, indispensabile, perché ci sia un corrispondente perdono.

Diverso è il perdono che si realizza all’interno del cuore di chi ha ricevuto un’offesa, di chi è stato ferito, addirittura di chi sta per essere ucciso, a prescindere dal pentimento di chi ha offeso, ferito, addirittura ucciso.

Quello, ad esempio, di Gesù, che sulla croce pronuncia la celebre frase “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno!”.

Qui il perdono è un atto unilaterale, che non si manifesta però all’esterno; è il perdono di chi ha elaborato il proprio rancore e l’eventuale desiderio di vendetta.

E’ il sentimento di chi ha fatto pace con se stesso più che con l’altro, con colui che lo ha offeso o ferito o sta per ucciderlo.

Questo perdono – come già detto – può anche prescindere dal pentimento dell’altro; ma è un fatto tutto privato, interiore, che non si manifesta (e, forse, non deve manifestarsi) all’esterno.

Se, infatti, fosse concesso, troppo facilmente, diciamo pure gratuitamente, a chi si è reso autore di una colpa, sarebbe falso, inautentico e, addirittura, controproducente.

Nel senso che ostacolerebbe o, addirittura, forse impedirebbe il necessario percorso di redenzione (che presuppone ineludibilmente il pentimento) di chi ha commesso la colpa per la quale si è disposti a concedere il perdono.

O, magari, lo si è già concesso all’interno del proprio cuore, come atto però del tutto privato, non (ancora) reso pubblico.

Qui – sia detto a completamento della riflessione fin qui svolta – quello che vale per gli individui, i singoli, vale a maggior ragione, secondo me, per uno Stato, per una società o anche per una piccola comunità.

Che hanno il diritto sacrosanto di difendersi dai pericoli potenziali che attentano alla loro pacifica convivenza e, quindi, di limitare la libertà di chi l’ha offesa o anche solo (potenzialmente) la minaccia.

Uno Stato, una società, una comunità non possono riabilitare e neanche liberare da un’eventuale detenzione chi si è reso colpevole di un reato senza che ci sia stato un preventivo pentimento da parte del reo.

Anzi non lo possono (e, a mio avviso, non lo debbono) fare, se questo pentimento non è stato attentamente, approfonditamente, adeguatamente esaminato ed accertato, attraverso un percorso, necessariamente non breve, non troppo spicciativo, di riabilitazione e di reinserimento sociale.

Infatti, a mio avviso, il bene e l’interesse di una comunità vengono prima, precedono nella scala dei valori, quelli del singolo componente della comunità.

A maggior ragione se questo singolo si è reso colpevole di un reato che ha offeso, ferito, danneggiato la sua comunità.

Non solo nessun perdono è possibile, ma nessuna riabilitazione è lecita, è ammissibile, laddove non ci sia stato un preventivo e (ripeto) sufficientemente accertato pentimento del reo.

Meno che mai ovviamente possono essere presi in considerazione laddove da parte del reo si manifesti una perdurante disposizione o addirittura manifesta dichiarazione a voler continuare a delinquere.

Qui ogni riferimento all’odierna attualità non è per niente casuale, ma coscientemente pensato e voluto.

© Giovanni Lamagna

Amore per gli uomini e amore per gli animali

Mi chiedo: in quanti casi l’amore per gli animali è solo o prevalentemente un surrogato dell’amore frustrato per gli umani?

Specie quando il primo sembra sostituire totalmente il secondo.

Quando la cura, l’attenzione per gli animali si accompagna ad una sostanziale assenza di rapporti sentimentali ed affettivi con gli umani.

Quando l’amore per gli animali si unisce alla misantropia e a forme più o meno malcelate di rancore verso gli uomini.

In questi casi la mia impressione è che il bisogno/desiderio di ricevere amore dagli uomini e dare amore agli uomini si trasferisce, sposta sugli animali.

Ma – come è ovvio – ne è solo parzialmente soddisfatto.

C’è qualcosa di malato in questo “amore”.

© Giovanni Lamagna

Le radici della violenza e dell’aggressività nell’uomo: alcune semplici riflessioni.

Nel suo libro “Un cammino nella psicoanalisi”, a pag. 80, Massimo Recalcati così scrive a proposito della violenza e dell’aggressività umana:

Per Lacan l’aggressività in generale non sorge affatto, come pensa per esempio la sociologia o una certa psicoanalisi post-freudiana, dalla coppia frustrazione-regressione. Piuttosto la sua origine ha a che fare con la dimensione della “fascinazione” (…) :l’altro verso il quale si dirige non è che una rappresentazione idealizzata dello Stesso, il suo ideale esteriorizzato. Distruggere l’altro, colpirlo violentemente, demolirlo in quanto sede della nostra stessa alienazione, della nostra stessa impossibilità di coincidere con la rappresentazione ideale di noi stessi, definisce il motivo centrale dell’aggressività umana. Per questo Lacan trova nel gesto di Caino l’espressione più pura della violenza immaginaria. Sopprimere l’altro ideale per coltivare l’illusione narcisistica di poter sfuggire alla nostra stessa divisione. L’aggressività immaginaria punta a realizzare la coincidenza tra il soggetto e il suo ideale. Per questo Lacan ci ricorda come l’intenzione aggressiva contenga sempre una intenzione idealizzante.

Cosa penso di queste affermazioni di Recalcati?

Non ne condivido la perentorietà. Ritenere, infatti, che l’aggressività umana non derivi “solo” dalla frustrazione (io aggiungo) di un bisogno o di un desiderio (e conseguente regressione) non ci autorizza a pensare che l’aggressività umana non derivi “anche” dalla frustrazione.

Sono d’accordo, invece, con Recalcati quando afferma che l’aggressività umana può trovare la sua origine “anche” nella “fascinazione” che il soggetto diventato aggressivo ha potuto subire nei confronti di colui o colei verso il quale prova aggressività.

In altre parole l’aggressività umana, a mio avviso, può nascere sia dall’odio-frustrazione, come mette in evidenza la psicoanalisi post-freudiana, sia da un eccesso di amore-fascinazione, come mette in evidenza, invece, il pensiero di Recalcati, sulla scorta di Lacan.

E, comunque, a me pare che, anche in questo secondo caso, ciò che provoca l’aggressività (e, quindi, la violenza) sia – in fondo, in fondo – pur sempre la frustrazione.

Perché è vero che chi prova aggressività verso l’altro spesso (come nel caso di Caino, citato da Lacan) vive una sorta di “fascinazione” per l’altro (nel caso di Caino: suo fratello Abele), nel senso che l’altro (Abele) rappresenta per il soggetto che diventa aggressivo (Caino) un “ideale dell’Io”, un modello da imitare.

Però è anche vero che (per restare all’esempio di Caino e Abele) l’ideale in questo caso è una sorta di modello irraggiungibile, che provoca invidia e gelosia e, quindi, frustrazione e, di conseguenza, direi fatalmente, odio, rancore e aggressività.

Per concludere, a mio avviso l’aggressività umana può sgorgare da due sorgenti, solo apparentemente però diverse o non radicalmente diverse, come sembrano invece sostenere Lacan prima e Recalcati poi.

La prima è l’odio – odio, che deriva dal puro rifiuto dell’altro, che mi suscita ripugnanza e, quindi, aggressività e violenza.

L’altra è l’amore – odio, che deriva dalla fascinazione per l’altro, dal desiderio di imitazione dell’altro, sentimenti comunque entrambi frustrati, che si trasformano, quindi, nel loro opposto, in odio e perciò in aggressività e violenza.

© Giovanni Lamagna

Recensione del film “Hammamet” di Gianni Amelio

Ieri pomeriggio sono stato a vedere “Hammamet”, l’ultimo film di Gianni Amelio. Esprimo subito e in maniera sintetica l’impressione fondamentale: è un bel film, che si lascia vedere bene, che intriga e, a tratti, perfino commuove.

Lo confesso, sono andato a cinema piuttosto prevenuto: avevo letto nei giorni precedenti qualche articolo di giornale, un’intervista a Favino, qualche dichiarazione dello stesso Amelio e mi ero fatto l’idea che il film, sotto, sotto, avesse un qualche intento riabilitativo, se non addirittura agiografico, nei confronti di Bettino Craxi.

Io, all’epoca, non solo non avevo condiviso (quasi) niente dell’uomo politico-Craxi, ma – diciamolo pure – l’avevo anche cordialmente disprezzato sul piano umano. Perché incarnava l’esatto contrario del mio politico ideale e della mia stessa idea di uomo. Questo, credo, spiegasse bene lo stato d’animo con cui mi sono, dunque, recato a cinema.

Dopo aver visto il film, posso dire, invece, che le mie prevenzioni erano nel complesso del tutto infondate. Perché il film non racconta in primo luogo il Craxi politico, ma racconta soprattutto il Craxi oramai uscito dalla scena politica, distante dall’Italia e, per giunta, molto malato.

Racconta la storia degli ultimi sette mesi di vita di un uomo, che vive oramai isolato, circondato solo dall’affetto dei suoi familiari (soprattutto da quello devoto della figlia e da quello del nipotino, che lo venera come un comandante militare; la moglie è presente, ma è quasi come se non ci fosse: evidentemente non aveva mai avuto un grande ruolo affettivo nella sua vita), una persona ripiegata sui suoi ricordi, misti di nostalgia e di rancore, in lotta sempre più disperata con varie malattie, che ne minano ogni giorno di più la salute.

Il Craxi politico c’è (eccome, se c’è!), ma è sullo sfondo. In primo piano c’è il Craxi uomo, con il suo gradissimo dramma.

Un uomo sconfitto, che non si fa ragione della sua disfatta, che si sente anzi vittima di un complotto ordito ai suoi danni, che prova a spiegare le ragioni delle sue scelte, con l’arroganza di un tempo ancora ben viva, che non prova però più vero odio per i suoi avversari (“che coraggio c’è a parlar male degli altri?”), ma solo tanta rabbia.

Un uomo che si addolcisce solo con il nipotino (col quale gioca, come fanno tutti i “bravi” nonni), che vive un rapporto ambivalente con la figlia, un misto di ruvidezza burbera e di quasi languida tenerezza, che ha dei buonissimi rapporti con la comunità tunisina che lo ospita, che si esercita persino in buone azioni con poveri e bisognosi.

Amelio, insomma, ha voluto (a me pare) essenzialmente descrivere la storia di un personaggio famoso (che questo personaggio avesse le sembianze di un noto uomo politico italiano è stato per il regista calabrese quasi solo un pretesto), un personaggio che ha fatto la storia di una nazione, che ha toccato il vertice della gloria e dei riconoscimenti, e poi cade in disgrazia, rotola nella polvere, come prima di lui nella Storia è avvenuto a tanti altri illustri personaggi. E ci è riuscito benissimo.

Il dramma del racconto sta tutto nel raffronto stridente tra ciò che fu (ascesa al potere, gloria, fama, benessere economico, amori…; non a caso il film inizia con le scene del famoso XVI Congresso socialista, nel quale Craxi raggiunse l’acme della sua carriera politica) e la realtà del presente (dopo le condanne giudiziarie, la debacle politica, la perdita del potere, la fuga ad Hammamet in Tunisia, il sostanziale isolamento, la grave malattia…). Ed è reso con grande maestria narrativa.

Per carità (come già accennavo prima) nel film non è assente la dimensione del Craxi politico.

E d’altra parte essa non poteva mancare, perché Craxi era un animale politico fin nel midollo, totus politicus. Ma non poteva mancare, anche per un altro motivo: perché sarebbe venuta meno la tensione narrativa drammatica tra l’uomo politico trionfatore e quello decaduto.

E però la dimensione politica è solo la dimensione seconda, viene cioè dopo quella umana e privata. Nel film hanno dunque la possibilità di emergere con precisione tutte le tesi e le argomentazioni, che Craxi ha sostenuto fino all’ultimo, non solo per difendersi dalle accuse dei giudici, ma anche per rivendicare orgogliosamente la sua storia politica.

E il regista queste tesi e queste argomentazioni non le sposa affatto, come io (un po’ prevenuto) temevo che fosse. Anche se non le contrasta apertamente, quanto meno le dialettizza, attraverso la figura (bella trovata narrativa questa!) del figlio di un ex amico di Craxi (amministratore del partito, morto suicida) che, per capire cosa ha portato il padre a uccidersi, va a trovare il leader socialista  per intervistarlo e gli pone molte domande, spesso in aspra polemica con lui.

Io, come è ovvio, mi riconosco pienamente nella posizione di questo giovane, che pone a Craxi domande molto scomode e stringenti, che forse, almeno all’inizio, persino lo odia (tanto è vero che aveva addirittura meditato di ucciderlo) e che però, un poco alla volta, nel corso dei lunghi giorni in cui procede l’intervista (ospite a casa di Craxi) si lascia prendere dall’umana pietà di fronte all’uomo sofferente.

A voler fare una sintesi conclusiva: – Hammamet è un film anche politico, ma non in primo luogo politico; – le tesi politiche (quelle favorevoli a Craxi e quelle contrarie) vengono esposte (ovviamente in forma narrativa) in maniera abbastanza obiettiva e per nulla apologetica; – il film è in primo luogo il racconto della dolorosa vicenda umana di un uomo potente caduto in disgrazia; – probabilmente voleva suscitare umana compassione anche in chi Craxi lo ha vissuto come avversario e anche oggi non ne condivide quasi nulla della storia politica; – se questo era uno degli obiettivi, l’ha raggiunto pienamente: con me, almeno, l’ha raggiunto; è, insomma, un film riuscito.

Una menzione a parte la merita l’interpretazione di Pier Francesco Favino, che è semplicemente strepitosa, magistrale, da grande attore, di statura internazionale.

Giovanni Lamagna

Dopo aver letto “La femmina nuda” di Elena Stancanelli.

Dopo aver letto “La femmina nuda” di Elena Stancanelli.

“La femmina nuda”, l’ultimo romanzo di Elena Stancanelli, è il racconto di una grande, profonda, prolungata ossessione.

L’ossessione di una donna, di nome Anna, abbandonata dal suo uomo, Davide, dopo cinque anni di un amore vissuto tra alti e bassi.

Ossessione che si manifesta nell’incapacità di Anna di farsene una ragione, nella perdita di ogni motivazione significativa a vivere, nella forma di anoressia che la porta in breve tempo a perdere chili su chili di peso, ma soprattutto nel rancore profondo, acuto, acido, malato, verso colei, Cane, che Anna (come – quasi – tutti gli innamorati abbandonati) ritiene la causa (unica) della fine del suo amore. Cane è, infatti, la nuova donna del “suo” Davide.

Dal momento in cui Anna scopre l’esistenza di Cane inizia la ricerca ossessiva di questa donna. Prima virtuale, attraverso i telefonini, le pagine facebook e le email. Poi reale, con appostamenti (giornalieri e notturni), pedinamenti e, infine, incontri veri e propri, provocati a insaputa della “vittima” e del nuovo amante di lei, Davide.

Il romanzo si conclude con una scena madre finale, in cui si scatena, esplode tutto l’odio viscerale e accumulato nel tempo della protagonista nei confronti della sua inconsapevole rivale. In questo modo Anna finalmente si libera dall’ossessione che si è impossessata di lei per svariati mesi.

Non si capisce bene però dalle parole finali della protagonista (che per tutto il romanzo – sia detto per inciso – racconta le sue storie alla sua amica più intima), come si conclude questa vicenda emotiva.

Anna si libera, certamente e finalmente, dalla ossessione in cui era precipitata. Ma sembra cadere (almeno questo io ho capito) in una specie di cinismo e di disincanto nei confronti di tutti i rapporti.

A parole scrive: “Adesso mi piacciono tutti… Ho una grande pietà e rispetto per i corpi… tutti i corpi, compreso il mio, mi ispirano una grande tenerezza.”

In realtà l’impressione (ma neanche solo l’impressione) è che lei non sia più disposta ad innamorarsi e ad amare più veramente qualcuno.

Fa l’amore un po’ con tutti, senza andare troppo per il sottile, belli e brutti(ni), uomini e donne. Ma di “innamoramenti e amori” non vuole occuparsi più.

Il racconto quindi si conclude in maniera alquanto amara e triste, come del resto triste, pesante, era stato il tono complessivo e prevalente di tutta la vicenda narrata.

Non è un bel romanzo questo ultimo della Stancanelli. E’ scritto, sì, abbastanza bene, si legge in scioltezza. Ma non se ne coglie la “necessità interiore”.

Colpisce abbastanza il linguaggio disinibito, crudo, perfino sboccato, con cui l’autrice descrive parti anatomiche, organi e desideri sessuali maschili e femminili, come se volesse dimostrare che lei ha superato (pur essendo una donna) le inibizioni classiche. Ma questo francamente non risulta più essere una grande novità di questi tempi. Molte scrittrici e da tempo l’hanno preceduta in una simile performance.

La storia inoltre non ha una sua vera originalità. Ricalca lo stereotipo delle dipendenze affettive classiche, tipiche, soprattutto femminili, Con in più un qualcosa che la rende poco credibile.

Anna si capisce è una professionista piuttosto affermata, abbastanza colta e piuttosto benestante.

Davide, l’uomo di cui lei è invaghita, è un meccanico di auto, viene da immaginare piuttosto rozzo e volgare, di quelli muscolosi e dongiovanni, che ci provano con tutte, pronti e desiderosi solo di scopate rapide e senza coinvolgimenti emotivi, con i manifesti delle donnine di Playboy attaccati alle pareti dell’officina.

Viene da chiedersi: può una donna come Anna perdere la testa, fino alla dipendenza e all’ossessione, per un uomo simile?

Se, infine, la storia ha voluto descrivere la tristezza e lo squallore di un certo mondo romano, frequentatore di locali, dove si beve champagne a fiumi e si sniffa cocaina in gran quantità, dove si rimorchia e si scopa solo per esorcizzare la noia, ci è riuscita abbastanza bene.

L’esito finale per il lettore è, però, un certo disgusto, simile proprio a quello che deve aver provato Cane nelle pagine finali, quando si vomita continuamente addosso, ubriaca e strafatta.

Giovanni Lamagna

Sul perdono

16 giugno 2015

Sul perdono.

Nel libro “Elogio dell’ombra”, Jorge Luis Borges rivisita la storia di Caino e Abele. Così scrive Borges:

Abele e Caino s’incontrarono dopo la morte di Abele.

Camminavano nel deserto e si riconobbero da lontano, perché erano ambedue molto alti.

I fratelli sedettero in terra, accesero un fuoco e mangiarono.

Tacevano, come fa la gente stanca quando declina il giorno.

Nel cielo spuntava qualche stella, che non aveva ancora ricevuto il suo nome.

Alla luce delle fiamme, Caino notò sulla fronte di Abele il segno della pietra e lasciando cadere il pane che stava per portare alla bocca chiese che gli fosse perdonato il suo delitto.

Abele rispose: “Tu hai ucciso me, o io ho ucciso te? Non ricordo più: stiamo qui insieme come prima”.

“Ora so che mi hai perdonato davvero”, disse Caino, “perché dimenticare è perdonare. Anch’io cercherò di scordare”.

Abele disse lentamente: “È così. Finché dura il rimorso dura la colpa”.

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Questo testo di Borges mi stimola a riflettere sul significato del sostantivo “perdono” e del verbo “perdonare”.

Sappiamo tutti che cos’è il perdono. E’ l’atto o il sentimento con i quali io trascendo il mio livore, il mio rancore e, dunque, la mia aggressività. Naturali, spontanei, istintivi, nei confronti di qualcuno da cui ho subito un torto.

Il perdono è, dunque, un movimento di trasformazione, di elaborazione dei miei sentimenti “negativi”. Dopo aver perdonato, torno ad essere (in un certo senso) la persona che ero prima di ricevere il torto, come se quel torto non mi fosse mai stato fatto.

Da persona aggressiva e piena di livore torno ad essere in pace. Con me stessa e con la persona da cui ho subito il torto.

Il perdono è un atto e allo stesso tempo un sentimento tipicamente umano: gli animali non ne sono capaci. Richiede, infatti, la capacità di superare l’istinto, di elaborarlo e di trasformarlo nel suo contrario. In un certo senso è un sentimento e un atto contro natura; o che supera, trascende la natura.

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Questo è il perdono dal punto di vista del comportamento e degli stati d’animo che questa parola esprime.

Ma perché, per significare questo comportamento e questo stato d’animo, usiamo proprio questa parola?

Per dare una risposta a questa domanda, credo che (come sempre di fronte a domande simili) ci può aiutare l’etimologia.

Il sostantivo “perdono” e il verbo “perdonare” sono composti entrambi da un prefisso (“per”) e da una successiva parola (“dono”, nel caso del sostantivo, e “donare”, nel caso del verbo).

Questo risponde, a mio avviso, alla domanda che ci siamo posti.

Il “perdono” e il “perdonare” sono quell’atto e quell’azione che ci mettono nelle condizioni di poter continuare, anzi di poter riprendere a donare, cioè ad amare.

Prima di compiere l’atto e di provare il sentimento del perdono, il livore, il rancore, l’astio, l’aggressività per il torto subito ci impediscono di “donare” e, quindi, di amare.

Il flusso del “dono” tra me e la persona che mi ha fatto un torto si è interrotto.

La trasformazione dell’odio in amore (col perdono) ci consente di riprendere la nostra capacità di donare. Di ristabilire il flusso interrotto.

Il perdono è, dunque, “per il dono”, per rendere possibile di nuovo il dono. Cioè di nuovo l’amore.

Giovanni Lamagna