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Pulsione di morte e guerra.

Nel capitolo VI del suo “Il disagio della civiltà” (1929) Freud riprende un concetto di cui, a partire dal saggio del 1920 “Al di là del principio di piacere”, si era andato sempre più convincendo nel corso degli anni, gli ultimi della sua vita: il concetto secondo cui “oltre alla pulsione a conservare la sostanza vivente e a legarla in unità sempre più larghe, doveva esisterne un’altra, ad essa opposta, che mirava a dissolvere queste unità e a ricondurle allo stato primevo, inorganico”.

Freud negli ultimi anni della sua vita si è, insomma, convinto che oltre ad una pulsione (Eros) che tende a conservare la vita ce ne sia un’altra (Thanatos) che tende ad annientarla.

Egli riconosce, però, che non fu facile all’inizio documentare questa seconda pulsione; perché, mentre le manifestazioni della prima balzano evidenti agli occhi, la seconda lavora sotto traccia, silenziosamente.

Più spesso essa si intreccia e mescola alla prima, ad esempio nel sadismo e nel masochismo.

Ovviamente, dice Freud, lo sviluppo della civiltà trova nella pulsione di morte “il suo più grave ostacolo”.

Lo sviluppo della civiltà, infatti, si pone al servizio dell’Eros, in quanto – scrive testualmente Freud – “mira a raccogliere prima individui sporadici, poi famiglie, poi stirpi, popoli, nazioni, in una grande unità, il genere umano…

… Ma a questo programma della civiltà si oppone la naturale pulsione aggressiva dell’uomo, l’ostilità di ciascuno contro tutti e di tutti contro ciascuno. Questa pulsione aggressiva è figlia e massima rappresentante della pulsione di morte…

…Ed ora, mi sembra, il significato dell’evoluzione civile non è più oscuro. Indica la lotta tra Eros e Morte, tra pulsione di vita e pulsione di distruzione…

Questa lotta è il contenuto essenziale della vita e perciò l’evoluzione civile può definirsi in breve come la lotta per la vita della specie umana.”

Da queste pagine di Freud, che ancora una volta mi sono tornate sotto gli occhi in questi giorni, è scaturita spontanea dentro di me la riflessione che segue.

Alla luce di quanto si sta verificando, da quasi nove mesi a questa parte, sotto i nostri occhi, soprattutto sotto gli occhi di noi Europei, come dare torto a Freud?

Come negare che nell’Uomo, oltre che un istinto di vita che lo spinge a cercare la felicità e la convivenza pacifica con i suoi simili, ci sia un istinto malefico, che lo spinge verso la distruzione della vita altrui e persino verso l’autodistruzione della propria?

Tale istinto mi sembra si sia manifestato evidente nell’invasione russa dell’Ucraina.

La Russia potrà avere (e forse ha) mille ragioni per essere aggressiva con l’Ucraina, con la Nato e con l’Europa; ma non ci sono dubbi che il suo intervento e le modalità estremamente distruttive con cui si sta svolgendo abbiano a che fare con l’istinto mortifero di cui parlava Freud.

E tuttavia questo istinto, in fondo, in fondo, lo si percepisce anche nelle reazioni che ci sono state all’invasione russa; sia da parte dei governanti di molti altri Paesi che da parte dell’opinione pubblica internazionale.

Innanzitutto nella reazione del popolo ucraino o, quantomeno, dei suoi governanti, che i più definiscono esclusivamente coi termini di nobile, eroica e fiera, ma che a me sembra francamente anche molto fanatica, a tratti delirante e, alfine, suicida.

E’ poi, financo, nelle reazioni degli Stati Uniti, della Nato e dell’Europa; che sembrano incuranti non solo delle conseguenze economiche disastrose che il loro coinvolgimento nella guerra comporta e comporterà sempre più, ma anche del rischio di innescare un’escalation bellica che potrebbe sfociare, prima o poi, in un conflitto mondiale e nucleare, il cui esito non vedrebbe né vinti né vincitori, ma solo un’ecatombe globale.

Ultima considerazione: quale dei due istinti, di cui parla Freud, la spunterà alla lunga nel corso della Storia?

E’ difficile, anzi impossibile, per tutti prevederlo.

Anche se molti indizi (soprattutto quelli che ci rimandano le cronache di questi ultimi nove mesi) sembrano dare per favorito il secondo.

Non si tratta qui di essere nevroticamente, patologicamente pessimisti; si tratta di vedere le cose per come sono, con gli occhi del realismo.

© Giovanni Lamagna

Pulsione di morte e guerra.

Nel capitolo VI del suo “Il disagio della civiltà” (1929) Freud riprende un concetto di cui, a partire dal saggio del 1920 “Al di là del principio di piacere”, si era andato sempre più convincendo nel corso degli anni, gli ultimi della sua vita: il concetto secondo cui “oltre alla pulsione a conservare la sostanza vivente e a legarla in unità sempre più larghe, doveva esisterne un’altra, ad essa opposta, che mirava a dissolvere queste unità e a ricondurle allo stato primevo, inorganico”.

Freud negli ultimi anni della sua vita si è, insomma, convinto che oltre ad una pulsione (Eros) che tende a conservare la vita ce ne sia un’altra (Thanatos) che tende ad annientarla.

Egli riconosce, però, che non fu facile all’inizio documentare questa seconda pulsione; perché, mentre le manifestazioni della prima balzano evidenti agli occhi, la seconda lavora sotto traccia, silenziosamente.

Più spesso essa si intreccia e mescola alla prima, ad esempio nel sadismo e nel masochismo.

Ovviamente, dice Freud, lo sviluppo della civiltà trova nella pulsione di morte “il suo più grave ostacolo”.

Lo sviluppo della civiltà, infatti, si pone al servizio dell’Eros, in quanto – scrive testualmente Freud – “mira a raccogliere prima individui sporadici, poi famiglie, poi stirpi, popoli, nazioni, in una grande unità, il genere umano…

… Ma a questo programma della civiltà si oppone la naturale pulsione aggressiva dell’uomo, l’ostilità di ciascuno contro tutti e di tutti contro ciascuno. Questa pulsione aggressiva è figlia e massima rappresentante della pulsione di morte…

…Ed ora, mi sembra, il significato dell’evoluzione civile non è più oscuro. Indica la lotta tra Eros e Morte, tra pulsione di vita e pulsione di distruzione…

Questa lotta è il contenuto essenziale della vita e perciò l’evoluzione civile può definirsi in breve come la lotta per la vita della specie umana.”

Da queste pagine di Freud, che proprio in questi giorni ho avuto modo di rileggere e meditare, è scaturita spontanea dentro di me la riflessione che segue.

Alla luce di quanto si sta verificando, da più di tre mesi a questa parte, sotto i nostri occhi, soprattutto sotto gli occhi di noi Europei, come dare torto a Freud?

Come negare che nell’Uomo, oltre che un istinto di vita che lo spinge a cercare la felicità e la convivenza pacifica con i suoi simili, ci sia un istinto malefico, che lo spinge verso la distruzione della vita altrui e persino verso l’autodistruzione della propria?

Tale istinto mi sembra si sia manifestato evidente nell’invasione russa dell’Ucraina; la Russia potrà avere (e forse ha) mille ragioni per essere aggressiva con l’Ucraina, con la Nato e con l’Europa; ma non ci sono dubbi che il suo intervento e le modalità (a quanto sembra) estremamente distruttive con cui si sta svolgendo abbiano a che fare con l’istinto mortifero di cui parla Freud.

E tuttavia l’istinto di cui stiamo parlando, in fondo, in fondo, lo si percepisce anche nelle reazioni che ci sono state all’invasione russa; sia da parte dei governanti di molti altri Paesi che da parte dell’opinione pubblica internazionale; innanzitutto nella reazione del popolo ucraino o, quantomeno, dei suoi governanti, che i più definiscono esclusivamente coi termini di nobile, eroica e fiera, ma che a me sembra francamente anche molto fanatica, a tratti delirante e, alfine, suicida.

E’ da ravvisare poi, financo, nelle reazioni degli Stati Uniti, della Nato e dell’Europa; che sembrano incuranti non solo delle conseguenze economiche disastrose che il loro coinvolgimento nella guerra comporta e comporterà sempre più, ma anche del rischio di innescare un’escalation bellica che finirà per sfociare, se non sarà arrestato quanto prima, in un conflitto mondiale e nucleare, che non vedrebbe né vinti né vincitori, ma solo un’ecatombe globale.

Ultima considerazione: quale dei due istinti, di cui parla Freud, la spunterà alla lunga nel corso della Storia?

E’ difficile per tutti prevederlo.

Anche se molti indizi (soprattutto quelli che ci rimandano le cronache di questi giorni) sembrano dare per favorito il secondo.

Non si tratta qui di essere nevroticamente, patologicamente pessimisti; si tratta di vedere le cose per come sono, con gli occhi del realismo.

© Giovanni Lamagna

Nonviolenza o autodistruzione.

E’ venuto il tempo, io dico, di concepire e provare a realizzare un nuovo ordine internazionale: fondato sulla pace e sulla nonviolenza.

Finora nella storia, quando scoppiavano delle controversie che non si riuscivano a risolvere in modo pacifico e non violento, la strada obbligata, dai più ritenuta perfino scontata e naturale, era la guerra.

“La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è, dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi.”

Con queste parole, famosissime, il generale prussiano Carl von Clausewitz esprimeva, quasi due secoli fa, non solo un sentimento ma anche un’idea, un concetto, un’ideologia diffusissimi, accettati dal senso comune come ovvii, indiscutibili, del tutto scontati.

Persino la morale della Chiesa cattolica, che pure si rifà (o dovrebbe rifarsi) all’insegnamento indubitabilmente pacifista e non violento di Cristo, è giunta a teorizzare e ritenere legittima la guerra in determinate situazioni, almeno in quelle configurabili nella forma della legittima difesa.

Tanto è vero che in questi giorni perfino un vescovo e un teologo molto noto e illuminato come Bruno Forte, citando la dottrina cattolica, è arrivato a giustificare l’invio delle armi in Ucraina, a sostegno della resistenza di un popolo attaccato da un’altra nazione, quella russa, e a criticare un certo pacifismo che ha definito “ingenuo”; come a dire: in certe situazioni il ricorso alle armi è inevitabile.

Io, invece, dico, che siamo giunti ad un punto, ad un tornante, della Storia in cui bisogna mettere in discussione quello che finora è apparso come assiomatico, pensiero comune, scontato, senza alternative, perfino naturale, quindi giuridicamente legittimo.

E’ venuto il tempo di dire che all’uso della forza (o, meglio, della violenza e, quindi, delle armi) si può, anzi si deve (o, perlomeno, si dovrebbe), rispondere senza fare ricorso alle stesse modalità e agli stessi strumenti di morte; che alla violenza si può, si deve, si dovrebbe, rispondere con la nonviolenza.

Lo richiede il tempo storico nel quale viviamo, io direi la stessa realpolitik e non solo la morale o una certa concezione ideale della vita e dei rapporti tra gli uomini.

Oggi iniziare una guerra (ne è un esempio quella ora in corso in Ucraina) può innescare una tale escalation militare da sfociare, prima o poi e inevitabilmente, in un conflitto planetario e, a quel punto, nucleare; il cui esito molto probabile sarebbe l’autodistruzione dell’Umanità.

Oggi l’uso delle armi, anche solo quello delle armi convenzionali, è talmente devastante, sia in termini di feriti e morti che di distruzioni di edifici e strutture economiche, da porre legittimamente la domanda: vale davvero la pena difendersi con le armi da un attacco straniero?

Conosco già e molto bene l’obiezione che di solito viene fatta ad un tale ragionamento da coloro che non concepiscono altra risposta alla violenza armata che il ricorso all’uso delle armi: “ma allora, voi pacifisti, volete, state in pratica chiedendo, la resa dell’Ucraina all’invasione russa?”.

E’ questa un’obiezione senz’altro fondata e del tutto legittima; certo, se ad un attacco violento, noi reagissimo in maniera inerte, semplicemente alzando le mani in atto di resa, avrebbero del tutto ragione i critici della posizione pacifista e nonviolenta!

Il punto è che i pacifisti e nonviolenti non pensano affatto che l’alternativa alla risposta militare ad un attacco militare sia (solo) la resa incondizionata all’avversario; pensano che un’alternativa possibile, praticabile, sia un altro modo di resistere e, quindi, di realizzare il conflitto (sì, il conflitto: non esito ad usare questo termine) con l’esercito invasore.

Sia, ad esempio e innanzitutto, la non collaborazione civile con le nuove autorità che verrebbero ad insediarsi al potere, la disobbedienza civile diffusa e di massa.

In secondo luogo, la ricerca e l’instaurazione di alleanze negli organismi internazionali deputati a risolvere le controversie tra popoli e nazioni, per isolare e sanzionare con metodi non violenti la nazione attaccante.

In terzo luogo la risposta mite, perfino gentile, ma ferma, non pavida, alla brutalità e violenza dei militari invasori, in modo da mettere continuamente a confronto umanità e disumanità e suscitare nei violenti sentimenti di vergogna e possibilmente di pentimento e cambiamento.

So benissimo che tali modalità e strumenti alternativi di praticare il conflitto non sono di facile uso, che richiedono un’educazione ed una preparazione lunga, difficile e delicata; e, soprattutto, che di primo acchito appaiono ai più del tutto ingenui e completamente inefficaci, quindi improponibili.

La riflessione che il pacifista oppone a tale reazione istintiva e immediata è però: a quali risultati porta invece la risposta militare ad un intervento armato (ovviamente il pacifista non prende manco in considerazione l’intervento armato di attacco)?

E’ effettivamente più efficace la resistenza armata rispetto a quella non armata?

Forse fino ad ottanta anni fa questo si poteva ancora sostenere; nessuno può negare, neanche il più strenuo dei pacifisti nonviolenti, che la resistenza armata al nazifascismo ha impedito che questo mostro ideologico, politico e militare prendesse il sopravvento e affermasse il suo dominio nel mondo.

Ma oggi si può ancora dire lo stesso? Si può ancora affermare che la resistenza armata sia la risposta giusta, anzi l’unica adeguata e proporzionata ad un attacco militare; anche col rischio di un’escalation mondiale e quindi nucleare del conflitto?

Io credo di no.

Per questo penso che ci troviamo oggi in una fase completamente nuova della Storia, che ci costringe a cambiare radicalmente i nostri paradigmi culturali; una fase in cui l’Umanità deve decidere del suo destino, non del suo futuro remoto, ma di quello prossimo: vuole continuare a vivere e a evolvere, progredire; o vuole sprofondare nell’incubo dell’autodistruzione?

Questa domanda non ha a che fare solo con la morale e con l’ideologia (come molti ancora oggi credono ed affermano); ha a che fare con il senso della realtà, anche se, purtroppo, una realtà che a molti ancora sfugge; è una domanda che ha a che fare con la realpolitik e non più con l’utopia.

Allo stesso modo di come (e non è un caso che i due problemi si pongano nello stesso momento, nella stessa fase storica) l’Umanità è chiamata a decidere oggi, consapevolmente, del futuro dell’ambiente, dell’ecosistema, in cui vive.

Con il tipo di sviluppo economico che da secoli (soprattutto negli ultimi due secoli) gli uomini si sono dati, il loro futuro è segnato da una prospettiva di oramai neanche tanto lenta autodistruzione.

O l’Umanità, quindi, nel giro non di secoli ma di pochi anni, sarà capace di modificare, anzi invertire il modello di sviluppo (specie quello economico) che finora ne ha caratterizzato la storia, oppure il suo destino è segnato, già deciso: nel giro di qualche generazione essa scomparirà dalla faccia di questo pianeta.

Non so quanti riescono ad avere consapevolezza della fase storica assolutamente nuova, inedita, nella quale ci troviamo.

So solo che chi ha raggiunto questa consapevolezza ha il dovere morale e il compito storico di segnalarlo ai suoi simili; saranno poi essi a decidere del loro destino; che per me non è affatto scontato; o, meglio, a giudicare dai segnali prevalenti che vedo in giro è un destino niente affatto roseo e positivo.

La ragione, che guarda freddamente i dati di realtà, mi rende anzi piuttosto pessimista; e mi ha colpito molto che perfino il capo della Chiesa cattolica, un uomo illuminato dalla fede e quindi piuttosto propenso verso la speranza, si sia autodefinito in una recente e importante intervista con lo stesso termine.

Anche se, come ci invitava a fare un illustre pensatore italiano, non voglio che al pessimismo della ragione segua, si unisca anche quello della volontà; perché come ci insegna un vecchio adagio “finché c’è vita c’è speranza”; ed io voglio (ancora) crederci, se non altro per il bene che voglio e auguro a mia figlia e ai miei nipoti.

© Giovanni Lamagna

Alcune semplici riflessioni – obbligatorie oggi – sulla guerra e sulla pace.

Stamattina apro il computer, vado su facebook e il primo post che leggo è quello di un mio amico, Antonio, persona assolutamente pacifica e perbene, che così scrive: “Se i popoli usciti dall’oppressione sovietica hanno scelto la NATO significa che temevano la Russia. I fatti lo confermano.”

Ho sentito l’immediato impulso a rispondergli con queste parole:

“… e quindi?… abbiamo fatto bene a far entrare alcuni di questi paesi nella Nato o a far credere loro (come nel caso dell’Ucraina) che prima o poi ci sarebbero entrati?… abbiamo fatto bene a stringere la Russia in una morsa politico/militare ed a provocarne l’istinto revanscista?… ovviamente a questo punto perché non mandiamo le nostre truppe a difendere l’Ucraina dall’invasore russo, invece di limitarci alle sole sanzioni economiche?… che importa poi se ne nasce una guerra totale e (perché no?) nucleare?… per la “libertà dei popoli” si fa questo e altro!… continuiamo a soffiare, anzi a gettare benzina, sul fuoco!… in questo modo otterremo la pace… non certo “la pace perpetua”, che invocava Kant… ma “la pace eterna” dei cimiteri…

Comincio davvero ad avere paura, quando da bocche assolutamente miti (fino a ieri) come la tua, Antonio, sento pronunciare parole come quelle che leggo nel post di cui sopra…”

D’altra parte, appena poche ore prima, il segretario del PD Enrico Letta, quindi non un cittadino qualunque come me e come Antonio, aveva così twittato: “Alla Camera ho posto la necessità di non limitarsi al sostegno politico ed economico all’Ucraina aggredita dalla guerra di Putin. Ho detto che dovremmo aiutarla a difendersi, fornendo loro materiale ed attrezzature militari che li aiutino concretamente a respingere gli invasori.”

Se un uomo (all’apparenza mite come Letta, su cui ricadono responsabilità politiche non proprio insignificanti) arriva a scrivere parole simili, c’è da essere davvero preoccupati: il passo immediatamente successivo è quello di chiedere direttamente l’entrata in guerra dell’Italia, dell’Europa, della Nato.

Ma si rende precisamente conto Enrico Letta delle conseguenze di quello che ha detto e scritto e di quale esito avrebbero le sue parole se ad esse seguissero i fatti? Io ho l’impressione che in molti qua da noi stiano cominciando a perdere la testa, il controllo dei propri pensieri.

Proprio in un momento nel quale, invece di esternare propositi bellicosi e muscolari, occorrerebbe fare un bel po’ di esame di coscienza ed analizzare quali sono state (e ce ne sono state!) le nostre responsabilità (di noi paesi occidentali, della Nato e degli Stati Uniti in primo luogo) in questa lunga vicenda.

Ci rendiamo conto di cosa significherebbe (come in fondo propone Letta) rispondere alla forza e alla violenza con uguale forza e violenza?

Qualcuno in questi giorni ha avuto l’insipienza, prima ancora che l’ardire, di evocare la guerra partigiana contro Hitler e Mussolini. Credo che tale evocazione abbia a che fare con l’ignoranza prima ancora che con la temerarietà.

Si rende conto chi fa simili accostamenti e paragoni storici, di come siano mutati i tempi rispetto a quelli in cui si svolse la guerra partigiana? Di quali armi (per quanto sofisticatissime) usavano allora gli eserciti e di quali armi usano oggi? Si rende conto che una risposta militare occidentale ci porterebbe diritti, diritti dentro una guerra mondiale e nucleare mai vista finora? E chi ne uscirebbe vincitore alla fine?

Io credo, alla luce di tali semplici e persino banali ragionamenti, che oggi come non mai si ponga il problema di dire, una buona volta e per sempre, “no alla guerra!”, a qualsiasi guerra, anche a quella difensiva, anche a quella motivata dalle ragioni più sacrosante; e che non abbia più molto senso ricorrere alle antiche categorie di “aggressori” ed “aggrediti”, di “vittime” e di “carnefici”.

Che sia venuto il tempo di individuare altri strumenti di resistenza alla forza e alla violenza e persino all’invasione di un soggetto “nemico”; di “costringerlo” alla pace senza scendere sul suo stesso terreno di confronto.

Sono ben consapevole che un tale discorso può sembrare imbelle o quantomeno astratto e inattuale; temo (purtroppo! a giudicare dalle affermazioni che stanno facendo in questi giorni) che così lo giudichino (senza manco prenderlo in considerazione) un Enrico Letta o un Biden o chi sta a capo della Nato.

Ma che alternative abbiamo, se non quella di andare incontro ad una guerra totale e definitiva, che di certo non avrebbe come esito la sconfitta del nemico “brutto, sporco e cattivo”, ma un suicidio collettivo di tutti i popoli del pianeta, a cominciare da quelli europei?

E’ venuto il momento di provare a far nascere dal basso (non vedo altre vie) una tale coscienza collettiva e popolare e di imporla ai nostri governanti, dell’una e dell’altra parte. A tale scopo mirava e mira, nel suo piccolissimo, questa mia riflessione.

© Giovanni Lamagna

Trascorrere del tempo e Storia

Il trascorrere del tempo e la storia sono la stessa cosa? Con tutta evidenza, no.

Il trascorrere del tempo è un processo che riguarda la vita in generale, da quella inerte (o apparentemente inerte) della materia a quella viva delle piante, a quella animata degli animali, fino a quella (più o meno) consapevole dell’uomo.

Il trascorrere del tempo è scandito dall’incedere anonimo e sempre uguale a sé stesso delle lancette dell’orologio.

Da questo punto di vista ogni giorno è (o sembra essere, perché poi in realtà non lo è) uguale a quello precedente e sarà uguale a quelli successivi.

Diverso è per la Storia.

Innanzitutto la Storia è il tempo che riguarda l’uomo e solo lui; le pietre, le piante e gli altri animali, diversi dall’uomo, non hanno storia, hanno solo un tempo di vita, appunto, un tempo che trascorre.

La Storia presuppone la consapevolezza del tempo che trascorre e questa consapevolezza ce l’ha solo l’uomo.

Alcuni – i Greci antichi, ad esempio – hanno paragonato la Storia ad un cerchio, che incomincia da un punto e si chiude sempre allo stesso punto.

Secondo questa concezione la Storia sarebbe un eterno ritorno, un continuo ripetersi dello Stesso.

Altri – i Moderni, ad esempio – paragonano la Storia ad una linea retta destinata a non avere mai fine.

Secondo questa concezione la Storia sarebbe un continuo avanzare del Nuovo rispetto al Vecchio, un continuo progresso.

In questa concezione è implicito il giudizio che il Nuovo sia sempre migliore del Vecchio e che quindi il Progresso sia in sé un valore, un evento sempre e comunque positivo.

Io ho una concezione della Storia che è un po’ a metà tra le due precedenti.

Per me l’immagine che rende meglio il senso della Storia è quella della spirale; un po’ (mi pare) come quella che aveva Giovambattista Vico.

La spirale è una figura geometrica che in un certo senso mette insieme il cerchio e la linea retta.

La Storia per me è quindi sì un avanzamento (secondo l’immagine della linea retta), ma non un avanzamento continuo; bensì un avanzamento che contempla anche dei ritorni (ricorsi?) all’indietro, perfino (almeno in apparenza) al punto di partenza (secondo l’immagine del cerchio).

Nella Storia, quindi, in un certo senso tutto si ripete (concezione conservatrice e statica della Storia), ma mai nello stesso identico modo, bensì sempre in forme inedite e nuove (concezione che, più che progressista, definirei mobile, mai statica e ripetitiva, della Storia).

Quanto al progresso per me, come ho già detto prima, esso non può essere identificato, sic et simpliciter, col nuovo.

Ci sono, infatti, cose nuove che costituiscono un reale progresso ed altre che non lo sono affatto; anzi possono segnare addirittura un regresso: altro che progresso!

Ciò che definisce, può definire, il reale progresso non è il nuovo in sé, ma è la scala dei valori umani, è l’etica, chiamata di volta in volta a giudicare ciò che è reale progresso da ciò che è un falso progresso.

Ma qui entriamo in un campo minato, nel quale nessuno può ergersi a giudice assoluto, in quanto nessuno può avere la pretesa di possedere “la Verità”, ma ognuno può proporre solo “la sua verità”.

Quali sono, infatti, i veri valori umani? Chi li decide? Qualcuno o alcuni possono deciderli per tutti? Si possono decidere (democraticamente) a maggioranza?

Io credo che la scala dei valori umani sia relativa sempre alla storia e alla geografia: la decidono i popoli e le diverse società che li costituiscono attraverso delle convenzioni, che spesso si traducono anche in leggi.

Ma alla fine arbitri ultimi di cosa è bene e cosa è male, quindi di ciò che vale e di ciò che non vale, rimangono i singoli individui, la loro coscienza, il loro foro interiore, che si assumono (o, meglio, potrebbero e dovrebbero assumersi) la responsabilità delle loro convinzioni, scelte, decisioni e azioni.

© Giovanni Lamagna

La ricerca del vero Sè

25 maggio 2015

La ricerca del vero Sé.

A me pare che il senso della vita non vada cercato tanto nelle cose che facciamo. Per quanto esse possano essere interessanti, piacevoli, utili, necessarie, perfino culturalmente elevate o moralmente generose.

Ma vada ricercato attraverso un’azione tutta interiore e invisibile, finalizzata a raggiungere il centro di Sé.

Ma che cos’è questo “centro di sé”?

E’ una zona misteriosa, ma ben reale. Che solo coloro che l’hanno raggiunta sanno cos’è, ma che chi l’ha raggiunta sa bene cos’è. Anche se è difficile per lui/lei esprimerla a parole, in quanto si tratta di un’esperienza appunto interiore e non esteriore, spirituale e non materiale; e meno che mai di una teoria.

La si comunica perciò meglio attraverso la testimonianza della propria vita, piuttosto che con le parole e i discorsi.

La ricerca del “vero Sé” da sempre caratterizza la storia dell’umanità, presso tutti i popoli, sotto tutte le latitudini. Si identifica con la ricerca religiosa e, in parte, con quella filosofica (quando questa non è puramente intellettualistica).

Ma ha sempre avuto pochi adepti, perché “molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti”. Ed ha assunto, a seconda delle culture e dei popoli, forme, modalità e nomi diversi.

Per alcuni il centro di Sé ha il nome di Dio, per altri quello di Tao (il principio, l’essenza della vita), per altri quello di alcuni elementi della natura (il Sole, la Luna, l’Acqua, il Fuoco, l’Aria, la Terra…), per altri quello del Maestro di Vita, per altri ancora il Maestro Interiore, l’Altro sa sé.

C’è comunque un comune denominatore in tutti questi nomi e in tutte queste esperienze. Il Centro di Sé, nel momento in cui viene raggiunto (attraverso un’esperienza tipica di illuminazione e di conversione) diventa il faro, la luce che orienta tutti i pensieri, i sentimenti, le azioni della persona che lo ha raggiunto.

Diventa il tempo di una seconda nascita, il luogo di partenza di un nuovo viaggio.

Nel momento in cui la persona l’ha raggiunto è una nuova persona: non più dissipata, disorientata, inquieta (come lo era prima), ma unificata, orientata, pacificata.

Forse questo spiega perché alcune persone, pur facendo una vita brillante, ricca di agi, di svaghi, di relazioni importanti, professioni e status prestigiosi, rivelino al fondo (o manco tanto al fondo) una sottile, malcelata (o perfino manifesta) insoddisfazione.

La ragione di questa apparente, (in alcuni casi) inspiegabile insoddisfazione sta (a me pare) nel fatto che esse sono ricche all’esterno, ma povere all’interno, perché hanno cercato (e quindi trovato) molto fuori e poco dentro.

Mentre l’unico modo di trovare la vera pace (e, in certi momenti almeno, addirittura la gioia e la felicità) è quello di cercare dentro e trovare, incontrare lì il vero Sé.

Giovanni Lamagna