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Leggi astronomiche e leggi morali.

La famosissima affermazione di Kant – contenuta nella Conclusione di una delle sue opere maggiori “Critica della ragion pratica” – “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale dentro di me.” ha, a mio avviso, un profondissimo valore spirituale e mi verrebbe di dire addirittura mistico, ancora più che filosofico in senso stretto.

Il grande pensatore di Königsberg è preso non solo da un profondo sentimento estatico (perciò oso definirlo mistico), ma coglie con una sublime intuizione il profondo nesso che intercorre tra l’armonia che regna nel cielo stellato e che obbedisce a misteriose ma ferree leggi astronomiche e l’armonia che regna (o potrebbe regnare) dentro ogni essere umano, quando egli si adegua (o se egli si adeguasse, come fanno appunto gli astri nel cielo, su un piano del tutto meccanico e materiale) alle leggi che regolano (o, meglio, dovrebbero regolare) i suoi comportamenti.

La legge morale – sembra dire Kant – genera (o, meglio, può generare) in noi esseri umani la stessa armonia che le leggi astronomiche generano tra gli astri del cielo.

Con un’unica differenza: che gli astri del cielo non possono sottrarsi alle leggi che ne regolano la vita e i movimenti: queste leggi sono loro imposte; gli uomini, invece, possono farlo, disobbedendo alle leggi morali, perché sono dotati di libertà.

Le conseguenze, però, sono similari: se, per pura ipotesi, gli astri del cielo non obbedissero alle leggi a cui sono sottoposti, si verrebbe a creare nell’Universo il caos più totale.

Gli astri in molti casi si scontrerebbero tra di loro e si distruggerebbero reciprocamente.

La stessa cosa avviene metaforicamente, ma a volte anche materialmente, quando gli uomini non si adeguano alle leggi morali.

In primo luogo si autodistruggono come singoli individui; la loro psiche va a pezzi, ne esce dilaniata, divisa, scissa.

Qui potremmo dire che ogni nevrosi presuppone (in qualche modo) una colpa morale (magari ereditata) e ogni colpa morale genera una nevrosi.

In secondo luogo si scontrano e spesso si distruggono gli uni con gli altri; il mondo diventa una sorta di giungla, nella quale “homo homini lupus”.

Il contrario, insomma, dell’armonia che Kant ammirava e venerava estasiato nel cielo stellato sopra di sé e nel profondo dell’anima dentro di sé.

© Giovanni Lamagna

Ragione teoretica e ragione pratica.

Sapere o comprendere qualcosa non equivale ipso facto all’averne davvero consapevolezza.

Questa sussiste solo quando il sapere e la comprensione mentale ci predispongono, anzi ci inducono, quasi naturalmente, ad atti, scelte e comportamenti conseguenti e coerenti.

Una cosa è la conoscenza, che attiene alla “ragione teoretica”, che può anche non avere effetti e conseguenze pratiche, altra cosa è la consapevolezza, che attiene alla “ragione pratica”.

Si tratta di due cose molto diverse.

© Giovanni Lamagna

Le conseguenze dell’amore.

Da “Dolor y Gloria” di Almodovar: “L’amore può spostare le montagne, ma non può salvare la persona dell’amato”.

E’ vero, molto vero: lo penso anch’io.

L’amore può fare grandi cose: guarire malattie gravi e croniche; può addirittura resuscitare i morti.

Ma l’amore non può fare nessuna di queste cose, neanche cose molto più piccole di queste, senza il consenso della persona amata.

Senza una sua decisione, una sua scelta preliminare.

Senza, cioè, che la persona amata si apra, si conceda, si affidi, si lasci andare all’amore della persona amante.

L’amore dato, in altre parole, esige un atto di fede da parte di chi lo riceve.

E’ questo atto di fede o, meglio, di affidamento, che lo renda efficace, che rende effettivamente fruttiferi i suoi potenziali effetti benefici.

Altrimenti l’amore, anche l’amore, non può fare nulla: è del tutto impotente.

E’ come una freccia scagliata contro un muro: rimbalza all’indietro senza aver prodotto alcuna ferita, senza aver lasciato alcun segno.

© Giovanni Lamagna

Pierre Hadot: il suo principale contributo al pensiero filosofico.

Pierre Hadot è essenzialmente uno storico della filosofia, in modo particolare della filosofia antica, prima e più che l’autore di un pensiero filosofico originale e autonomo.

In quanto storico della filosofia, il suo pensiero centrale, quello che in un certo senso riassume i risultati di tutta la sua ricerca, è il seguente: “… i filosofi antichi non cercavano innanzitutto di presentare una teoria sistematica della realtà, ma piuttosto di insegnare ai loro discepoli un metodo per ben orientarsi tanto nel pensiero quanto nella vita. (da “La filosofia come modo di vivere”; 2008 Einaudi; pag. 123).

Pensiero che è diventato poi anche il suo contributo principale e più originale alla storia del pensiero filosofico e che in altre parole può essere tradotto così: la filosofia non è solo la ricerca di una verità astratta, teoretica, ma è anche la ricerca e soprattutto la realizzazione di un modo concreto di vivere.

Da questo pensiero centrale deriva un pensiero conseguente: esistono due modi di intendere e fare filosofia.

Uno è quello di elaborare un sistema teoretico, che mira ad avere una sua coerenza logica; parta cioè da alcune premesse date come assiomi e arrivi per deduzione ad alcune conseguenze razionali.

L’altro è quello che punta come finalità principale al raggiungimento della saggezza, e, quindi, si esercita nell’arte di vivere, prima e più che in quella di pensare.

In questo modo di fare filosofia il pensiero è funzionale all’agire, con linguaggio moderno potremmo dire la teoria è funzionale alla prassi.

Non a caso questa tipologia di pensiero filosofico in genere non è molto sistematica, ma è frammentaria, a volte perfino incoerente, perché si sviluppa a partire dalle situazioni esistenziali concrete, quindi episodiche, e non da assiomi astratti e teoretici.

La storia della filosofia quindi, secondo Hadot, potrebbe essere ricostruita individuando queste due modalità di pensiero, come se fossero due correnti parallele che hanno attraversato il grande fiume del pensiero filosofico.

La prima è costituita dal pensiero astratto, esclusivamente o prevalentemente teoretico e perfino intellettualistico, che ha in genere il carattere del sistema di pensiero.

La seconda è costituita dal pensiero concreto, esclusivamente o prevalentemente dedicato alla prassi, in genere o spesso frammentario, asistematico, esistenziale, formativo.

La filosofia antica rientra prevalentemente nella seconda tipologia, la filosofia moderna quasi tutta nella prima tipologia.

La filosofia antica è prevalentemente morale e formativa, quella moderna è prevalentemente teoretica e informativa.

Io – per quello che può valere affermarlo – mi sento e dichiaro seguace di Hadot, quindi della filosofia antica.

Filosofia antica, ma non per questo inattuale; anzi più attuale e necessaria che mai; direi “philosophia perennis!”.

© Giovanni Lamagna

Chi è il filosofo?

E’ una persona come tutte le altre; non necessariamente o particolarmente istruita.

Che, però, a differenza della maggioranza delle persone, anche di quelle molto istruite, sottopone continuamente il suo pensiero ad uno stress-test, che lo porta a valutare le estreme conseguenze delle sue ipotesi di partenza, per verificarne (testarne, appunto!) la valenza, la validità teorica.

Il filosofo, quindi, è uno abituato a dialogare continuamente con l’Altro da sé, che ne mette in crisi, in discussione, continuamente non solo i pensieri, le idee, ma anche le pulsioni, le emozioni, i sentimenti.

Il filosofo, insomma, è uno che interroga continuamente sé stesso e si fa interrogare dagli altri.

E su questi interrogativi e sui tentativi di dare loro risposte forma, plasma la sua stessa esistenza, il suo stile di vita.

Come mi ha insegnato Pierre Hadot, specie nel suo “La filosofia come modo di vivere” (Einaudi 2008).

© Giovanni Lamagna

Pancia, cuore e testa

Leggo questo pensiero di Charles Bukowski, che – come tutti i suoi pensieri, del resto –  è molto radicale, persino estremo, addirittura graffiante:

…Esprimete ciò che sentite, non abbiate paura delle conseguenze, perché il tempo non fa sconti a nessuno.

Amate, odiate, buttatevi a capofitto in ogni cosa vi dia emozioni forti.

Le persone sono lo spettacolo più bello al mondo.

E non si paga il biglietto…

Dico subito che lo condivido solo in parte. Ne condivido l’incitamento a non essere persone mediocri, a non accontentarsi delle mezze misure: ne condivido, in altre parole, la radicalità. Non ne condivido, invece, l’estremismo, l’eccesso.

Non penso, infatti, che non bisogna avere paura delle conseguenze del proprio sentire e, meno che mai, dei propri comportamenti e delle proprie azioni.

Anzi qui non è manco questione di paura o non paura; qui è questione di senso della responsabilità.

Ad ogni azione, infatti, corrisponde sempre una reazione, cioè una risposta, di cui noi siamo perciò responsabili.

Quando compiamo una certa azione, siamo responsabili di questa azione, ma anche della reazione che ne consegue.

Questo non vuol dire che non dobbiamo amare con passione e che non dobbiamo vivere emozioni forti, accontentandoci di sentimenti deboli e flaccidi: in questo sono pienamente d’accordo con Bukowski.

Vuol dire solo che dobbiamo sempre, in ogni occasione e circostanza, (almeno dobbiamo provarci) mettere d’accordo pancia, cuore e cervello; gli impulsi che ci suggerisce l’stinto (metaforicamente: la pancia), le emozioni e i sentimenti (rappresentati metaforicamente dal cuore) e l’intelligenza, la razionalità (rappresentati metaforicamente dal cervello).

© Giovanni Lamagna

Rapporti ineludibili

Ci sono rapporti che definirei ineludibili.

Nel senso di rapporti che non si possono evadere o anche solo rimuovere dalla nostra memoria.

Perché essi rappresentano (o hanno rappresentato) tappe miliari della nostra vita, si sono venuti a costituire in snodi decisivi della nostra esistenza.

Sono rapporti che, una volta impiantati, non si possono facilmente estirpare o allontanare senza conseguenze.

Sono rapporti, dunque, particolari, nel senso di rapporti diversi, radicalmente diversi dagli altri, dai tanti (o pochi) altri rapporti che ci capita di instaurare nella vita.

Sono rapporti che accadono di rado nell’arco di un’esistenza.

Difficile quantificare, ma io direi non più di cinque volte, al massimo dieci: propendo più per il primo numero che per il secondo.

Sono rapporti che corrispondono al nostro daimon, al nostro beruf particolari.

Non nascono, quindi, a caso, ma ci capita di incontrarli a causa di un destino.

Possiamo anche romperli, per carità.

Rimuoverli dalla nostra vita e, persino, dalla nostra memoria conscia.

Non possiamo, però, allontanarli dalla nostra memoria e, quindi, dalla nostra vita inconscia.

Disattenderli ci mette, perciò, in contraddizione con il nostro Io profondo.

Apre, quindi, in noi una scissione che ci perseguiterà per tutto il tempo che ci resterà da vivere.

Come quando ci mettiamo contro il nostro destino, contro la nostra vocazione, contro il nostro daimon.

Possiamo farlo, è in nostro potere: su questo non ci sono dubbi.

Ma ne pagheremo le conseguenze.

A volte anche gravi.

In termini non soltanto di piacere superficiale ed effimero.

Che pure ha la sua importanza.

Ma, soprattutto. in termini di soddisfazione e di realizzazione profonde, intime, spirituali.

© Giovanni Lamagna