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Recensione del romanzo “Confidenza” di Domenico Starnone (Einaudi 2019).

Il romanzo breve (appena 140 pagine) di Domenico Starnone “Confidenza” (Einaudi 2019), dal quale è stata recentemente ricavata la sceneggiatura di un film con Elio Germano protagonista, è bello.

Degno della migliore scrittura di questo autore, di cui mi piacciono sia le problematiche che affronta, sia il modo con cui ce le racconta.

Il romanzo, anche questa volta, ruota attorno a una vicenda familiare; sono chiari – conoscendo Starnone – i riferimenti autobiografici.

È la storia – quasi la biografia – di un uomo, Pietro Vella, un insegnante di liceo nato a Napoli, ma trasferitosi a Roma dopo la laurea, dove vive e lavora.

Che si innamora una prima volta di una sua allieva, Teresa, che ha almeno una decina di anni meno di lui e con la quale intreccia una tempestosa relazione, fatta di amore e di odio.

E poi, una volta conclusa – per sfinimento – questa prima relazione, ne inizia una nuova con una collega coetanea, Nadia, insegnante di matematica, con ambizioni di carriera universitaria ben presto naufragate.

Il rapporto con Nadia è tutto l’opposto di quello con Teresa; tanto tempestoso e lancinante era quello con Teresa, tanto tranquillizzante e rassicurante è quello con Nadia.

Che, infatti, “regala” a Pietro tre figli e, soprattutto, accudimento, cura e, pertanto, la libertà di dedicarsi ai suoi principali interessi: professionali, culturali e politici.

Così Pietro, da oscuro insegnante di liceo, diventa un saggista abbastanza noto che pubblica due libri e svariati articoli, viene invitato a dibattiti e convegni e, soprattutto, entra nel mondo dell’editoria, dove conosce un importante pedagogista, Stefano Itrò, e una editor avvenente, benestante e colta, Tilde, con la quale, grazie anche alla intensa frequentazione, vive una sorta di (anche se solo platonico) flirt.

Su queste tre relazioni – quella con Nadia (la moglie), quella con Teresa (la prima amante) e quella con Tilde (l’amica) – Starnone costruisce un’avvincente intreccio emotivo-sentimentale, profondamente erotico e persino – almeno a tratti – passionale, che ci porta a scandagliare la complessità, le ambiguità e le contraddizioni che caratterizzano i rapporti tra gli esseri umani, soprattutto quelli tra i due sessi, e in fondo la complessità, le ambiguità e le contraddizioni dello stesso animo umano, di cui quelle relazionali in fondo non sono altro che il riflesso.

Viene fuori, ad esempio, la complessità delle dinamiche legate a termini quali “fedeltà” e “tradimento”.

Il protagonista Pietro Vella tradisce più volte la moglie Nadia con la mente e col desiderio, “con discrezione, forse addirittura castamente” (p.121); e – almeno in una situazione – riesce ad evitare di farlo anche concretamente, fisicamente (con Tilde), per puro caso, perché distratto/attratto da un altro “tradimento” (con Teresa) di natura puramente mentale.

La stessa moglie Nadia – che pure sembra il ritratto della donna tranquilla, tutta casa e lavoro, ma soprattutto fedele – sul finale del romanzo confessa alla figlia: “… tuo padre mi è così indispensabile che, per poter restare con lui, ho dovuto tradirlo moltissime volte, secondo tutte le possibili accezioni lecite del tradimento.” (p. 121).

Per cui la figlia Emma così ne riassume la vicenda emotivo-affettivo-sentimentale-matrimoniale: “… mi è sembrato tutto sommato bello che questi due vecchi… per poter vivere insieme tutta la vita, avessero dovuto inventarsi una pratica innocente del tradimento che permettesse loro di non dirsi: non ci vediamo più.” (p. 121).

Come se un matrimonio, per reggersi, per durare nel tempo, avesse bisogno necessariamente, indispensabilmente di tradimenti reciproci dei due partner; reali o solo mentali, effettivi o sessualmente casti qui ha poca importanza.

Viene, quindi, fuori in questo romanzo, in maniera paradigmatica a me sembra, una delle lezioni fondamentali di Jung: ciascuno di noi è fatto di una “persona” – la maschera che mostriamo agli altri – e di una “ombra” – il nostro lato oscuro, quello che tendiamo a nascondere, non solo agli altri, ma anche a noi stessi.

Ciascuno di noi ha quindi, molto probabilmente, una qualche “confidenza” (non a caso è questa la parola che dà il titolo al romanzo), fatta in un momento di particolare intimità (o debolezza) a qualcuno/a, di qualcosa di cui prova vergogna, con le conseguenti paura, preoccupazione, ansia, in certi momenti vero e proprio terrore, che l’altro/a possa portarla allo scoperto, rivelandola in pubblico.

L’altro/a, in questo caso, è la metafora della nostra coscienza (più o meno) sporca, con la quale ciascuno di noi deve fare i conti.

Aggiungo su questo punto solo un ultimo elemento di riflessione: alcuni – di quello che siamo – vedono solo o prevalentemente il bello e il pulito, altri solo o prevalentemente il brutto e lo sporco.

Mentre forse ciascuno di noi non è né solo e totalmente il primo, né solo e totalmente il secondo, ma un impasto complicato, complesso, del primo e del secondo, nel quale è difficile distinguere il primo dal secondo.

© Giovanni Lamagna

Lo spirito religioso oggi.

Lo so di dare scandalo e di stupire anche molti dei miei amici e compagni di lunga data, facendo le affermazioni che seguiranno.

Ma devo dirlo e voglio dirlo con forza: più vado avanti e più mi convinco che, se le religioni non fossero state inventate alcuni millenni orsono, bisognerebbe inventarle oggi.

Pur con tutti i loro limiti, le loro contraddizioni, gli orrori che sono stati commessi in loro nome, esse hanno, infatti, contribuito enormemente a dare un senso all’uomo.

Che, forse, senza di esse non l’avrebbe trovato.

E, anche se oggi molte religioni storiche (forse tutte) hanno perso la funzione antropologica che le ha giustificate fino all’arrivo della modernità, questo non vuol dire che sia venuta meno la domanda originaria di senso, da cui esse erano nate.

La domanda di senso, infatti, permane, anche nell’uomo del XXI secolo.

E la domanda di senso produce inevitabilmente forme di religiosità.

Che non avranno più (e per fortuna, dico io!) le caratteristiche di quelle che sono appena (e, ritengo, per sempre) tramontate, ma sono pur sempre forme di religiosità.

Coi loro simboli, i loro riti, talvolta anche i loro sacerdoti, finanche le loro divinità.

Persino la sete di potere, la brama di ricchezza, il desiderio di fama e l’esasperato consumismo attuale corrispondono, se ci pensiamo bene, a questo bisogno di senso.

E alimentano, quindi, a loro modo, forme, per quanto perverse, di religiosità.

Non è dunque – lo dico ai miei amici e compagni – la religione o, meglio, lo spirito religioso in sé che bisogna combattere e rinnegare; perché questo è ineliminabile dall’animo umano.

Anzi, esso va riscoperto e coltivato, seppure in forme completamente nuove rispetto a quelle delle religioni storiche oramai tramontate.

Occorre, invece, combattere i contenuti e le forme di alcune “religioni” moderne, che spesso si mascherano come anti-religiose, come tentativi di superamento dell’idea stessa di religione.

Mentre, invece, molte volte ne sono solo un pessimo e nefasto surrogato, ancora peggiore e più negativo delle religioni storiche, tanto disprezzate dall’uomo moderno e ancora più da quello che si definisce postmoderno.

Per recuperare – come ho già detto – il senso più vero e autentico delle antiche esperienze religiose, inventandosi nuove forme di religiosità, fondate su valori, ideali e persino utopie, all’altezza dei tempi odierni, pienamente compatibili con essi.

Capaci di coniugare, pertanto, “principio della realtà” e “ideale dell’Io”, ovverossia il restare coi piedi ben piantati per terra con la tensione – tutta umana e perciò pienamente legittima- a trascendersi.

In grado di tenere insieme scienza, filosofia e arte, sano egoismo e fraternità universale, azione e contemplazione, socialità e solitudine, lavoro e tempo libero, sesso e spiritualità.

© Giovanni Lamagna

L’uomo di mondo e il sapiente.

Chi cerca il “godimento senza limiti” (avrebbe detto Lacan) o la ricchezza, il potere, la fama, la gloria (ovvero “le cose del mondo”, avrebbe detto Gesù) è nemico mortale (non può non esserlo) di chi ricerca la “sapienza”.

Il quale, per sua natura, “odia”, disprezza, invece, tutte queste cose, ovverossia “le cose del mondo”, perché il suo pensiero, il suo sguardo, il suo desiderio sono proiettati oltre, verso altro; la sua vita è dedicata all’essere e non all’avere.

Ma perché il primo odia il secondo, perché lo vede come nemico da eliminare, mentre il secondo si può “limitare” ad “odiare” le cose che il primo ama con smisurata passione e a tenersene lontano, come cose che lo lasciano indifferente?

Perché il secondo (al di là delle sue stesse intenzioni) sgama il primo, lo rivela a se stesso, ne disvela la fatuità, la frivolezza, l’inganno, su cui si fonda la sua vita, gli fa scivolare via la maschera che normalmente gli copre il volto.

Il secondo può tollerare l’esistenza del primo, non se ne sente minacciato né turbato; non ne condivide certo lo stile di vita e le abitudini, ma non pretende di scuoterlo, di cambiarlo, tutt’al più lo compatisce per le sue contraddizioni.

Il primo, invece, non può tollerare l’esistenza del secondo, perché ne è infastidito, a volte inquietato, se ne sente messo in discussione; lo deve allontanare come si allontana un tafano (il riferimento a Socrate è, ovviamente, consapevole e voluto).

Deve cancellarlo dal suo orizzonte mentale, in certi casi addirittura eliminandolo fisicamente, per non subire il suo sguardo e il giudizio, che l’altro gli getta addosso, anche senza volerlo, anche senza proporselo, per il solo e semplice fatto di esistere.

© Giovanni Lamagna

Semplicità e semplicismo

Credo che occorra essere molto rigorosi e netti nel fare questa distinzione: una cosa è la semplicità, altra cosa è il semplicismo.

E che occorra perseguire (con costanza, con metodo, con tenacia) la semplicità come stile di vita.

Ma che sia necessario allo stesso tempo fuggire (con uguale costanza, tenacia e metodo) il semplicismo.

La semplicità, infatti, non si propone e, meno che mai, si sogna di negare la complessità, la difficoltà dei problemi, anzi della vita stessa.

Il semplicismo invece è proprio questo: la negazione, la rimozione della complessità, in nome dell’approssimazione, della faciloneria, del ricorso alle soluzioni (o, meglio, pseudosoluzioni) che a volte quasi sembrano voler negare l’esistenza stessa dei problemi.

La semplicità non nega la complessità e non parte dal presupposto che già sia tutto chiaro, anzi semplice, in partenza.

La semplicità ha come suo primo obiettivo quello di rendere chiaro il problema, che all’inizio, in molti casi, non lo è affatto.

E, per raggiungerlo, non si limita solamente a semplificare il linguaggio; cosa che, almeno in certi casi, è del tutto impossibile.

Cerca solo – almeno ci prova – di rendere il linguaggio quanto più accessibile al maggior numero di persone possibile.

Senza però mai farlo scadere al livello della superficialità, dell’approssimazione, se non della vera e propria banalità.

La semplicità, inoltre, non nega, né rimuove le contraddizioni (logiche, filosofiche, teoriche, materiali, economiche, sociali, culturali, politiche…) ed i conflitti che da esse derivano.

Prova solo ad individuare i percorsi, i metodi più adatti ed efficaci per affrontarle e possibilmente risolverle.

Nel suo procedere non fa mai credere, anzi non dà mai neanche lontanamente a intendere, che il suo cammino sia tutto rose e fiori, solo avanzamenti e successi, applausi e premi.

Ammette e riconosce i fallimenti, i punti di crisi, le sbandate, gli arretramenti, così come evidenzia gli avanzamenti e i risultati ottenuti.

Per concludere, la semplicità non è una dote di natura, quasi fosse costitutiva del codice genetico di una persona.

Ma è il frutto di una vera e propria ascesi, di un lavoro faticoso, a volte duro, innanzitutto su stessi.

La semplicità, in altre parole, è il punto di arrivo di un percorso intellettuale, etico e, perciò, spirituale, che tende ad affinarsi ed elevarsi sempre più nel corso del cammino; non è mai il punto di partenza di una vita.

Può e deve essere considerata, dunque, una virtù e non una qualità innata, come lo sono (per fare degli esempi) la bellezza fisica o il quoziente intellettuale.

Si diventa semplici, così come si diventa colti, saggi, educati, buoni…

Si nasce infantili e si corre il rischio di rimanere tali o di diventare dei sempliciotti, se non si fa un lavoro serio e, in molti momenti, duro su se stessi.

Non si nasce semplici, come qualcuno crede, confondendo (semplicisticamente, appunto!) la semplicità con la semplicioneria.

© Giovanni Lamagna

Sull’animo umano

Da quante contraddizioni, ambiguità, oscure ambivalenze è abitato l’animo umano!

Può capitare che proviamo attrazione e ripugnanza al medesimo tempo per lo stesso oggetto, la stessa situazione.

Talvolta addirittura amiamo e odiamo, anche se in momenti e contesti diversi, la stessa persona.

In alcuni casi l’ammiriamo, la stimiamo intellettualmente e spiritualmente, ma non ne siamo poco o per niente attratti fisicamente o emotivamente o sentimentalmente.

In altri casi è l’esatto contrario: ne siamo attratti emotivamente ed esteticamente, ma non l’ammiriamo spiritualmente e talvolta non la stimiamo manco moralmente.

L’animo umano e, per conseguenza, le relazioni tra gli uomini sono un groviglio di contraddizioni, spesso inestricabile.

E’ il compito di una vita quello di provare a scioglierle, ad eliminarle.

Ma quasi sempre arriviamo al termine del nostro percorso avendone risolte (quando va bene) solo una parte.

© Giovanni Lamagna

La religione ha ancora un futuro?

Nel bell’articolo comparso su “la Repubblica Napoli” di oggi 22 agosto 2021, don Gennaro Matino si chiede “C’è speranza per la fede? Ce n’è ancora per la sopravvivenza della religione?”

E con lucido, quasi spietato, realismo prende atto che da tempo, almeno qui in Occidente, la grande maggioranza delle persone “ha voltato… le spalle alla religione tradizionale”, o, meglio, a quella “burocratizzazione del sacro”, alla quale si sono ridotte la maggior parte delle chiese e delle religioni.

Per aggiungere che non sarà facile invertire questa tendenza, anzi che “siamo ad un punto di non ritorno”; non basteranno certo “nuovi linguaggi che traducano il vecchio catechismo”; “non è solo questione di rinnovamento della chiesa o delle chiese perché la crisi non è questione solo del cattolicesimo”.

“Tuttavia – conclude don Matino – la ricerca di senso, la nostalgia di cielo, di un rifugio in cui accamparsi, l’esigenza di protezione, di accettazione, di conferma non sono diminuite, anzi mai come nel nostro tempo gli uomini sembrano naufraghi in cerca di terra, un approdo dove trovare risposte.”

D’altra parte – egli dice – “il fallimento delle chiese, che certamente è sotto gli occhi di tutti, non migliora per quanto mi riguarda il genere umano, al di là di tutte le colpe degli uomini di chiesa. Perché le domande restano, l’uomo con le sue speranze e le sue angosce pure, e sarebbe un peccato se cercare il cielo fosse soltanto questione di astronauti.”

In estrema sintesi sembra dire don Gennaro: se impareremo a “non giudicare il mondo con le sue scelte, con le sue contraddizioni”, se riusciremo ad “ascoltarlo… umilmente” per capire “dove sta andando”, “sarà ancora possibile annunciare il Vangelo” e far sì “che Dio ritorni ad essere interessante per la gente”; perché la gente non aspetta altro.

Questo mio breve intervento per dire che ho letto con molto interesse e con ancora maggiore rispetto l’articolo di don Matino; che ne condivido in gran parte le premesse analitiche; più volte in altre sedi ho avuto modo di affermare che, a mio avviso, sono entrate in crisi le religioni, ma non sono venute meno le domande fondamentali dalle quali le religioni sono nate.

Ma non ne condivido, invece, (è, però, “parva materia” tra uomini accomunati comunque dalla “buona volontà”) le conclusioni. A mio avviso le religioni, tutte le religioni tradizionali, sono entrate in una crisi oramai irreversibile.

Ascoltare il mondo moderno e contemporaneo significa per me arrivare alla conclusione che sono venuti meno i fondamenti teorici (cioè filosofici) basilari per sostenere l’esistenza di un Dio trascendente, abitatore di un “cielo” metafisico, e di una vita ultraterrena, che ci aspetterebbe dopo la morte.

Questo non vuol dire però – e ciò mi accomuna profondamente ad un uomo di fede (posso dire ancora “tradizionale”?) come don Gennaro – che con la “morte di Dio” sia venuta meno la stessa domanda di senso, di fondamento, da cui le religioni tradizionali sono nate alcuni millenni orsono.

Non vuol dire, in altre parole, che l’unico esito possibile alla crisi delle metafisiche sia la deriva del superomismo narcisista o del nichilismo disperante e autodistruttivo; meno che mai quella offerta come surrogato consolatorio dalle luccicanti seduzioni di un futile e ubriacante iperconsumismo.

Credo, insomma, anche io in un futuro della religione; ma auspico l’avvento di una religione del tutto laica, che prenda il meglio delle varie religioni tradizionali, le depuri dei loro apparati dogmatici, clericali, burocratici, ritualistici, per scoprirne e praticarne l’essenza ancora attuale, il nucleo di verità ancora viva.

Su questo terreno – che, ad essere più precisi, è piuttosto quello della spiritualità che quello della religione in senso classico e letterale – credo che due persone come don Gennaro Matino e (si parva licet) il sottoscritto possano senz’altro incontrarsi; e fruttuosamente, nell’interesse del mondo il cui bene entrambi sinceramente ricercano.

© Giovanni Lamagna

Funzione sociale di pornografia e prostituzione

Sono convinto che la pornografia svolga una sua funzione sociale. Così come la svolge, perfino, la prostituzione.

Il fatto che poi entrambi i fenomeni siano terreno fertile per un mercato obiettivamente di basso livello speculativo e, in certi casi (soprattutto nel campo della prostituzione), di sfruttamento perfino criminale, non invalida l’assunto – altrettanto obiettivo – della loro indubbia funzione sociale.

La prostituzione risponde alla domanda (soprattutto maschile, ma che da un po’ di tempo sta diventando anche femminile) di una sessualità diversa, altra, diciamo pure trasgressiva, rispetto ai canoni della sessualità di norma vissuta all’interno del legame coniugale o, quantomeno, della coppia stabile.

Oltre che alla domanda ovvia di chi, non avendo un partner fisso, in questo modo soddisfa le sue voglie sessuali.

Domande (entrambe) alle quali il più delle volte vengono date risposte scadenti e, nella grande maggioranza dei casi, del tutto insoddisfacenti o addirittura frustranti.

Il che non vuol dire che le domande in sé non abbiano un loro fondamento (se non fosse così, non si capirebbe perché milioni di persone nel mondo siano coinvolte nel fenomeno) e che ad esse non sarebbe giusto che venissero date delle risposte, ovviamente e auspicabilmente meno degradanti e più gratificanti.

La stessa funzione più o meno la svolge anche la pornografia.

Con la differenza che la prostituzione è pratica reale, materiale; la pornografia è pratica soprattutto dell’immaginario.

La funzione sociale della prostituzione è, infatti, quella di soddisfare in qualche modo, per quanto, come dicevo prima, del tutto insoddisfacente e surrogatorio, un istinto, una pulsione, che altrimenti rimarrebbero del tutto negati, frustrati.

La funzione sociale più specifica della pornografia è, invece, quella di sdoganare (almeno a livello dell’immaginario, del cosiddetto “virtuale”) ciò che nella pratica reale viene considerato proibito, perché giudicato peccaminoso o, quantomeno, offensivo del “comune senso del pudore”.

“Comune senso del pudore” che – lo sappiamo benissimo – è un valore quantomeno elastico, anzi estremamente variabile, a seconda dei contesti geografici e dei tempi storici.

In questo senso la pornografia (o, meglio, ciò che viene ritenuto pornografico in un determinato contesto sociale) aiuta (o quantomeno può aiutare, almeno in alcuni casi) chi vi fa ricorso a liberarsi di pregiudizi e tabù sociali che non hanno nessun fondamento reale obiettivo nel codice etico naturale, ma sono solo (almeno in alcuni casi) il frutto di proibizioni di una società repressiva, ancora lontana dall’aver espresso tutto il suo pieno potenziale libidico.

La pornografia contribuisce, quindi, ad alzare (o ad abbassare: dipende dai punti di vista, dall’ottica morale dalla quale ci poniamo) sempre di più il livello dell’asticella che separa ciò che nel sesso – in un dato momento storico – viene ritenuto socialmente lecito da ciò che è considerato ancora illecito.

E in questo senso può svolgere (e in alcuni casi effettivamente svolge), pur con tutti i suoi grandi limiti e le sue forti contraddizioni (che qui, sia bene inteso, non intendo minimamente nascondermi o sottovalutare), una sua (per certi aspetti persino utile) funzione culturale e, quindi, sociale.

© Giovanni Lamagna

La volontà del nevrotico

Victor Frankl, nel suo “Logoterapia e analisi esistenziale” (pg. 125 126), così scrive a proposito della volontà del nevrotico: “… non è vero che esiste una debolezza innata della volontà: è il neuropatico che tendenzialmente sottovaluta la propria (…)

Fintanto che un uomo cade nell’errore di credere che ogni tentativo per giungere a una determinata meta è destinato a priori a fallire, non potrà mai compiere alcunché di buono (…)

Allorché nell’intimo ci si propone qualcosa, bisogna al contempo proporsi di non assecondare tutte le facili argomentazioni contrarie che vengono a galla per giustificare la non attuazione del compito che ci si è prefissi.

A me questo ragionamento non convince; in sintesi dice: il nevrotico sottovaluta la sua volontà, nega o non vede le risorse che ha.

Ma è proprio vero?

E se la volontà del nevrotico (o, almeno, di un certo tipo di nevrotico) fosse realmente una volontà (per sua natura e costituzione) debole, fiacca, incapace quindi di essere conseguente ai propositi che pure fa?

Se fosse vero, dunque, che il nevrotico – almeno un certo tipo di nevrotico – è o diventa tale proprio perché ha una volontà zoppa e non perché la sottovaluta, come. Invece, ritiene Frankl?

Io sono propenso a pensare che esistano (almeno) due tipi di nevrotici.

Il primo tipo è dato dal nevrotico confuso, che non ha le idee chiare, che è tirato in opposte direzioni, che a lui appaiono tutte più o meno ugualmente valide, per le quali trova argomentazioni contraddittorie, che confliggono tra di loro.

Questo tipo di nevrotico, una volta chiaritosi le idee e intravista la strada giusta o migliore, è capace, nel senso che ha la forza necessaria (la volontà, di cui si parlava prima) per incamminarsi su di essa.

La sua volontà a questo punto è guidata dalla sua ragione, cioè da quella che una volta si definiva “capacità di discernimento”, che fino a poco tempo prima era annebbiata, confusa e, quindi, bloccata.

Da questo tipo di nevrosi si può guarire: trattasi di “nevrosi noogena”, per usare un’espressione utilizzata proprio da Frankl, cioè una nevrosi che ha la sua radice nella “nous”, nella mente.

C’è però un secondo tipo di nevrotico: questi non ha solo le idee confuse, ma, a mio avviso, ha realmente una volontà impotente.

Anzi, ha le idee confuse – anche e forse soprattutto – perché la sua volontà è impotente; e, quindi, lo fuorvia, gli prospetta davanti strade sbagliate.

Questo tipo di nevrotico – hai voglia di indicargli la strada giusta – imboccherà sempre quella sbagliata.

E non perché non veda o sia incapace di vedere qual è la strada giusta, ma perché la sua “volontà” è incapace di tenere dietro alla strada giusta, che pure la ragione è stata capace di indicargli.

E’ incapace di operare scelte e compiere azioni conseguenti a ciò che la ragione gli ha indicato. E’, appunto, una volontà debole, fiacca.

Quindi il nevrotico di cui stiamo parlando qui non è che “sottovaluti” la sua volontà, come sostiene Frankl. No, a me non pare così.

E’ che la sua volontà è davvero debole, è realmente incapace cioè di “giungere a una determinata meta”, anche dopo averla chiaramente intravista.

In questo caso ci troviamo in presenza di una “nevrosi psicogena”, per usare un’altra definizione a cui fa ricorso Frankl.

Una nevrosi che, al contrario di quella precedente, non ha le sue radici nella “nous” (mente), ma nella struttura psicoaffettiva profonda (e in larga misura inconscia) del soggetto nevrotico.

Da questo tipo di nevrosi è molto più difficile uscire, guarire, che da quella noogena. E, in parecchi casi, è del tutto impossibile uscire guariti.

Il soggetto afflitto da una nevrosi psicogena si lamenterà continuamente della sua paralisi emotiva, darà l’impressione (ma solo l’impressione) di adoperarsi in tutti i modi per guarirne, farà ricorso perfino alla psicoterapia e, in alcuni casi, a più psicoterapie, dopo il fallimento di quelle precedenti.

Ma in molti casi lo farà solo per salvarsi l’anima, per dire a se stesso “ci ho provato in tutti i modi”.

In realtà i suoi tentativi si riveleranno tutti fallimentari; perché, quando si arriverà al dunque, al momento di operare delle scelte di cambiamento (in altri tempi si sarebbe detto di “conversione”), si tirerà indietro.

La sua volontà imbelle gli impedirà di compierle e resterà tristemente nel pantano delle sue contraddizioni.

© Giovanni Lamagna

Recensione del film “La ruota delle meraviglie” (“Wonder Wheel”) di Woody Allen

Ieri pomeriggio al cineforum ho “recuperato” un film del 2017 che avevo “perso” in prima visione: “La ruota delle meraviglie” (“Wonder Wheel”) di Woody Allen

Dico subito che non è il solito film di Woody Allen, dove si ride molto, anche di fronte a situazioni tragiche. No, qui non si ride mai, manco una volta per tutto il film.

Eppure è il solito Allen, che racconta una storia fondamentalmente triste, ma in maniera estremamente fluida e leggera, semplice eppure sofisticata; un Allen che è profondamente partecipe al dramma dei suoi personaggi e, però, mantiene il suo solito, tipico, straordinario distacco; un Allen capace di creare un’atmosfera realistica, disincantata e allo stesso tempo, almeno in certi momenti, magicamente incantata.

Qui racconta una storia di miseria, povertà, noia, alcool e frustrazioni, che si mescolano però a sogni, fantasie, aspirazioni, voglia di riscatto.

La vicenda è ambientata in un posto famoso, la spiaggia di Coney Island, agli inizi degli anni cinquanta, in mezzo al chiasso delle giostre del Luna Park, noto per la caratteristica ruota panoramica (di qui il titolo del film, che è anche metaforico).

I personaggi principali sono Ginny (Kate Winslet) e Humpty (Jim Belushi).

La prima è un ex attrice trentanovenne, che ha tradito il primo marito, un suonatore di jazz, di cui pure era innamorata, che l’ha quindi abbandonata e l’ha lasciata sola e in povertà con un bambino di manco dieci anni.

Il quale la odia per avergli tolto il padre, non vuole andare a scuola, fa spesso “filone” per andare a cinema (suo vero interesse), ma soprattutto ha una mania molto pericolosa, quella di appiccare il fuoco nelle situazioni più svariate, creando continui e seri pericoli per sé e per gli altri.

Ginny, in cerca di un appoggio affettivo e, soprattutto, economico, incontra (non sappiamo come: la storia non ce lo racconta) Humpty, il manovratore di una delle giostre del Luna Park.

Anche Humpty esce da un precedente matrimonio, finito per la morte della moglie, dalla quale ha avuto una figlia, che non vede però da cinque anni. Egli, infatti, l’ha disconosciuta, dopo che la ragazza si era messa con un gangster di origini italiane contro il voler del padre.

Humpty è un tipo semplice, piuttosto rozzo, dai modi bruschi, violento con la moglie quando beve, ma in fondo buono e dal cuore tenero.

Nel film ci sono, però, altri due personaggi importanti, anzi centrali quanto i primi due.

Il primo è Mickey (Justin Timberlake), un giovane aitante e attraente studente, che durante l’estate fa il bagnino di una delle postazioni della spiaggia. Lettore accanito di letteratura, sogna di diventare un commediografo.

Un giorno, mentre Ginny passeggia sulla spiaggia in maniera assorta e vistosamente dolente, Mickey la nota e le rivolge la parola: tra i due scatta un’immediata attrazione.

Ginny vede nel giovane Mickey, che le fa la corte, un uomo attento ed empatico, molto diverso dal marito rozzo e spesso violento; un uomo in grado, quindi, di tirarla fuori dalla frustrazione della sua vita matrimoniale e di ridarle una speranza affettiva.

Micky vede in Ginny, oltre che una donna ancora attraente, anche se di una quindicina di anni più grande di lui, una persona in cerca di aiuto, anzi bisognosa di essere “salvata”, quindi facilmente disposta a concedersi.

Il quarto protagonista del film è Carolina (Juno Temple), la figlia di Humpty, la quale, dopo cinque anni di lontananza, si fa di nuovo viva. Ha capito di aver fatto un tragico errore a sposare il gangster italo-americano ed è quindi tornata dal padre, disperata, in cerca di sostegno affettivo ed economico.

Quando il padre la rivede, si infuria e vorrebbe allontanarla. Poi il suo cuore si intenerisce e acconsente alla richiesta di Carolina.

Comincia a questo punto una difficile convivenza a quattro, che sembra però mettersi bene, trovare cioè un buon punto di equilibrio.

Carolina trova un lavoro nello stesso pub dove Ginny fa la cameriera e la sera frequenta una scuola per prendere un diploma.

Ginny è più serena grazie agli incontri amorosi con Michey, che si fanno sempre più frequenti ed intensi e la tirano su.

Humpty è contento di aver ritrovato la figlia e anche di avere accanto una moglie tutto sommato meno frustrata di quanto non lo fosse fino a poco tempo prima.

Il figlio di Ginny inizia una psicoterapia per affrontare i suoi problemi di piromane.

Tutto sembra procedere tranquillo, quando Mickey un giorno incontra per strada Ginny che è accompagnata da Carolina. Il giovane nota subito l’avvenenza della ragazza e ne è fulmineamente attratto.

All’inizio Mickey nega anche a se stesso i suoi nuovi sentimenti, ma un poco alla volta ne prende sempre più consapevolezza e, ad un certo momento, li dichiara a Carolina.

A questo punto entra in crisi il suo rapporto con Ginny, anche perché questa è diventata sempre più esigente con lui e gelosa nei confronti di Carolina.

L’incantesimo, durato quasi tutta l’estate, perciò si interrompe. Anzi si trasforma in una tragedia. E qui mi fermo, non dico di più , perché non voglio svelare il finale del film.

Non senza prima aver aggiunto, però, che Woody Allen, anche in questo film, si dimostra un maestro nel raccontare gli intrecci di sentimenti concomitanti e contrastanti e i conflitti che ne derivano. E’ straordinaria la leggerezza con cui lo fa. Che non è affatto sinonimo di superficialità. Anzi!

Allen è capace di fondere, come pochi altri registi nella storia del cinema sono stati capaci di fare, il dramma doloroso della tragedia con la lepida leggerezza della commedia.

In lui non si intravede mai un giudizio negativo sui suoi personaggi, che vengono considerati più vittime dei loro sentimenti che colpevoli per le loro debolezze.

Con questo atteggiamento, ricco di compassione, egli sembra volerci dire: la vita è così intrinsecamente piena di contraddizioni e conflitti, che gli esseri umani vanno compresi e perdonati sempre, mai giudicati e condannati, anche quando si comportano in maniera scorretta o addirittura cattiva, perfino quando si comportano in maniera cinica, perfida e malvagia.

E la sua lezione viene da noi accolta senza fiatare, anzi con intima gioia, perché – anche in questo – egli è un mago, nel trasmettere insegnamenti senza mai dare neanche l’impressione di voler salire in cattedra.

Giovanni Lamagna

In ricordo di Pier Paolo Pasolini

3 novembre 2015

In ricordo di Pier Paolo Pasolini.

Ieri ricorreva il 40° anniversario della morte violenta e prematura di Pier Paolo Pasolini.

La presenza intellettuale e culturale, ma direi anche e forse ancora di più umana, di questa persona straordinaria è ancora viva e forte, nonostante il passare del tempo.

Sono stati numerosi quindi gli articoli dei giornali, i servizi radiotelevisivi che lo hanno ricordato, com’era giusto che fosse.

Ovviamente, come già avvenuto in altre circostanze simili, molti di questi ricordi si sono soffermati sulla personalità estremamente articolata dell’uomo, anzi molti, se non i più, hanno fatto preciso ed esplicito riferimento alle sue numerose contraddizioni.

Prendo ad esempio (ma potrebbe valere per molti altri) l’articolo di Massimo Recalcati comparso su “la Repubblica” il 28 ottobre u. s., che ha (non a caso) come sottotitolo “Le contraddizioni e le pulsioni vissute nella propria carne”.

Vorrei dire anche io qualcosa su questo aspetto della personalità di Pasolini, che spesso, se non sempre, viene messo in evidenza quando si parla di quest’uomo e di questo grande artista ed intellettuale.

Comincio col dire allora che, di solito, quando si parla di personalità contraddittoria, ci si riferisce ad aspetti diciamo pure nevrotici della persona, a conflitti irrisolti, causa molto spesso di sofferenze e angosce oltre che di creatività e poesia.

In altre parole ci si riferisce a un minus della persona, ad un che di non realizzato, di irrisolto e non ad un majus, cioè a qualcosa che indica la vitalità e i pregi della persona.

Io, invece, vorrei evidenziare che non sempre le contraddizioni di una persona ne indicano un limite o una nevrosi, ma che, anzi, alcune volte ne evidenziano al contrario proprio la ricchezza e la poliedricità speciali, in certi casi solo umana ed emotiva, in altri casi anche intellettuale, culturale, artistica.

C’è da chiedersi, dunque: quando è che le contraddizioni di una persona sono solo una classica nevrosi e, quindi, causa prevalente di sofferenza, sintomo, cioè conflitto irrisolto e negativo, e non certo promotrici di opere creative?

La mia risposta a questa domanda è la seguente: quando le contraddizioni si riferiscono a polarità oggettivamente incomponibili e sono causa quindi di un conflitto non solo non risolto nella realtà effettuale ma irrisolvibile anche in quella potenziale.

A cosa mi riferisco? Mi riferisco a vere e proprie forme di patologia. Descritte ampiamente e con ricchezza di sintomi e di manifestazioni nei manuali e nei libri di psicologia, non necessariamente di psichiatria.

Quando, ad esempio, una persona persegue (apparentemente) il principio del piacere ma lo vuole realizzare attraverso passaggi e soluzioni che tutto sono fuorché di piacere, questa contraddizione esprime un conflitto incomponibile e perciò chiaramente nevrotico, se non addirittura psicotico.

Quando, per fare un altro esempio, una persona vorrebbe essere autonoma e indipendente, crescere e diventare adulta, ma poi nella realtà si fa sempre “schiava” di qualcuno/a, è sempre alla ricerca di rifugio e conforto, come se volesse restare eternamente bambina, ci troviamo di fronte ad un’altra forma tipica di conflitto nevrotico e irresolubile.

Quando una persona ritiene razionalmente una legge ingiusta, ma i suoi sensi di colpa radicati e ben introiettati le impediscono di opporsi ad essa, ci troviamo di fronte a una contraddizione nevrotica, che non potrà mai essere risolta fin quando i due poli che la caratterizzano restano entrambi vivi e attivi.

Ma non tutte le contraddizioni sono di questo tipo e natura. Ci sono contraddizioni che non sono affatto nevrotiche, che non sono per niente sintomo di un conflitto insano e patologico, ma anzi esprimono appieno la ricchezza e l’articolazione delle umane possibilità e, quindi, allorché si ritrovano, più o meno numerose, in una persona ne segnalano la ricchezza emotiva, umana e, a volte, anche intellettuale, artistica, creatrice e non la patologia paralizzante di una nevrosi o di una psicosi.

Ora, quando Recalcati scrive: “Sono diverse e note le contraddizioni che attraversano la vita e l’opera di Pasolini: individualista, testimonia con coraggio l’impegno civile e collettivo dell’intellettuale; anticlericale si schiera risolutamente contro l’aborto; comunista militante entra in conflitto con il Pci; ateo, marxista, resta cristiano nello spirito; anticonformista detesta l’anticonformismo; contestatore vigoroso del “sistema” si schiera contro i giovani contestatori del ’68; antipaternalista, non si risparmia nel segnalare il rischio del tramonto del padre nel nostro tempo; sperimentatore della lingua, resta critico irriducibile di ogni avanguardismo; straordinario poeta civile, conduce pascolianamente la poesia verso i propri drammi più segreti e indicibili; pedagogo libertario, riconosce come insuperabile la figura del maestro; poeta sublime dei corpi e della loro esuberanza pulsionale, ne ha messo in scena il loro oltraggio e la loro devastazione; omosessuale e ribelle, è un conservatore dei valori della tradizione.”, a quale tipo di contraddizioni si riferisce: a quelle nevrotiche, patologiche e, quindi, distruttive della persona o a quelle naturali, creatrici, stimolanti e, quindi, produttive del talento, dell’immaginazione, dell’arte e, per certi aspetti almeno, anche della ricchezza stessa della persona?

Ho l’impressione che nell’articolo di Recalcati questo confine non sia chiaro e, forse, è anche giusto, condivisibile che sia così.

A patto, però di considerare che alcune presunte contraddizioni di P. P. Pasolini non erano affatto nevrotiche ma esprimevano anzi appieno la ricchezza e la poliedricità della sua persona, sia di uomo che di artista.

L’individualismo, cioè l’affermazione di sé come persona, la volontà di esercitare appieno e fino in fondo il proprio senso critico non si opponevano affatto, in una contraddizione stridente e incomponibile, con il suo sentirsi parte di una comunità civile e intellettuale.

Il suo anticlericalismo non era per niente contraddittorio con l’affermazione di valori ritenuti perenni, ma solo la contestazione dell’ipocrisia e della non coerenza tra valori dichiarati e pratiche realizzate (da parte della Chiesa cattolica).

Il suo comunismo diventava in certi momenti anticomunismo in nome della libertà, che per lui non poteva essere separata e scissa dal valore dell’uguaglianza.

Il suo ateismo in nome della ragione illuminista non contrastava con lo spirito cristiano i cui valori possono essere riconosciuti anche da una visione del mondo del tutto laica e areligiosa.

Il suo anticonformismo provava giustamente ripugnanza per un anticonformismo più di facciata e di moda che di sostanza, cioè per l’anticonformismo snob e borghese.

La sua contestazione del “sistema” si scontrò coi giovani del ’68, molti dei quali di quel sistema facevano pienamente parte, ne erano figli, in certi casi addirittura privilegiati.

Il suo antipaternalismo non rifiutò in maniera pregiudiziale e assoluta la figura archetipa del Padre. E perché avrebbe dovuto?

La sua pedagogia libertaria non gli impedì di riconoscere l’importanza del ruolo del maestro. E perché avrebbe dovuto impedirglielo?

L’esaltazione del corpo non gli impedì di vederne e descriverne l’effimera giovinezza e la caducità. E, anche qui, perché avrebbe dovuto?

L’omosessualità affermata e ribelle non gli fece velo nel riconoscere i valori di una certa tradizione. E perché avrebbe dovuto fargli velo?

Ragione e passione, storia e natura, pensiero critico e pulsione non trovano mai in lui una conciliazione stabile, ma permangono in uno stadio di perenne dissidio. La sua stessa psicologia individuale appare scissa tra gentilezza e attitudine alla provocazione, altruismo e rapacità pulsionale, divismo e umiltà, mondanità e solitudine.”, afferma Recalcati. Può darsi che Recalcati abbia ragione, anzi sicuramente ha ragione. Effettivamente in Pasolini c’è la ricerca, il tentativo generosi, appassionati, in certi casi disperati di conciliare degli opposti.

Il punto che voglio affermare però qui è che le polarità a cui fa riferimento Recalcati sono tutte polarità non incomponibili tra loro, che possono dare origine a contraddizioni (e spesso danno origine a contraddizioni; in Pasolini, ad esempio, queste contraddizioni esistevano ed erano molto forti) ma non contraddizioni di per sé irresolubili, bensì contraddizioni addirittura necessarie alla vita e alla sua espressione creatrice e realizzatrice.

Potrei aggiungere che in Pasolini queste contraddizioni erano non risolte, perché in lui le polarità da cui esse si originavano erano tutte portate al limite estremo, quasi assolutizzate (come spesso avviene nelle personalità dotate di un temperamento, di una sensibilità e di un’intelligenza fuori dal comune) e quindi la loro conciliazione era oggettivamente difficile, complessa, ardua.

La maggior parte delle contraddizioni in cui si dibatteva Pasolini erano di questa natura, cioè della natura da cui nasce la creatività, e non della natura tipica delle nevrosi, da cui non può scaturire nessuna vera creatività, ma solo (semmai) paralisi e, per conseguenza, mediocrità.

Di conseguenza e in conclusione Pasolini è anche per me sicuramente una personalità contraddittoria, ricca di sfumature e di ambivalenze, ma il suo genio è nato, si è sviluppato ed affermato proprio nella tensione tra le opposte polarità da cui si originavano le sue contraddizioni.

Che, forse, come dice Recalcati, non erano conciliate, ma non erano neanche – dico io – causa di scissioni insanabili. Altrimenti non avremmo avuto il genio che tutti riconoscono in lui, ma solo una persona paralizzata e mediocre, come ce ne sono state e ce ne sono tante.

Giovanni Lamagna