Archivi Blog

Spunti di riflessione sulla nozione “capacità di intendere e di volere”.

A partire dalle vicende di Angelo Izzo, il mostro del Circeo e di Ferrazzano, e di Alessia Pifferi, la madre che ha fatto morire di stenti la figlia di un anno e mezzo, lasciandola sola per sei giorni.

Qualche pomeriggio fa ho visto su Canale 9 un documentario su Angelo Izzo, il famigerato assassino (molti lo hanno definito “mostro”) del Circeo, in provincia di Latina, e di Ferrazzano, in provincia di Campobasso.

Vi si raccontavano fatti che, seppure molto noti, non finiscono mai di provocare orrore, tanto sono stati feroci, e profondamente turbare, tanto erano e sono inspiegabili alla luce della ragione umana; di quella che consideriamo la “ragione umana”.

E, però – a distanza di tempo da quei fatti, che già (come un po’ tutti, credo) conoscevo abbastanza bene – la cosa che più mi ha colpito (ancora una volta) è constatare da quanta confusione, incertezza, labilità, vaghezza sono avvolti concetti, quali “colpa”, “reato”, “responsabilità”, “malattia mentale”, “normalità”, “follia”, “capacità di intendere e di volere”, “pericolosità sociale”, “pena”, “carcere”, “recupero sociale del condannato a una pena carceraria”, “pentimento”, “redenzione”, “libertà vigilata”, “diritto della comunità ad essere tutelata”.

E, forse (anzi sicuramente), ne ho dimenticato ancora qualcuno.

Nel merito di essi (o di alcuni di essi) vorrei sintetizzare qui brevemente il mio punto di vista.

Nessuno (credo), meno che mai io, mette in discussione che la pena debba avere un valore redentivo oltre che punitivo – anzi più redentivo che punitivo – di chi ha commesso un reato, un qualsiasi reato, anche il più grave ed efferato, come lo furono indubbiamente quelli compiuti da Angelo Izzo.

Una società civile, progredita, ma io direi anche semplicemente umana, non si regge sul criterio della vendetta, sul metro dell’ “occhio per occhio, dente perdente”.

Una società civile, umana, non si pone sullo stesso livello di uno dei suoi membri che esce, si mette fuori dal consorzio umano, perché si abbassa ai livelli della bestia e in certi casi, addirittura, della bestia feroce.

Una società civile resta umana anche di fronte alle peggiori brutalità, anche di fronte al mostro, cioè a colui che si degrada a un livello subumano o disumano.

E, però, questo premesso, credo anche che una società nel suo complesso abbia il diritto di difendersi, di tutelarsi di fronte a quei suoi componenti, che hanno già dimostrato o anche solo sono sospetti (seriamente, fondatamente sospetti) di pericolosità sociale, cioè di poter arrecare danno al corpo sociale o a sue singole parti.

In questo senso i concetti di detenzione o di libertà limitata e molto vigilata non sono per niente in contraddizione con quelli di cura e di recupero sociale.

Di cura, nel caso delle malattie mentali; ovviamente non nei manicomi di famigerata memoria, ma in strutture (meglio, case) appositamente strutturate e organizzate.

Di recupero sociale, nel caso di reati, specie nel caso di reati particolarmente efferati, come lo furono indubbiamente quelli del Circeo e quelli di Ferrazzano.

Altro capitolo in cui vedo regna molta confusione è quello relativo al rapporto tra la malattia mentale, la capacità di intendere e di volere, la conseguente responsabilità penale e il tipo di condanna inflitta nel caso di reato, specie nel caso di omicidio.

A me sembra che in questo campo esercitino le loro professioni dei veri e propri improvvisatori, a volte manifestamente incompetenti; o che addirittura alcune professionalità (quella dei giudici, ad esempio) si arroghino esse stesse competenze o quantomeno valutazioni che non dovrebbero spettare a loro.

Chi può, ad esempio, valutare la “capacità di intendere e di volere” in uno specifico momento, quello in cui si compie un delitto?

Non certo i giudici, che non ne hanno le competenze!

Ma solo dei seri e esperti professionisti della psiche, dotati di accertate capacità diagnostiche, possibilmente, meglio, se in consulto tra di loro; e il loro parere dovrebbe risultare vincolante per i giudici e per le eventuali giurie popolari.

Inoltre, si può sganciare la nozione “capacità di intendere e di volere” (categoria estremamente vaga e generica) da quella di “malattia mentale”, quand’anche questa si manifestasse nella “semplice” (???) forma di “disturbo grave della personalità”?

E se, come nella maggior parte dei casi (a mio avviso, in maniera indubitabile in quelli di cui si parlava nel documentario), non si può separare la prima dalla seconda, che senso ha condannare allora all’ergastolo una persona come Angelo Izzo?

Anzi, metterla in prigione e buttare la chiave, come suggeriva e si augurava – candidamente e nello stesso tempo cinicamente – un giornalista nel documentario di cui sto riferendo?

P. S.

Tali giudizi mi sono tornati alla mente – e trovano per me ulteriori ragioni di conferma – quando ho appreso la sentenza (emessa appena qualche giorno fa) di condanna all’ergastolo di Alessia Pifferi, la madre accusata per l’omicidio della figlia Diana di un anno e mezzo, lasciata a casa da sola per sei giorni e morta perciò di stenti.

Anche in questo caso una perizia psichiatrica (eseguita nel corso del processo dallo “specialista” Elvezio Pirfo) aveva accertato che l’infanticida era capace di intendere e volere al momento dei fatti.

Come se una donna, “cresciuta in assoluto isolamento morale e culturale”; che da piccola aveva subito abusi, era stata vittima di violenza, non era andata a scuola, afflitta da un deficit cognitivo, vissuta senza un lavoro, in condizioni di estrema indigenza, che, non sapendo di essere incinta, quando viene il momento partorisce in un bagno, possa essere considerata “normale” e, quindi, “capace di intendere e volere” mentre commette un delitto.

Mi chiedo: ma dove lo hanno pescato i giudici del tribunale di Milano, che hanno condannato all’ergastolo la signora Alessia Pifferi, questo esimio signor Elvezio Pirfo?

Hanno mica scambiato per uno specialista in perizie psichiatriche il primo passante che hanno incrociato sotto al Palazzo di Giustizia di Milano?

© Giovanni Lamagna

Norme esterne e norme interne.

Tutti quanti noi siamo obbligati da certe norme e non siamo obbligati (almeno in senso stretto) da altre, che pure possiamo definire norme.

Le prime sono norme che si impongono a noi dall’esterno, le seconde ci vengono dall’interno.

Siamo sicuramente obbligati ad obbedire (anche se alcuni manco a queste si sentono vincolati) alle norme giuridiche, alle leggi che regolano la vita della società di cui siamo parte.

Siamo obbligati ad obbedire alle norme non giuridiche, ma non per questo meno stringenti (si chiamano “convenzioni sociali”), che regolano la vita delle comunità di cui facciamo parte, a cominciare da quelle della famiglia.

A meno che non vogliamo correre il rischio di esserne prima o poi cacciati via, espulsi; moralmente, psicologicamente, se non proprio fisicamente e materialmente.

Non siamo, invece, obbligati, in senso stretto, ad obbedire alle norme morali, che rappresentano qualcosa in più delle norme del diritto positivo che regolano le società/Stato e delle norme, più o meno formali ma non giuridiche, le convenzioni. che regolano la vita delle comunità di cui facciamo parte.

Voglio dire: non siamo obbligati in senso stretto, cioè nel senso letterale del termine; l’obbligo in senso stretto prevede, infatti, un vincolo, diciamo pure una minaccia esterni e delle sanzioni nel caso di sua trasgressione.

Ma siamo allo stesso tempo obbligati, anche se solo in senso metaforico.

Nel senso che la coscienza, il foro interiore (che è cosa ovviamente diversa dal foro esteriore dei tribunali civili e penali), ci pone davanti a delle norme (che definiamo morali), al cui rispetto non ci obbliga con la minaccia di sanzioni fisiche, materiali, ma facendoci sentire in colpa quando le trasgrediamo.

I sensi di colpa che proviamo quanto contravveniamo a una legge morale che ci detta la coscienza sono dunque sanzioni del tutto interiori, puramente intrapsichiche, diverse da quelle esteriori ed anche fisiche, che impongono talvolta le leggi sociali e comunitarie.

Ma sono pur sempre sanzioni, tanto che alle volte fanno stare male il soggetto che le subisce ancora più di quelle fisiche del diritto positivo o delle regole comunitarie.

A loro volta questi sensi di colpa (e le sanzioni morali che essi infliggono) sono di due tipi.

Ci sono sensi di colpa che proviamo verso gli altri: quando, ad esempio, mostriamo disattenzione o mancanza di rispetto verso la loro persona, quando non diamo loro l’amore che essi meriterebbero o si attenderebbero da noi, quando non manteniamo la parola loro data.

E questi sono i sensi di colpa che è più facile avvertire, perché se non li avvertiamo da soli (perché la nostra coscienza morale è debole, fragile, poco salda e sviluppata), sono gli altri che ce li rimandano e ce li fanno pesare.

Ma ci sono anche i sensi di colpa che a volte proviamo da soli verso noi stessi; quando, ad esempio, ci facciamo prendere dalla pigrizia, dall’indolenza, quando siamo sopraffatti dalla paura delle novità e del cambiamento.

Quando per vigliaccheria, per i sensi di colpa che proviamo verso delle regole sociali (convenzioni) che ce li vietano, non riconosciamo i nostri desideri legittimi.

O quando, per conformismo e quieto vivere con chi ci fa sentire non meritevoli di goderne, rinunciamo a realizzare aspirazioni del tutto alla nostra portata.

“Non c’è peccato più grande che cedere sul proprio desiderio”: diceva Lacan; ed è profondamente vero: lo sa bene chi lo ha sperimentato sulla propria pelle.

Proviamo, in altre parole, sensi di colpa verso noi stessi quando non obbediamo al nostro demone interiore, alla nostra vocazione fondamentale, al compito che il destino ha assegnato alla nostra vita.

Gli antichi Greci, non a caso, utilizzavano la parola composta “eudaimonia” (eu: buono + daimon: demone = fedeltà al proprio demone interiore) per indicare lo stato d’animo della felicità.

Per converso, possiamo, dunque, dire che noi ci condanniamo all’infelicità, ovverossia ad una vita piena di rimpianti e di sensi di colpa, quando non obbediamo al nostro demone interiore, alla nostra vocazione.

Questi sensi di colpa sono più difficili da avvertire, perché non insorgono in noi attraverso censori esterni.

Anzi, in genere, per non avvertirli, noi cerchiamo conforto proprio nell’approvazione degli altri, che in questo caso spesso ce la danno facilmente e ben volentieri, in nome di una solidarietà malsana, che mal cela a sua volta la propria cattiva coscienza, quella che Sartre chiamava “malafede”.

Questi sensi di colpa si manifestano però in molti casi attraverso svariati sintomi, di gravità più o meno accentuata: un’ansia e un nervosismo permanenti, una tristezza ricorrente, una malinconia diffusa, nei casi estremi una vera e propria depressione acclarata.

Sintomi che appesantiscono e, a volte addirittura, opprimono il nostro animo e non poche volte vengono anche somatizzati (mal di testa, mal di stomaco, nausea, spossatezza cronica, sonnolenza, labirintite…).

Sintomi che possono degenerare fino alla follia; ad esempio, nelle forme della paranoia e della schizofrenia; o, specie quando si invecchia, nella demenza senile.

© Giovanni Lamagna

Alcune semplici domande agli attuali governanti degli Stati del mondo.

Nel Vangelo di Luca (14; 31-32) Gesù racconta la seguente parabola:

… se un re va in guerra contro un altro re, che cosa fa prima di tutto?

Si mette a calcolare se con diecimila soldati può affrontare un nemico che avanza con ventimila, non vi pare?

Se vede che non è possibile, allora manda dei messaggeri incontro al nemico; e mentre il nemico si trova ancora lontano gli fa chiedere quali sono le condizioni per la pace.”

Questa parabola di Gesù a me sembra che oggi potrebbe essere raccontata così.

Se il capo di un piccolo Stato è consapevole che non potrà reggere lo scontro armato con il capo di un grande Stato (dotato, tra l’altro, di bomba atomica), cosa fa?

Va alla guerra, magari cercando aiuti militari a capi di Stato amici, o cerca forme di mediazione e di accordo, magari cedendo parte dei suoi territori al nemico per rabbonirlo e non esserne sopraffatto o, addirittura, annientato?

Mettiamo pure che ottenga gli aiuti richiesti e vada alla guerra!

Se, dopo lunghi mesi o anni di guerra, vede che non è riuscito a respingere l’esercito nemico che ha invaso il suo territorio e che questo è soggetto ogni giorno di più a nuove e immani distruzioni e che milioni di suoi concittadini hanno abbandonato le loro terre, per rifugiarsi all’estero e sfuggire ai disastri della guerra, cosa fa, continua a chiedere nuovi e sempre più potenti aiuti militari o va ad un accordo?

E i capi di Stato, che gli hanno dato, per mesi o magari anni, aiuti militari per impedirne la sconfitta, a questo punto cosa faranno?

Manderanno nuovi aiuti in armi e alfine truppe, allargando così il conflitto da locale a continentale e poi, inevitabilmente, mondiale?

E a voi pare che il gioco valga la candela?

Qualcuno replicherà: ma allora cosa dovrebbero fare il capo del piccolo Stato aggredito e i capi di Stato che lo hanno aiutato? dovrebbero accettare le condizioni del capo dello Stato aggressore? in altre parole dovrebbero arrendersi?

Risposta alla replica: e vi pare che, invece, valga la pena, per non cedere pochi e piccoli territori contesi in una guerra locale, andare ad un conflitto mondiale e, a questo punto, inevitabilmente atomico, che significherebbe la fine molto probabile, se non proprio del tutto sicura, dell’intera Umanità?

Vi pare che il gioco valga la candela?

Vi pare che questo suggerisca la parabola evangelica?

Non solo; ma che questo suggeriscano anche il normale buonsenso e la saggezza che dovrebbe contraddistinguere chi è chiamato ad alti compiti di governo di uno Stato?

………………………………………….

p. s. con l’augurio di buona Pasqua… nonostante tutto!… con l’augurio che la Saggezza prevalga sulla Follia… con l’augurio – soprattutto – che ognuno di noi sia capace di opporsi alla Follia che in questo momento sembra stia prevalendo…

Sì, perché, se ognuno di noi saprà opporsi alla Follia dei capi di Stato che ci governano, nessun capo di Stato, nessun governo, nessun Parlamento potranno imporci la loro follia…

Se, invece, non saremo capaci di farlo, se non lo faremo in tanti, tanti di più di quelli che vogliono la guerra, nessun augurio di buona Pasqua avrà quest’anno senso: è meglio esserne consapevoli…

© Giovanni Lamagna

Il paradosso della psicoterapia: accettare sé stessi/cambiare sé stessi.

James Hillman, nel suo “La ricerca interiore” (Moretti & Vitali 2010), tra pag. 79 e pag. 80, scrive alcune cose, a mio avviso di fondamentale importanza, riguardo al suo modo di intendere la psicoterapia.

Le riporto qui in maniera schematica con parole mie, citando ogni tanto le sue (tra virgolette) e osando integrare, in qualche punto, il suo pensiero con il mio.

Lo faccio non solo perché penso che dicano cose molto importanti e significative a chiunque svolga una qualsiasi professione di aiuto; quindi non solo a chi fa lo psicoterapeuta di “mestiere”.

Ma perché penso che dicano cose molto importanti e significative anche a chi voglia impegnarsi da solo (senza cioè aiuti esterni) in un percorso di crescita interiore, per realizzare al meglio le sue potenzialità, la sua vocazione fondamentale.

1.Parto allora dalla prima affermazione di Hillman: “Amarsi non è una cosa facile”; con la quale concordo, anche se essa, sulle prime, può apparire paradossale.

Infatti, “amare sé stessi” significa non solo accettare la parte di sé che (eventualmente) risplende e ci piace, ma anche la parte di sé che sta in ombra, quella che di solito tendiamo a non mostrare all’esterno, perché non ci piace.

L’amore di sé richiede, insomma, l’accettazione (quantomeno l’accettazione) di tutte le parti di sé: quelle che ci piacciono e quelle che non ci piacciono.

L’umiltà di dire (innanzitutto a sé stessi e poi – come postura psicologica di fondo – anche agli altri): io sono questo, io sono fatto così; io mi accetto per come sono, abbiate anche voi (altri) la bontà, la misericordia, di accettarmi per come sono.

2. Senza questa accettazione la stessa psicoterapia non può manco iniziare.

In questo, il ruolo dello psicoterapeuta è fondamentale; chi svolge una professione di aiuto, come prima cosa, deve accettare così com’è la persona che è venuta da lui in cerca di aiuto e deve aiutare costui/costei a fare altrettanto; almeno come posizione di partenza.

Se lo psicoterapeuta o il counselor si mettono a giudicare il loro cliente e come prima cosa gli indicano in quale modo e in quale direzione deve cambiare, la relazione d’aiuto abortisce ancora prima di iniziare.

L’accettazione preliminare e incondizionata di sé – dice Hillman – è già parte della terapia; anzi costituisce la base, la prima fase di ogni terapia.

3. Questa accettazione deve essere vera e quindi totale; non può essere diplomatica e quindi parziale, finalizzata cioè ad altri scopi: la cura, la guarigione, la realizzazione di sé, il potenziamento dell’Io…

Deve essere, in un certo senso, come l’amore della madre, che esiste e sussiste a prescindere; a prescindere dalle doti e dalle qualità del figlio e, persino, dal suo comportamento morale; per una madre il figlio è figlio, sempre e comunque.

4. E però… qui c’è un però… che fonda il paradosso stesso della vita e, quindi, anche della terapia; che costituisce un po’ la sua follia, che non è la follia solo di alcuni (i matti, i nevrotici…), ma è la follia che possiamo rintracciare in tutti noi.

Allo stesso tempo che si accoglie ed accetta la propria Ombra, “gioiosamente”, per certi aspetti addirittura “definitivamente”, nel corso della psicoterapia si prende consapevolezza che ci sono parti di sé che sono “gravose e intollerabili e che devono cambiare”.

Qui insorge il ruolo che solitamente, prevalentemente (anche se non esclusivamente), svolge il padre nel rapporto genitori-figli.

Mentre la madre accetta e ama incondizionatamente il figlio, il padre gli impone degli obblighi, in quanto rappresenta “lacanianamente” la Legge; il padre gli indica dei traguardi, degli obiettivi.

Il paradosso della terapia è che ti porta, ti guida ad accettare, fino in fondo, incondizionatamente te stesso, quello che sei; ma, allo stesso tempo, ti chiede di cambiare, di apportare alla tua vita i cambiamenti necessari a realizzare al meglio le tue potenzialità.

La consapevolezza di sé e l’accoglimento/accettazione della propria Ombra costituiscono solo la prima parte della terapia, ne sono la base, ne rappresentano le fondamenta; ma su queste fondamenta bisogna poi costruire il nuovo Sé.

Quello capace di eliminare (il più possibile) dalla propria vita i fattori che generano sofferenze non necessarie e di aprirsi ai piaceri, alle gioie e perfino ai momenti di felicità possibili, alla nostra portata; in altre parole il Sé sano, rigenerato, persino saggio.

5. Qui – dice Hillman – gli opposti si incontrano e si integrano.

Si fa tutto con impegno e al tempo stesso si lascia perdere”; io aggiungo: si fa tutto con impegno, come se si stesse lavorando, e allo stesso tempo si fa tutto allegramente, gioiosamente, come se si stesse giocando; si fa come se tutto dipendesse da noi e allo stesso tempo sapendo bene che non tutto dipende da noi.

“… si giudica con durezza, e si sta insieme contenti.”; io aggiungo: ci si giudica con durezza, paternamente, ma allo stesso tempo ci si giudica con dolcezza, maternamente.

Moralismo occidentale e abbandono orientale”, io preferisco dire “attivismo occidentale e fatalismo orientale” si incontrano e fondono in un singolare, un po’ misterioso e pur reale paradosso.

Il Dio ebraico della Legge, dei dieci Comandamenti e della Giustizia, incontra e si fonde con il Dio ebraico “della misericordia, del perdono e dell’amore”.

Si vive, insomma, come i Chassidim, capaci di unire profondo rigore morale e intenso “piacere per la vita”.

© Giovanni Lamagna

Orgasmo maschile, orgasmo femminile, invidia del pene e anorgasmia.

L’orgasmo maschile, come tutti sappiamo, è molto intenso, ma altrettanto breve: dura solo pochi secondi.

E’, inoltre, molto concentrato in una specifica zona del corpo, quella genitale, pure se da qui dirama i suoi effetti di piacere anche nel resto dell’organismo, perdendo però via, via di intensità quanto a sensazioni fisiche, nella stessa misura in cui procura un profondo senso di benessere psicologico e di rilassamento generale, fisico e mentale.

L’orgasmo femminile, come tutti sappiamo, è (o, meglio, può essere) anch’esso molto intenso, ma, a differenza di quello maschile, è (o, meglio, può essere) molto prolungato nel tempo (può durare anche parecchi muniti) ed inoltre coinvolge (molto più di quello maschile) varie zone del corpo (ad esempio, il seno o i glutei o i piedi) e non solo quelle genitali.

Arrivo pertanto a sostenere che l’orgasmo femminile è molto più ricco e gratificante, sia sul piano fisico che su quello psichico, di quello maschile; mi verrebbe di dire che è di natura superiore a quello maschile.

Mi chiedo, quindi: da cosa dovrebbe dipendere la cosiddetta “invidia del pene”, di cui parla Freud, quasi a descrivere la donna come un uomo mancato, un uomo castrato? Dipende da fattori di ordine fisico o da cause di ordine sociale e culturale? La risposta a queste domande è, secondo me, nelle cose.

L’invidia, ammesso che invidia ci sia, da parte delle donne nei confronti dei maschi, è – a me pare del tutto evidente – invidia per il loro ruolo sociale, che situa da che mondo è mondo gli uomini su uno stallo superiore a quello della donna e sembra quindi configurare una inferiorità strutturale della donna rispetto al maschio, da attribuirsi a cause di ordine naturale.

Infatti, semmai un’invidia sul piano sessuale fosse giustificabile da parte di uno dei due sessi nei confronti dell’altro, sarebbe più naturale che fossero i maschi a provarla nei confronti della donna; la donna ha, infatti, come abbiamo visto, una possibilità di godere sessualmente di molto superiore a quella dell’uomo.

Perché mai dunque dovrebbe provare invidia per la sessualità maschile?

Caso mai è la donna stessa che può arrivare a temere la sua sessualità; ovverossia la sua capacità di godere del sesso.

E’ paradossale, ma può accadere; e in alcuni (forse, addirittura, in molti) casi accade.

Il suo piacere, infatti, può essere così intenso e prolungato da comportare la sensazione, per molti aspetti perturbante se non proprio spiacevole, di una forma di cedimento, di smarrimento, di passività assoluta, di perdita dei propri confini e del controllo di sé, per certi versi associabile alla follia.

E questo può forse spiegare, fa rilevare Massimo Recalcati (nel suo “Esiste l’atto sessuale?”; Raffaello Cortina Editore; 2021; pag. 154), “il fenomeno assai frequente dell’anorgasmia” delle donne.

Come “difficoltà a cedere la propria vigilanza, ad affidarsi all’illimitato del godimento, alla perdita del proprio Io, ad accogliere la profonda vertigine del lasciarsi fare, come si esprimeva una mia paziente sorpresa di aver avuto accesso a una profonda esperienza di piacere nel rapporto sessuale solo quando è riuscita ad abbandonarsi nelle mani del suo compagno lasciandosi, appunto, fare, cedendo il comando, per usare una sua altra precisa formulazione.”

In altre parole la donna può arrivare a negarsi il piacere dell’orgasmo proprio a causa della grandissima e per certi aspetti sconvolgente intensità della sua capacità di godere (molto superiore a quella maschile) nel momento dell’orgasmo.

Altro che invidia del pene: la donna può arrivare a bloccarsi proprio a causa della sua eccedente e sovrabbondante potenza sessuale!

© Giovanni Lamagna

Alcune considerazioni sul Cristianesimo

Un amico mi scrive: “Secondo me, amare i propri nemici è una follia contro natura e uno dei motivi per cui il cristianesimo è in via di estinzione. Anzi il vero cristianesimo è già estinto da secoli. Quello che sopravvive è un cristianesimo fai-da-te e ipocrita.”

Qui di seguito la mia risposta.

Caro B., amare i propri nemici sarebbe contro natura, se nell’uomo ci fossero solo pulsioni che tendono alla competizione e alla sopraffazione, per cui all’invidia, all’aggressività, all’odio non si può che rispondere con altrettanto odio e aggressività; in altre parole se fosse vero che “occhio per occhio, dente per dente”.

Come forse ritieni tu. Ma – devo riconoscere – non sei certo il solo: nella storia ti hanno preceduto caterve di uomini di pensiero illustri, quali – per fare solo quattro nomi – Machiavelli, Hobbes e, per molti aspetti, Nietzsche e Freud.

Io, invece, penso (ma mi sento, a mia volta, in buona compagnia, con fior di altri illustri pensatori) che nell’uomo esistano indubbiamente le pulsioni (negative e distruttive) di cui sopra, ma esistano anche quelle (positive e costruttive) che tendono alla compassione, alla cooperazione e persino all’amore.

Il “vero cristianesimo” (come lo definisci tu) mirava a che le seconde superassero, annullassero o, quantomeno, integrassero le prime in ogni singolo uomo; perciò invitava, sollecitava, ad una vera e propria conversione del cuore.

E questo non è, certo, facile da realizzarsi, ma, almeno a mio avviso, non è neanche del tutto impossibile o, addirittura, una follia, perché radicalmente “contro natura”, come invece sostieni tu.

Il Cristianesimo, il vero Cristianesimo, si è estinto da tempo?

Questo è forse il tuo auspicio, ma a me (e, a dire il vero, non solo a me) non sembra affatto; del resto, quando sembra morto, il Cristianesimo rinasce dalle sue ceneri.

Intanto sono vive e ancora abbastanza vegete le Chiese, che, pur con tutte le loro infinite contraddizioni (e, in certi casi, persino misfatti; pensiamo agli ultimi, recenti, episodi venuti alla luce di pedofilia tra i preti), al Cristianesimo si richiamano.

Questo è, che ci piaccia o no, un dato storico inoppugnabile; ora, mi sai dire quali altre istituzioni, che abbiamo conosciuto nella Storia, sono state in grado di durare così a lungo nel tempo?

Ma soprattutto il Cristianesimo ha gettato un seme profondo, ritengo oramai indelebile, che vive nella coscienza morale di tanti, tantissimi, uomini di spirito, che ne hanno colto e si sforzano di praticare il suo messaggio essenziale.

Perfino uomini che non si sono riconosciuti ieri e non si riconoscono oggi nelle Chiese che al Cristianesimo facevano e fanno riferimento; perfino uomini (tra i quali metto immodestamente il sottoscritto) che si dichiarano non credenti, che non si riconoscono in nessuna fede religiosa.

Basti pensare a uno per tutti, a Benedetto Croce, che su questo argomento scrisse un piccolo saggio diventato poi famoso e spesso citato: “Non possiamo non dirci cristiani”; e lui non era certo un “uomo di fede”, almeno nel senso classico e tradizionale che ha assunto questa espressione.

© Giovanni Lamagna

C’è un’essenza che comunque ci unisce

Io credo che vada riconosciuta dignità umana (nel senso di riconoscerli come parte della nostra umanità) ad ogni modo di pensare e ad ogni stile di vita.

Perfino a quelli che ci appaiono (e forse – o senza forse – lo sono realmente) aberranti o folli.

Per coglierne il nucleo (per quanto infinitesimo) di verità e l’esigenza profonda da cui essi nascono.

Anche quando sono distantissimi dalla nostra visione del mondo e dal nostro modo di agire.

C’è, in altre parole, un po’ di Hitler in ognuno di noi, come c’era sicuramente un briciolo di umanità perfino in Hitler.

C’è della sanità o perlomeno “verità”, “saggezza” in ogni follia, come c’è della insanità, se non proprio follia, in ogni uomo ritenuto universalmente sano, “normale”.

Credo che in questo atteggiamento stia l’essenza dello spirito religioso, che anche un laico come me può sposare, condividere.

Quello che ci fa sentire legati indissolubilmente e profondamente ad ogni uomo, senza distinzioni di sorta.

Al di là delle differenze, pur notevoli, che io considero però – in fondo, in fondo – solo di superficie.

Quello che ci fa sentire ogni uomo, al di là delle differenze a volte vistose, talvolta vistosissime, che pure ci dividono da lui, comunque parte di noi.

© Giovanni Lamagna

Due tipi di follia

Effettivamente, come dice Erasmo da Rotterdam, ci sono due tipi di follia.

Ce n’è una che consiste nella pura perdita di contatto con la realtà ed ha come conseguenza (negativa) l’incapacità di entrare in comunicazione efficace con gli altri e di agire positivamente sulla realtà per modificarla in meglio.

E ce n’è un’altra che, invece, mantiene i piedi ben piantati nella realtà, ma non si rassegna ad essa così com’è, perché mira a modificarla in senso sempre più favorevole agli interessi degli uomini, come individui e come collettività.

La prima è sterile, anzi dannosa, perché pura fantasticheria, allucinazione, delirio, senso futile di onnipotenza, narcisismo solipsistico. Ed ha quindi, in molti casi, esiti devastanti, per sé e per quelli con cui viene in contatto.

La seconda è, invece, costruttiva, foriera di frutti e risultati positivi. Produce cambiamenti e innovazione, che migliorano la qualità della vita delle persone e delle comunità. E’ la follia che genera il progresso degli uomini.

Anche se spesso deve attraversare il deserto dell’incomprensione altrui, per rompere schemi consolidati, pregiudizi, conformismi. Spesso, almeno in prima battuta, viene, infatti, ostacolata, ostracizzata, in certi casi persino perseguitata.

© Giovanni Lamagna

Che cosa è l’arte e chi è l’artista.

Ieri sera al cineforum ho potuto vedere il film “Van Gogh – sulla soglia dell’eternità” (2018) di Julian Schnabel, attore protagonista Willem Dafoe.

Ho raccolto alcune delle battute principali del film, che, al di là del suo valore estetico (comunque elevato), ne giustificano la visione.

Molti dicono che sono pazzo, però… la follia è una benedizione per l’arte!

Volevo così tanto condividere ciò che vedo. Ora penso solo al mio rapporto con l’eternità.”.

Dentro di me c’è qualcosa, non so cosa sia: vedo ciò che gli altri non vedono!”.

Io sono i miei quadri”.

Io vorrei dare a vedere ai miei fratelli umani ciò che essi non vedono. Ed è un privilegio poterlo fare”.

Quando dipingo smetto di pensare e sento che io sono parte di ogni cosa che è fuori e dentro di me”.

Ad un prete che gli chiede “Credi che Dio ti abbia dato il dono della pittura perché tu viva in miseria?” Vincent van Gogh risponde: “Non l’ho mai vista in questo modo. Forse Dio mi fa dipingere per quelli che nasceranno.

Ho passato la mia vita da solo, in una stanza. Vorrei trovare una nuova luce per quadri che non abbiamo mai visto.

Ad una persona che gli chiede: Perché dici che sei un pittore?” Vincent van Gogh risponde: Mi piace dipingere, devo farlo. Sono sempre stato un pittore, lo so, perché non so fare nient’altro e, mi creda, c’ho provato!”.

Ho detto prima che queste battute (ed altre che non sono riuscito a raccogliere) giustificano ampiamente la visione di questo film, perché esse a mio avviso, messe insieme, costituiscono un piccolo trattatello di ciò che è l’arte e di chi è l’artista. Provo a darne un mio personale resoconto.

  1. L’artista è innanzitutto un visionario. Cioè uno che vede ciò che gli altri non vedono. Vede le cose in maniera diversa dalla gente comune. Perché vede nelle cose aspetti che alla gente comune sfuggono.
  2. L’artista è, quindi, uno che avverte un bisogno urgente: quello di comunicare agli altri (ai suoi “fratelli umani”) ciò che essi non vedono. Perché quello che vede lo vive come un “privilegio”, come un “dono”. Che vuole allora condividere con coloro che questo privilegio, questo dono non hanno avuto la fortuna di ricevere.
  3. L’artista è quindi anche in un certo senso (e in alcuni casi, come quello di Van Gogh, anche psichiatricamente) un folle o, quantomeno, una persona borderline. Perché la sua arte nasce, scaturisce da visioni che in alcuni casi sono veri e propri deliri, allucinazioni. Ma, senza queste visioni (al limite della follia), se l’artista fosse un uomo ordinario, come ce ne sono tanti, semplicemente non si darebbe l’opera d’arte. Molto semplicemente e direi quasi banalmente!
  4. L’artista è mosso da una necessità interiore: egli DEVE creare, altrimenti non è lui, non sarebbe lui, non si realizzerebbe come persona. Creare è il suo modo di esistere. Egli è la sua stessa opera. Van Gogh dice: “Io sono i mie quadri.”; “Mi piace dipingere, devo farlo… non so fare nient’altro”.

Di qui il suo tormento e la sua ansia, in certi casi la sua angoscia. Che è angoscia di esistere o, meglio, di non riuscire ad esistere senza creare.

L’artista nel momento in cui crea la sua opera, in realtà crea se stesso. E sopravvive a se stesso. E’ in qualche modo consapevole che sta generando qualche cosa che durerà in eterno.

  1. L’artista per me è sempre (anche) un mistico, pur senza saperlo e il più delle volte neanche volerlo.

Quando Van Gogh dice che egli, nel momento in cui dipinge, smette di pensare e sente di essere parte di qualcosa che è allo stesso tempo in sé e fuori di sé, cosa sta esprimendo se non l’essenza di ogni esperienza mistica, di quel “sentimento oceanico” di cui ebbero a discutere in un famoso scambio epistolare Romain Rolland e Sigmund Freud?

  1. L’artista è sempre un uomo votato alla solitudine. E non solo perché egli vede cose che gli uomini comuni non vedono, ma anche perché vede le cose in modo diverso da come le vedono gli altri artisti.

Van Gogh, ad esempio, era molto amico, amico fraterno, di Paul Gauguin, eppure la sua concezione della pittura è profondamente diversa da quella dell’amico, con il quale condivide un percorso di vita e che ad un certo punto decide di andare a vivere altrove. Lasciando Vincent in una crisi di profondo sconforto.

Van Gogh, a causa di questa separazione per lui estremamente dolorosa, si taglierà un orecchio, come a voler simboleggiare che l’amico si era portato via una parte di sé.

  1. Infine, se l’artista è un visionario (al limite della follia), egli è in qualche modo consapevole che la sua opera non può essere riconosciuta dai suoi contemporanei. Perché egli vede cose che gli altri non vedono. O quantomeno li anticipa.

Per questo egli talvolta morirà misconosciuto e in certi casi perfino umiliato e disprezzato (come nel caso di Van Gogh) e le sue opere verranno riconosciute ed apprezzate solo a distanza di anni, in certi casi di decenni, se non di secoli.

Giovanni Lamagna

Quando la tragedia entra a gamba tesa nella tua vita

6 maggio 2015

Quando la tragedia entra a gamba tesa nella tua vita.

Che cosa può spingere un uomo ancora giovane (45 anni), bello, sano, forte, con un lavoro sicuro, di carattere aperto e gioviale, apparentemente sereno, tranquillo, mite, a tornare a casa una notte e ad uccidere la moglie 42enne e il figlio 11enne, che dormivano tranquilli e inconsapevoli nei loro letti, e poi a togliersi a sua volta la vita dopo averla tolta alle due persone a lui più care?

Che cosa deve essere successo nella testa e nel cuore di questa persona, quale fantasma deve averlo raggiunto ed essersi impadronito di lui, quale istinto perverso deve averlo spinto a compiere un gesto di una tale inaudita violenza distruttiva e autodistruttiva?

A queste domande non ci sono apparenti risposte. A maggior ragione se questa persona la conoscevi, l’avevi incontrata più volte, in situazioni serene, distese, per molti aspetti addirittura felici, in genere in vacanza (ci si incontrava da anni ogni estate, si abitava vicini, nello stesso villaggio, la nostra casa a fianco alla loro).

L’unica risposta possibile è che la nostra mente e il nostro cuore, la nostra persona insomma, la persona che ognuno di noi è, galleggiano evidentemente su un mare di fragilità, debolezze, che la precarietà, “un’illimitata contingenza” (come la definisce Recalcati) sono veramente (non sta scritto solo nei libri di psicopatologia) un dato strutturale del nostro essere umani.

Galleggiamo su questo mare, solo una misteriosa forza psichica ci tiene sospesi, ma in ogni momento possiamo affondarvi.

Nessuno di noi può affermare: “A me non potrebbe capitare!” Anche Alfredo, probabilmente, fino all’altro giorno avrebbe detto la stessa cosa: “A me non potrebbe capitare!”

Poi apri il giornale, in un tranquillo e caldo pomeriggio di quasi estate, di estate anticipata, e leggi l’articolo che descrive la tragedia avvenuta e, dopo pochi righi, scopri che i nomi dei suoi protagonisti tu li conosci.

Sulle prime non vuoi crederci: no, non è possibile, sarà un’omonimia… No, a me questo non può capitare! E non può capitare neanche a persone che io conosco, che ho frequentato e visto tante volte! No, questa assurdità non può entrare nella mia vita e manco sfiorarla!

Poi dopo qualche secondo vedi che tutto combacia (il nome dell’assassino suicida, il nome della povera giovane moglie ammazzata, la casa dove abitavano…) e sei costretto/a a prendere coscienza che, invece, questa volta è accaduto proprio a te, che una tragedia infinita è entrata nella tua casa, nella tua vita.

Ti metti nei panni di quel povero padre, che manco a farlo apposta avevi sentito al telefono qualche giorno prima e col quale avevi parlato del più e del meno ed era sereno, tranquillo, come può esserlo un uomo che aveva vissuto e viveva ancora i drammi che tutti prima o poi siamo costretti a incontrare nella nostra vita, ma che cercava di farsene una ragione e mi aveva chiesto di mia figlia e del mio nipotino, ti metti nei panni di questo padre che cercava di comunicare al telefono con la figlia dalla mattina e la figlia non gli rispondeva e, allora, allarmato si era recato a casa della figlia, aveva bussato alla porta e nessuno gli apriva e allora era andato a prendere una chiave per aprire, ha aperto e si è trovato davanti un mondo distrutto.

Mi metto nei panni di questo padre amico e mi vedo al suo posto. Sento che la tragedia è entrata nella mia vita. Sento (per la prima volta) che una cosa che “a me non poteva accadere”, invece, “è accaduta proprio a me”.

Scopro tutta la mia fragilità, quella del mondo che mi circonda, soprattutto quella dei miei affetti più cari e mi prende una sorta di ansia, di paura. Avverto sotto di me il baratro. Galleggio, ma ho paura di affondare. Chi mi garantisce più? Sento che la mia vita e quella delle persone che amo è appesa a un filo. Sento che la follia mi appartiene, non è altro da me, che fa parte della mia vita. Ne sono spaventato.

Provo a restare a galla. A rimuovere il pensiero del baratro che è sotto di me. Ma è dura, molto dura!

Giovanni Lamagna