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La gelosia si può educare.

Certo che gelosia, orgoglio ferito, delusione, rabbia fanno parte della natura umana; che in buona parte è simile a quella degli altri animali!

Ma l’uomo, a differenza degli altri animali, ha una coscienza e un’intelligenza che possono aiutarlo a divenire consapevole dei suoi impulsi e ad educarli, per non restarne prigioniero.

L’uomo – volendo – si può educare a non essere possessivo, a non considerare l’altro/a una sua proprietà; e, quindi, a non essere più geloso.

Tra l’altro io sento che, quando l’altro/a non ci appartiene mai del tutto e in qualche modo ci sfugge, si sviluppa in noi un’adrenalina, un’eccitazione, che appassisce, muore, quando egli/ella sono invece per noi troppo scontati.

Un rapporto in cui non c’è la presenza di un “terzo” (quantomeno immaginario, simbolico) tende a diventare fatalmente “incestuoso”, più fraterno e amicale, che passionale ed erotico.

Accettare questa presenza ha (può avere) due effetti: ci aiuta a diventare meno possessivi e gelosi nei confronti di un nostro “rivale” (potenziale o reale) ed alimenta il nostro desiderio nei confronti del “nostro” partner.

© Giovanni Lamagna

Il paradosso della psicoterapia: accettare sé stessi/cambiare sé stessi.

James Hillman, nel suo “La ricerca interiore” (Moretti & Vitali 2010), tra pag. 79 e pag. 80, scrive alcune cose, a mio avviso di fondamentale importanza, riguardo al suo modo di intendere la psicoterapia.

Le riporto qui in maniera schematica con parole mie, citando ogni tanto le sue (tra virgolette) e osando integrare, in qualche punto, il suo pensiero con il mio.

Lo faccio non solo perché penso che dicano cose molto importanti e significative a chiunque svolga una qualsiasi professione di aiuto; quindi non solo a chi fa lo psicoterapeuta di “mestiere”.

Ma perché penso che dicano cose molto importanti e significative anche a chi voglia impegnarsi da solo (senza cioè aiuti esterni) in un percorso di crescita interiore, per realizzare al meglio le sue potenzialità, la sua vocazione fondamentale.

1.Parto allora dalla prima affermazione di Hillman: “Amarsi non è una cosa facile”; con la quale concordo, anche se essa, sulle prime, può apparire paradossale.

Infatti, “amare sé stessi” significa non solo accettare la parte di sé che (eventualmente) risplende e ci piace, ma anche la parte di sé che sta in ombra, quella che di solito tendiamo a non mostrare all’esterno, perché non ci piace.

L’amore di sé richiede, insomma, l’accettazione (quantomeno l’accettazione) di tutte le parti di sé: quelle che ci piacciono e quelle che non ci piacciono.

L’umiltà di dire (innanzitutto a sé stessi e poi – come postura psicologica di fondo – anche agli altri): io sono questo, io sono fatto così; io mi accetto per come sono, abbiate anche voi (altri) la bontà, la misericordia, di accettarmi per come sono.

2. Senza questa accettazione la stessa psicoterapia non può manco iniziare.

In questo, il ruolo dello psicoterapeuta è fondamentale; chi svolge una professione di aiuto, come prima cosa, deve accettare così com’è la persona che è venuta da lui in cerca di aiuto e deve aiutare costui/costei a fare altrettanto; almeno come posizione di partenza.

Se lo psicoterapeuta o il counselor si mettono a giudicare il loro cliente e come prima cosa gli indicano in quale modo e in quale direzione deve cambiare, la relazione d’aiuto abortisce ancora prima di iniziare.

L’accettazione preliminare e incondizionata di sé – dice Hillman – è già parte della terapia; anzi costituisce la base, la prima fase di ogni terapia.

3. Questa accettazione deve essere vera e quindi totale; non può essere diplomatica e quindi parziale, finalizzata cioè ad altri scopi: la cura, la guarigione, la realizzazione di sé, il potenziamento dell’Io…

Deve essere, in un certo senso, come l’amore della madre, che esiste e sussiste a prescindere; a prescindere dalle doti e dalle qualità del figlio e, persino, dal suo comportamento morale; per una madre il figlio è figlio, sempre e comunque.

4. E però… qui c’è un però… che fonda il paradosso stesso della vita e, quindi, anche della terapia; che costituisce un po’ la sua follia, che non è la follia solo di alcuni (i matti, i nevrotici…), ma è la follia che possiamo rintracciare in tutti noi.

Allo stesso tempo che si accoglie ed accetta la propria Ombra, “gioiosamente”, per certi aspetti addirittura “definitivamente”, nel corso della psicoterapia si prende consapevolezza che ci sono parti di sé che sono “gravose e intollerabili e che devono cambiare”.

Qui insorge il ruolo che solitamente, prevalentemente (anche se non esclusivamente), svolge il padre nel rapporto genitori-figli.

Mentre la madre accetta e ama incondizionatamente il figlio, il padre gli impone degli obblighi, in quanto rappresenta “lacanianamente” la Legge; il padre gli indica dei traguardi, degli obiettivi.

Il paradosso della terapia è che ti porta, ti guida ad accettare, fino in fondo, incondizionatamente te stesso, quello che sei; ma, allo stesso tempo, ti chiede di cambiare, di apportare alla tua vita i cambiamenti necessari a realizzare al meglio le tue potenzialità.

La consapevolezza di sé e l’accoglimento/accettazione della propria Ombra costituiscono solo la prima parte della terapia, ne sono la base, ne rappresentano le fondamenta; ma su queste fondamenta bisogna poi costruire il nuovo Sé.

Quello capace di eliminare (il più possibile) dalla propria vita i fattori che generano sofferenze non necessarie e di aprirsi ai piaceri, alle gioie e perfino ai momenti di felicità possibili, alla nostra portata; in altre parole il Sé sano, rigenerato, persino saggio.

5. Qui – dice Hillman – gli opposti si incontrano e si integrano.

Si fa tutto con impegno e al tempo stesso si lascia perdere”; io aggiungo: si fa tutto con impegno, come se si stesse lavorando, e allo stesso tempo si fa tutto allegramente, gioiosamente, come se si stesse giocando; si fa come se tutto dipendesse da noi e allo stesso tempo sapendo bene che non tutto dipende da noi.

“… si giudica con durezza, e si sta insieme contenti.”; io aggiungo: ci si giudica con durezza, paternamente, ma allo stesso tempo ci si giudica con dolcezza, maternamente.

Moralismo occidentale e abbandono orientale”, io preferisco dire “attivismo occidentale e fatalismo orientale” si incontrano e fondono in un singolare, un po’ misterioso e pur reale paradosso.

Il Dio ebraico della Legge, dei dieci Comandamenti e della Giustizia, incontra e si fonde con il Dio ebraico “della misericordia, del perdono e dell’amore”.

Si vive, insomma, come i Chassidim, capaci di unire profondo rigore morale e intenso “piacere per la vita”.

© Giovanni Lamagna

Vero e falso.

Non tutto ciò che non siamo in grado di capire, comprendere, in un dato momento è falso.

Questo però non significa affatto che tutto ciò che non siamo in grado di comprendere sia vero.

Su ciò che non siamo in grado di comprendere dobbiamo, quindi, sospendere il giudizio.

Non possiamo accettarlo per fiducia cieca in qualcuno che ci dice che è vero.

Né possiamo rifiutarlo semplicemente perché noi non siamo in grado di capirlo.

© Giovanni Lamagna

Due modi diversi, anzi opposti, di rapportarsi agli altri.

Ci sono due modi completamente diversi, anzi direi addirittura opposti, di approcciarsi ai rapporti e nei rapporti.

Il primo è quello (supponente, sostanzialmente presuntuoso e chiuso, direi perfino narcisista) di chi ritiene di non aver nulla da modificare di sé stesso.

È l’atteggiamento di chi – consapevolmente o inconsapevolmente – pensa: se l’altro/a mi trova interessante, ha voluto instaurare un rapporto con me, vuol dire che gli/le vado bene così come sono, che non devo cambiare niente di me.

Il secondo è quello (aperto, umile, disponibile, dialogante) di chi considera ogni nuovo incontro, ogni nuovo rapporto che viene ad instaurarsi come una opportunità, che gli/le viene offerta dalle circostanze della vita, per crescere, per migliorare, per evolvere.

E, quindi, è disposto a farsi in qualche modo plasmare dall’altro/a, a prendere dall’altro/a le “cose” che a lui/lei mancano, ad accettare non solo gli apprezzamenti e le lodi (che non possono mancare: effettivamente se l’altro/a è stato attirato/a da noi, vuol dire che ci sono delle cose di noi che gli/le piacciono), ma anche le critiche e i rimproveri.

In altre parole è disposto a modificarsi nel rapporto, consapevole del fatto che ogni nuovo rapporto rappresenta per noi una conferma e una rassicurazione, ma allo stesso tempo ci interpella, ci mette in discussione, ci chiede un cambiamento, in certi casi addirittura una vera e propria conversione a U.

© Giovanni Lamagna

La morte di Dio e il potere dell’uomo.

La perdita della fede nell’esistenza di un Dio trascendente è, a mio avviso, l’esito necessario e inevitabile della constatazione dell’esistenza, dilagante e non certo marginale, del Male nel mondo, soprattutto nella forma del dolore; questo per chiunque abbia non dico una competenza filosofica all’altezza della contemporaneità, ma almeno un adeguato senso critico e non voglia vivere di alienanti illusioni.

Questo male e questo dolore radicali, che arrivano a colpire anche (e persino) gli innocenti, quindi del tutto ingiustificabili ed assolutamente senza senso, sono, infatti, incompatibili con la fede nell’esistenza non solo di un Dio buono e misericordioso (come quello che Gesù chiamava “Padre”), ma anche di un Dio giusto per quanto severo, l’unico Dio in cui avrebbe ancora un senso credere.

E, tuttavia, questa perdita della fede nell’esistenza di un Dio trascendente non può, non deve comportare come conseguenza (altrettanto necessaria e inevitabile) la presunzione da parte dell’uomo che allora tutto è per lui possibile, che tutto gli è consentito, come ipotizzava un personaggio di Dostoevskij in un famoso passaggio de “I fratelli Karamazov”.

O che l’uomo potrà/dovrà addirittura prendere il posto del Dio onnipotente oramai decaduto, come (con esiti – non a caso – devastanti per la sua salute mentale) arrivò a preconizzare Friedrich Nietzsche, il filosofo del Superuomo o dell’Oltre-uomo.

Sarebbe questo non solo il peccato più grande che l’uomo possa commettere; come dice Recalcati, “il solo peccato che nel testo biblico conta, quello della deificazione dell’uomo, di nutrire il desiderio di essere come Dio, di farsi Dio” (da “La legge della parola”; 2022; p. 240); ma sarebbe soprattutto causa della sua perdizione fatale.

Un uomo che, una volta morto Dio, si considerasse assolutamente libero e padrone onnipotente del proprio destino, dio al posto del Dio morto o definitivamente decaduto, sarebbe destinato a perdersi, a dissiparsi, a frantumarsi, a dissolversi, a schiantarsi prima o poi contro il muro della sua presunzione.

Pe cui l’uomo, almeno a mio avviso, anche dopo la morte di Dio, non può fare a meno di accogliere ed accettare l’intrinseca necessità che lo limita, ovverossia l’esistenza dell’Altro, che non sarà più un Dio che gli si impone dall’esterno e lo domina, ma un dio (gli antichi Greci lo avrebbero definito un “daimon”, un demone) che lo abita dentro, che vive nel suo foro interiore.

In questo dovrà consistere la sua nuova fede; sì, fede; non ho esitazione ad usare questo termine (“fede”), pienamente consapevole che esso ha a che fare con l’idea di “religione”; consapevole, dunque, che l’uomo avrà bisogno di aderire a una (per quanto radicalmente nuova) forma di religione (per quanto del tutto laica); se vorrà salvarsi.

Una religione il cui Dio non sarà totalmente, ontologicamente, metafisicamente, altro da sé, come lo era il Dio delle antiche religioni; ma sarà un dio che rappresenterà il vero Sé dell’uomo contemporaneo, la sua voce e il suo Maestro interiore.

Quindi, un dio guida, Ideale dell’Io, Alter-ego, che gli rappresenterà la Legge, che gli porrà certamente dei limiti, ma gli indicherà anche le sue potenzialità, un dio che gli si imporrà come necessità, ma gli rivelerà anche i suoi più profondi e intimi desideri.

Un dio che non sarà certo in grado di cancellare dall’animo umano lo sgomento, l’angoscia e, perfino, il terrore di fronte al Male e al dolore radicali presenti nel mondo, soprattutto di fronte al male estremo rappresentato dalla morte.

Ma sarà capace, però, di consentire all’uomo, che avrà l’umiltà di affidarglisi, di sperimentare (almeno di tanto in tanto) lo stupore, il piacere, la gioia e (in alcuni momenti, che potremmo definire magici) perfino la felicità, di fronte allo splendore del mondo.

“Ormai solo un dio ci può salvare” è il titolo che la redazione del giornale tedesco “Der Spiegel” diede a un colloquio che si svolse tra Heidegger e due inviati del settimanale.

Non sono in grado di dire a quale Dio Heidegger pensasse quando pronunciò questa frase divenuta famosa; e forse nessuno è in grado di dirlo, data la strutturale e paradigmatica oscurità del pensiero complessivo del filosofo tedesco.

So solo dire quale dio – secondo il mio pensiero – potrà salvarci: è quello che ho provato a descrivere (non so fino a che punto riuscendovi con chiarezza) fin qui con questa mia riflessione.

© Giovanni Lamagna