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L’amore per gli altri.

L’amore per gli altri è premio a sé stesso.

Non ha bisogno dell’attesa di ricompense o premi.

Non ha bisogno, quindi, di sperare nel Paradiso.

Che è pura illusione.

In questa falsa speranza sta l’aspetto più caduco del Cristianesimo.

Il nocciolo duro del messaggio cristiano sta nell’amore per gli altri.

Che ci salva dal narcisismo, dall’egocentrismo, dal triste e malsano ripiegamento su noi stessi.

E, quindi, è terapeutico.

Perciò basta a sé stesso; non ha bisogno di premi o ricompense in un aldilà ipotetico.

© Giovanni Lamagna

Ci sono fatiche e fatiche, sofferenze e sofferenze, sacrifici e sacrifici.

Io ritengo che ci siano fatiche e fatiche, come sofferenze e sofferenze, sacrifici e sacrifici.

Una cosa è la fatica, il sacrificio, alle volte perfino la sofferenza, funzionali a raggiungere un determinato obiettivo, un certo scopo, che, una volta raggiunti, saranno poi per noi fonti di piacere, a volte di gioia, in certi casi addirittura di vera e propria felicità, insomma di realizzazione e appagamento, per quanto parziali, della nostra vita.

Parlo qui ovviamente di questa vita, questa vita terrena, non un’ipotetica vita futura, ultraterrena, post mortem.

In questo caso la fatica, i sacrifici, la sofferenza sono spesso ineludibili, i passaggi necessari, indispensabili, per raggiungere una condizione di vita che presumiamo, almeno nelle aspettative, superiore a quella nella quale ci troviamo prima di affrontarli.

La fatica del giovane che si vuole laureare, la fatica del lavoratore che vuole ottenere una promozione, la fatica di chi sta scrivendo un libro, la fatica e i sacrifici dell’atleta che si allena per una gara: sono questi citati (ma se ne potrebbero ovviamente fare mille altri) esempi di fatiche, di sacrifici (a volte vere e proprie sofferenze) che hanno un senso, perché sono passaggi obbligati in vista del raggiungimento di un obiettivo concreto, realistico, da raggiungere entro l’orizzonte terreno di questa vita.

Altra cosa è desiderare e perseguire il dolore, la sofferenza, il sacrificio, metaforicamente la croce, in sé, (almeno apparentemente) fini a sé stessi: mettersi, ad esempio, il cilicio o dormire sulla nuda terra; come hanno fatto alcuni mistici nel passato e forse fa ancora oggi qualcuno.

Questo può avvenire, per quello che ne capisco io, solo per due motivi: o per espiare una colpa (vera o presunta che sia) o per raggiungere un premio ultraterreno.

Anche in questi due casi, dunque, possiamo dire che la sofferenza non è un fine in sé, ma un mezzo, una via, ritenuti congrui rispetto ad un fine che si vuole raggiungere, che non è mai la sofferenza in sé.

In altre parole non si sceglie, non si “ama” la croce in sé, ma si ama e si desidera quello che ci attende dopo essere passati per la “via crucis”.

E però, in entrambi questi casi, la scelta è, comunque, quanto meno discutibile.

Infatti, la colpa non si cancella (almeno a mio avviso) con questo tipo di espiazione; il modo migliore di saldare i conti con una colpa commessa non è quello di autoflagellarsi, ma quello di cambiare vita, impegnandosi a non ricadere mai più in quella stessa colpa.

Nel secondo caso non ha senso rinunciare ai piaceri e alle gioie concreti (e certi) che sono alla nostra portata, nella vita che oggi stiamo vivendo, nella prospettiva/attesa di piaceri e gioie (incerti) che potrebbe destinarci una (solo presunta) vita futura.

Nessuna fede, infatti, ma solo un cieco fanatismo, ci dà la certezza che una vita futura, dopo la morte, compenserà i sacrifici compiuti nella vita attuale.

Solo un latente (ma a volte manco tanto latente) masochismo può spiegare una simile scelta.

© Giovanni Lamagna

Misticismo e movimento.

I mistici non sono “statici”, come afferma Franco Ferrarotti, “in attesa dell’estasi”.

A parte che la parola “estasi” (dal greco “ἔκ: fuori” + “στασις: stato”) vuol dire, letteralmente, “uscita da”.

Uscita da dove?

Dal proprio Sé (quello, sì, statico) per andare verso l’Altro da sé.

L’ estasi comporta, quindi, per definizione, un movimento.

Come potrebbe allora avvenire questo movimento, se i mistici stessero fermi?

Ma poi i mistici non stanno semplicemente, passivamente, “in attesa dell’estasi”.

Essi sono alla ricerca, una ricerca attiva, dell’estasi; l’estasi è, appunto, il risultato finale, l’approdo, il frutto, potremmo anche dire il premio, di questa loro ricerca.

I mistici, dunque, si muovono eccome, al contrario di quello che pensa Ferrarotti.

Solo che si muovono con lo spirito, anche quando stanno fermi, immobili, col corpo.

E il movimento spirituale, quello che avviene nella contemplazione, che precede e si realizza compiutamente nell’estasi, è il più importante.

Ben più importante di quello che avviene semplicemente col corpo, quando il corpo compie alcune azioni esteriori.

© Giovanni Lamagna

Genitori e figli, maestri e allievi.

I figli e gli allievi non vanno trattati né con troppa durezza né con troppa mollezza.

Il bravo genitore e il bravo maestro sanno adoperare, a seconda delle situazioni, il rimprovero o l’elogio, la punizione o il premio, i divieti o i permessi, la severità o la dolcezza, i freni o gli incoraggiamenti.

Un eccesso di durezza fa crescere figli e allievi dispettosi e rancorosi.

Un eccesso di mollezza figli e allievi fiacchi e infingardi.

© Giovanni Lamagna