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Invidia del pene?

Ogni essere umano vive una mancanza, si sente mancante di qualcosa: è normale!

“Mancanza”, però, non è sinonimo di “mutilazione”; né sul piano psicologico, né, tantomeno, su quello fisico.

Quindi ha senso, ha un suo fondamento, affermare – come ha fatto Freud – che le donne avrebbero “l’invidia del pene”.

A patto, però, di ipotizzare – per analogia – che anche gli uomini hanno invidia di qualcosa; ad esempio, “l’invidia del seno”.

Come sembra dimostrato – in modo inequivocabile – dalla conversazione tra Marco e Paola di qualche giorno fa: “Mamma, vorrei avere anche io le tette come le hai tu; perché non sono nato femmina?”

© Giovanni Lamagna

Due modi opposti di reagire alla “mancanza-a-essere”.

Ciascuno di noi può reagire allo stato strutturale di mancanza, di imperfezione, che ci caratterizza come umani, in due modi molto diversi tra di loro, anzi opposti.

O con l’atteggiamento negativo, deluso, chiuso, ripiegato su sé stesso, rassegnato, disincantato, a volte addirittura disperato di chi tende alla depressione o è un depresso acclarato.

O con l’atteggiamento positivo, aperto, speranzoso, luminoso, anche se realistico, di chi attiva il proprio desiderio, originato appunto dalla mancanza, e cerca di soddisfarlo, per quanto è possibile.

© Giovanni Lamagna

Anoressia e bulimia.

Anoressia e bulimia sono le due facce della stessa medaglia.

Entrambe sono la manifestazione esplosiva di una storia infantile infelice, di un cattivo e insoddisfacente rapporto con la madre, con la Cosa materna, specie col seno della madre.

La bulimia, che è la tendenza a ingozzarsi senza limiti, tende a recuperare ossessivamente e maniacalmente il seno materno, per superare l’angoscia della mancanza e della insoddisfazione evidentemente vissuta nella fase orale dell’infanzia.

L’anoressia, al contrario, per il timore di rivivere questa angoscia, per non sperimentare nuovamente il dramma del rifiuto, fa una scelta opposta a quella bulimica: opera quindi un taglio estremo con l’alimentazione.

Rinuncia radicalmente al suo bisogno/desiderio e in questo modo si illude di sfuggire all’angoscia di rivivere, risperimentare l’esperienza primaria, quella del rifiuto vissuto da bambina, del cattivo rapporto col seno materno.

© Giovanni Lamagna

Fuga dal dolore della perdita, reale o anche solo temuta.

Il concetto di “fuga nella guarigione” in psicoterapia è molto importante.

Esso sta a indicare che il soggetto precorre i tempi della guarigione; si illude di essere guarito anzitempo, appena si sente un po’ meglio e più rinfrancato, rispetto alla condizione in cui si trovava quando era entrato in terapia.

In questo caso il soggetto, anziché elaborare fino in fondo il “lutto”, da cui derivava la sua sofferenza (cioè la perdita, la mancanza, dell’oggetto a lui più caro, per lui fondamentale), prende una scorciatoia per risolvere velocemente, il più in fretta possibile, il lutto.

Trova cioè un sostituto dell’oggetto perduto prima di averne elaborata fino in fondo la perdita o l’assenza.

In questo modo l’oggetto sostituto surroga (anche se al momento e solo provvisoriamente e superficialmente) l’assenza dell’oggetto perduto e non consente una piena e risolutiva elaborazione del lutto.

Che continuerà, quindi, ad agire in maniera subdola e sotterranea nella psiche del soggetto, che non lo ha veramente elaborato del tutto, minandone, corrodendone l’equilibrio e il benessere psichico.

Oltre a impedirgli di trovare un vero sostituto, all’altezza dell’oggetto d’amore perduto, e non un suo surrogato, che ovviamente non sarà mai in grado di riempire il vuoto creato dal lutto.

p. s. Questo movimento si verifica spesso anche fuori della psicoterapia, nelle normali relazioni.

Quando, di fronte ad un abbandono o anche solo alla sua minaccia, una persona sostituisce subito o addirittura preventivamente l’oggetto d’amore perduto, anziché elaborare fino in fondo il dolore della perdita subita o anche solo temuta.

© Giovanni Lamagna

Istinto, pulsione, desiderio e “legge di castrazione”.

Il puro istinto per diventare pulsione e, quindi, desiderio, nell’uomo ha sempre bisogno di trovare un ostacolo, un freno, un limite.

Quella che Massimo Recalcati (con il suo maestro Lacan) chiama “la legge della castrazione”.

La quale non impedisce né vieta affatto il godimento, ma semplicemente lo sposta dal suo primo oggetto (la “Cosa” materna) e lo rinvia ad altri oggetti.

Nel desiderio, pertanto, non c’è mai piena e totale corrispondenza tra la spinta a desiderare e l’oggetto desiderato.

Permane sempre una distanza, una mancanza.

Ma è proprio questa, che – come del resto ci insegna il mito – alimenta il desiderio e lo tiene non solo costantemente vivo, ma lo rende – a differenza del puro istinto animale – strutturalmente “perverso e polimorfo”.

© Giovanni Lamagna

Non tutti quelli che vi aspirano sono predisposti, adatti a diventare psicoterapeuti.

In un colloquio del 21 novembre 1958 Carl Gustav Jung così riferisce alla sua collaboratrice Aniela Jaffé, che ne ha raccolto le parole:

Ho una capacità immediata di immedesimarmi negli altri, cosicché mi posso identificare con “n’importe qui”. Riesco a sentirmi, per così dire, sulla sua lunghezza d’onda. Mi sono sempre meravigliato che altre persone non riescano a farlo, e ho pensato che ciò sia dovuto a una mancanza di fantasia. Oppure che siano troppo rigidamente imprigionate nella propria linea personale.

A volte mi spavento nel vedere con quanta immediatezza io riesca a entrare nelle sensazioni vissute da altri esseri umani. Mi ci trovo semplicemente dentro, senza far nulla attivamente al riguardo. Io so poi esattamente quali sentimenti provino gli altri, soprattutto coloro che presentano qualche aspetto difficile da comprendere. Ne osservo magari l’andatura. Imito dentro di me il modo in cui camminano o come muovono le mani, e in questo modo scopro quali sentimenti si instaurino in me.

Un appellativo del Buddha, Tathagata, significa letteralmente “colui che così va”: colui che si muove in modo molto caratteristico. Questa è proprio l’espressione che indica l’individualità specifica di ciascuno. Il modo in cui uno cammina è molto peculiare. È essenzialmente la situazione umorale del momento che viene espressa nell’andatura; e questo mi colpisce a livello subliminale.

Dato che sono sufficientemente sicuro di me, posso lasciarmi andare a tali identificazioni; so di poterne uscire di nuovo. Io mi identifico con l’altro e lo riconosco, ma la cosa non riesce a sopraffarmi. Lei potrebbe restarne sommersa e ne sarebbe danneggiata; io invece ne riemergo come da un’onda di risacca.

(da Aniela Jaffé; “In dialogo con Carl Gustav Jung”; Bollati Boringhieri 2023; p. 149-150)

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In questo scritto viene fuori una straordinaria dote umana di Jung, di cui egli parla con molta semplicità e naturalezza, senza alcuna presunzione, ma, allo stesso tempo, con grande lucidità e consapevolezza: la capacità (possiamo anche dire innata) di leggere nel cuore degli altri, di intuirne stati d’animo e problematiche.

In altre parole l’empatia, termine oggi molto usato, forse persino abusato; dal momento che pochi poi in realtà la posseggono; come lo stesso Jung, maliziosamente, tra le righe sembra lasciare intendere.

Qui la prima riflessione che mi viene da fare è questa: non è l’empatia una dote/qualità che tutti gli psicoterapeuti dovrebbero possedere, in partenza, ancora prima di iniziare i loro studi e il loro percorso di formazione?

A cosa potranno, infatti, servirgli le nozioni apprese a scuola prima e all’Università poi e i corsi di formazione specialistica successivi, se ad un futuro psicoterapeuta manca questa dote/qualità di base, fondamentale?

Seconda riflessione: quanti psicoterapeuti, con tanto di laurea e corsi di specializzazione postlaurea, posseggono (anche solo a livelli ordinari) la qualità empatica di cui parla qui Jung e che lui aveva in maniera straordinaria e, forse, come dote innata?

A mio avviso, anzi a mia conoscenza, ben pochi!

Terza riflessione: non tutti sono adatti a fare gli psicoterapeuti; come non tutti – lo dico en passant – sono adatti a fare gli insegnanti; ci vogliono doti umane naturali e in un certo senso innate, che ben difficilmente si possono acquisire con lo studio e con la formazione; anche con le migliori intenzioni e con la migliore disposizione della volontà.

Lo studio e la formazione le possono affinare, arricchire, ma non le possono generare, creare, se esse non ci sono, in qualche modo e misura, già in partenza.

Non basta, dunque, desiderare o aspirare a fare lo psicoterapeuta o l’insegnante; bisogna esservi anche in qualche modo naturalmente predisposti.

© Giovanni Lamagna

Amore e mancanza.

Amare qualcuno vuol dire ammettere, riconoscere, innanzitutto a sé stessi, che egli ci manca.

Se l’altro non mi manca, vuol dire che non lo amo.

O, perlomeno, non lo amo abbastanza: il mio amore è fiacco, debole, esangue.

© Giovanni Lamagna

Difficoltà a parlare e scrivere.

Non è vero, a mio avviso, che l’incapacità di parlare o di scrivere in maniera adeguata dipenda (innanzitutto) dalla mancanza o carenza di strumentazione tecnica: la conoscenza del lessico, dell’ortografia, della grammatica e della sintassi…

Io credo che dipenda piuttosto e innanzitutto dalla difficoltà/incapacità di entrare in contatto con i propri pensieri, i propri sentimenti, le proprie emozioni, con le proprie pulsioni primarie.

Insomma da una carenza di vita interiore o da una sua scissione.

È questa incapacità di vedere e di leggere pensieri, sentimenti, emozioni, pulsioni, che sicuramente abitano in ognuno di noi, che ci rende difficile (o, addirittura, impossibile) trovare le parole e la loro giusta disposizione per dirli/e, esprimerli/e.

Se questa incapacità o queste difficoltà, che sono di natura psicologica, vengono superate, si risolvono, in maniera quasi automatica, anche la incapacità o le difficoltà di natura tecnica a parlare e scrivere.

© Giovanni Lamagna

Amore e amicizia in questa fase della mia vita.

Non so a chi possa interessare, ma oggi avverto il bisogno di comunicare questo mio stato dell’anima.

Purtroppo, da quando sono entrato nella terza età, non vivo più l’amore e l’amicizia come esperienze stabili e continuative.

Li ho vissuti in passato, ma oggi non più.

Li vivo piuttosto come momenti, come sprazzi, a volte molto felici e gratificanti, ma sempre alquanto saltuari ed episodici.

Alternati a prolungati momenti di solitudine e dolorosa mancanza di comunicazione con gli altri.

Mi piacerebbe confrontarmi con quelli che, essendo più o meno miei coetanei, provano (o non provano) questa mio stato d’animo.

© Giovanni Lamagna

Poliamore, responsabilità e contesto sociale.

Il problema principale che si pone nelle cosiddette “relazioni poliamorose” è quello della “mancanza di responsabilità”.

I poliamoristi vengono criticati severamente, da autorevoli psicologi e sociologi, oltre che dal senso comune, perché non si assumerebbero la responsabilità delle loro molteplici relazioni, che vivrebbero in modo assolutamente caotico, anarchico, quindi egocentrico e narcisistico.

La loro idea dell’amore sarebbe quella – a voler utilizzare un linguaggio lacaniano – di un “godimento senza limiti”, perciò, per sua natura, – direbbe Massimo Recalcati – “mortifero”.

Ora io dico: se una persona si comporta, invece, in maniera pienamente responsabile e trasparente verso tutte le persone con le quali entra in rapporti intimi plurimi, non vedo perché il “poliamore” dovrebbe costituire un problema per le relazioni umane.

Il problema diventa semmai quello di riconoscere, da parte della società, pari dignità sia alle relazioni mono-amorose-tradizionali sia a quelle poli-amorose alternative.

Costruendo poi un sistema istituzionale e organizzativo che non solo le riconosca sul piano formale e quindi anche giuridico, ma ne favorisca la gestione dal punto di vista dei singoli individui e da quello dei loro legami con l’intero corpo sociale.

Ciò che, tra l’altro, incentiverebbe l’assunzione delle proprie responsabilità da parte di coloro che propendono per questo tipo di relazioni, perché le farebbe emergere dalla irregolarità e, quindi, clandestinità, a cui esse il più delle volte sono costrette.

E, quindi, risolverebbe (o perlomeno, aiuterebbe a risolvere) la principale ragione delle critiche (non del tutto infondate) che di solito vengono mosse ai poli-amorosi.

© Giovanni Lamagna