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Bianco o nero?

La felicità, la gioia, il piacere, perfino il buonumore non sono l’esatta antitesi del dolore, della sofferenza, del lutto, della malattia.

Ci sono situazioni in cui essi si alternano a breve distanza di tempo o sono addirittura misteriosamente compresenti.

La vita non è fatta solo di bianco o di nero, ma è un impasto strano, a volte inspiegabile, assurdo, di opposti, apparentemente inconciliabili.

© Giovanni Lamagna

L’Altro da me.

“L’altro da me” non esiste, è il frutto di una mia invenzione/creazione.

O, meglio, della mia capacità di simbolizzazione.

Ovverossia della capacità di sostituire all’Oggetto primario perduto (la Cosa materna), interdettomi dalla Legge di castrazione del Padre, un oggetto simbolico.

“L’altro da me”, dunque, non esiste.

Eppure è ciò che mi permette di poter continuare a dare un senso alla mia esistenza.

Che mi permette di recuperare il senso smarrito dopo il lutto della perdita dell’oggetto primario: “la Cosa”, di cui parlava Lacan.

© Giovanni Lamagna

Fuga dal dolore della perdita, reale o anche solo temuta.

Il concetto di “fuga nella guarigione” in psicoterapia è molto importante.

Esso sta a indicare che il soggetto precorre i tempi della guarigione; si illude di essere guarito anzitempo, appena si sente un po’ meglio e più rinfrancato, rispetto alla condizione in cui si trovava quando era entrato in terapia.

In questo caso il soggetto, anziché elaborare fino in fondo il “lutto”, da cui derivava la sua sofferenza (cioè la perdita, la mancanza, dell’oggetto a lui più caro, per lui fondamentale), prende una scorciatoia per risolvere velocemente, il più in fretta possibile, il lutto.

Trova cioè un sostituto dell’oggetto perduto prima di averne elaborata fino in fondo la perdita o l’assenza.

In questo modo l’oggetto sostituto surroga (anche se al momento e solo provvisoriamente e superficialmente) l’assenza dell’oggetto perduto e non consente una piena e risolutiva elaborazione del lutto.

Che continuerà, quindi, ad agire in maniera subdola e sotterranea nella psiche del soggetto, che non lo ha veramente elaborato del tutto, minandone, corrodendone l’equilibrio e il benessere psichico.

Oltre a impedirgli di trovare un vero sostituto, all’altezza dell’oggetto d’amore perduto, e non un suo surrogato, che ovviamente non sarà mai in grado di riempire il vuoto creato dal lutto.

p. s. Questo movimento si verifica spesso anche fuori della psicoterapia, nelle normali relazioni.

Quando, di fronte ad un abbandono o anche solo alla sua minaccia, una persona sostituisce subito o addirittura preventivamente l’oggetto d’amore perduto, anziché elaborare fino in fondo il dolore della perdita subita o anche solo temuta.

© Giovanni Lamagna

Maternità e femminilità.

Leggo da Massimo Recalcati (“Le mani della madre”; Feltrinelli 2015; p. 52-53):

Per ogni bambino è fondamentale far esperienza tanto della presenza della madre quanto della sua assenza.

Senza sperimentare l’alternanza dell’assenza e della presenza della madre, la presenza può acquisire tratti persecutori, diventando soffocante, mentre l’assenza può suscitare vissuti depressivi e abbandonici…

… è necessario che si possa fare il lutto della madre simbolizzando la sua assenza.

Per Melanie Klein è questa la condizione a fondamento della creatività e della sublimazione; solo se si apre il vuoto, solo se si sperimenta e si simbolizza la perdita dell’oggetto – l’assenza della madre – diventa possibile il gesto creativo.”

E mi chiedo: quante madri – dopo aver vissuto l’esperienza della maternità – sono capaci di recuperare pienamente il loro ruolo di donna, anzi la dico tutta, utilizzando un termine ancora più forte e ricco di significato in questo contesto: il loro ruolo di femmina?

In modo da alternare l’assenza e la presenza della loro figura nel rapporto coi figli.

Quante donne, in altre parole, hanno risolto il loro attaccamento alla figura materna, avendo superato l’angoscia legata al fantasma dell’abbandono da parte della loro madre?

E sanno (o, meglio, sono consapevoli) che, quindi, l’assenza momentanea non è sinonimo di abbandono di un figlio; e che, pertanto, non causerà nessuna angoscia particolarmente traumatica nel figlio, dal quale ci si separa per un qualche tempo.

Quante madri, in altre parole, non hanno mai superato l’angoscia dell’abbandono provato nella separazione – anche momentanea, dovuta alle inevitabili, molteplici incombenze della vita – dalle loro madri e la trasferiscono poi – pari, pari – nel rapporto coi loro figli, cercando il più possibile – in una sorta di delirio di onnipotenza – di evitargliela?

Ho il sospetto che, ancora oggi, ben poche donne riescano a risolvere questo legame originario, quasi ombelicale, anche se oramai solo simbolico, con le loro madri.

E ciò è causa di seri problemi nelle loro dinamiche familiari.

In quelle coi figli, innanzitutto, che – come dice molto lucidamente Massimo Recalcati – vivranno la presenza materna come indispensabile ma anche come soffocante; incapace quindi di promuovere in loro l’autonomia e la sublimazione del bisogno di attaccamento, che sono premessa di ogni gesto creativo.

E poi (cosa non meno grave) – aggiungo io – per il legame coniugale che lega queste donne al loro compagno di vita.

Legame che, non a caso, va spesso in crisi, perché relegato ad un ruolo secondario e subordinato, quasi fosse scontato e si mantenesse in vita da solo, senza bisogno di “alimento” (fisico e spirituale) dopo la nascita di un figlio; a maggior ragione dopo la nascita di più figli.

© Giovanni Lamagna

Sulla elaborazione di un lutto.

Quando si vive un lutto (cioè il dolore profondo che ci colpisce per la perdita di qualcuno o qualcosa a cui eravamo legati da amore) il primo passo per elaborarlo (e, quindi, per uscirne, per superarlo) non è quello (come molti pensano) di rimuovere, dimenticare, allontanare il pensiero, l’immagine dell’oggetto amato che si è perduto.

Ma piuttosto il contrario: il primo passo dovrebbe essere quello di renderlo ancora più presente nella nostra memoria e nella nostra coscienza, fino a farlo diventare così parte di noi, da non sentire quasi più il bisogno della sua presenza fisica e, quindi, attutire, addolcire il dolore che la perdita di questa presenza causava.

Forse è questo il processo psichico a cui alludeva Gesù, quando, poco prima di esser preso prigioniero e sottoposto al martirio del Golgota (fatti che Gesù sapeva bene sarebbero avvenuti di lì a poco), disse ai suoi discepoli: “Ma io vi assicuro che per voi è meglio se io me ne vado” (Vangelo di Giovanni; 16, 7).

Evidentemente il suo “andare via”, quindi la perdita della sua presenza fisica, il lutto che questo avrebbe causato nei suoi discepoli, erano condizioni imprescindibili perché la sua presenza spirituale si radicasse ancora di più nei loro cuori; (“Perché, se non me ne vado, non verrà da voi lo Spirito che vi difende”; ibidem).

La sua morte, il suo allontanamento fisico, erano pertanto necessari, affinché potesse avvenire nei discepoli quello che di lì a poco Paolo di Tarso dirà essere avvenuto in lui: “Non sono più io che vivo: è Cristo che vive in me.” (Lettera ai Galati; 2, 20).

A mio avviso, secondo la mia esperienza e per concludere questa breve riflessione, chi non vive il lutto in questo modo, cioè chi lo supera in modo eccessivamente frettoloso o addirittura lo rimuove del tutto, è destinato a rimanere con una ferita sempre aperta, che non si rimarginerà mai.

Nonostante egli voglia convincersi (o si sia magari convinto) di aver completamente dimenticato, rimosso dalla propria coscienza, l’oggetto d’amore perduto e, quindi, superato del tutto e definitivamente il dolore della sua perdita.

Questa speranza/convinzione si rivela ancora più falsa ed illusoria, quando la perdita avviene in seguito a un “tradimento” da parte della persona che egli/ella amava, a cui era profondamente legato/a.

In questo caso l’orgoglio ferito blocca un’adeguata interiorizzazione dell’oggetto perduto, addirittura provoca il suo rifiuto, la sua espulsione, il suo rigetto rancoroso dal proprio spazio interiore ed affettivo.

E ciò impedisce, per conseguenza, una soddisfacente elaborazione della perdita vissuta.

© Giovanni Lamagna

Lutto e nostalgia.

Giustamente Massimo Recalcati, nel suo “La luce delle stelle morte” (Feltrinelli, 2022) distingue il sentimento del lutto da quello della nostalgia; anche se questi due sentimenti hanno molte cose in comune.

Entrambi si riferiscono ad una perdita; il sentimento del lutto, però, ad una perdita recente, quello della nostalgia ad una perdita (più o meno) lontana nel tempo.

Il lutto ad una perdita che non è stata (appunto perché troppo recente) ancora elaborata.

La nostalgia ad una perdita che è stata oramai elaborata, assorbita, accettata, anche se non del tutto superata; come non lo sono mai del tutto le perdite, secondo Recalcati.

Il lutto, infatti, si riferisce ad una ferita ancora aperta, che sanguina ancora.

La nostalgia ad una ferita che oramai si è chiusa, cicatrizzata, ma che comunque ha lasciato un segno indelebile sulla pelle.

Il lutto vive di un dolore atroce, in certi casi disperato; nel lutto ci si sente mancare la terra sotto ai piedi; si può arrivare a provare la sensazione che niente abbia più senso, addirittura che non abbia più senso continuare a vivere.

La nostalgia è anch’essa accompagnata comunque da un dolore, ma un dolore che si è addolcito, che ha trovato consolazione, al termine di un tempo, di un processo, più o meno lungo, mai comunque troppo breve (dice sempre Recalcati), di elaborazione del lutto.

Con la nostalgia la perdita è vissuta ancora indubbiamente come una mancanza, ma una mancanza che il ricordo rende in qualche modo ancora – anzi di nuovo – presenza.

Il dolore della nostalgia non è più, dunque, un dolore disperato, ma è un dolore che ha ritrovato il senso e la voglia, nonostante tutto, di vivere.

Nel momento del lutto la vita di chi ha subito la perdita in qualche modo si blocca, si ripiega su stessa, ha lo sguardo tutto rivolto al passato, un passato estinto, che non tornerà mai più; il lutto è segnato dal pianto, dalle lacrime, spesso disperate.

Il sentimento della nostalgia, invece, è compatibile con la ripresa del fluire della vita, con la capacità di guardare in avanti, di sorridere al futuro, sia pure con lo sguardo velato dalla tristezza di chi – al pensiero della perdita della persona cara – continua (ancora e, forse, per sempre) a sentirne la mancanza.

© Giovanni Lamagna

E’ possibile il lavoro di elaborazione di un lutto?

Secondo Massimo Recalcati il lavoro di elaborazione di un lutto, al contrario di quello che pensa Freud, non si completerebbe mai definitivamente e del tutto.

Per Freud il compimento del “lavoro del lutto” porterebbe all’oblio (uno “strano oblio”) dell’oggetto perduto e al ristabilimento, ripristino, delle funzioni della libido.

Che, dopo un lutto, resta attaccata all’oggetto perduto e quindi bloccata, per un tempo fisiologico: e questo è del tutto normale.

Ma, una volta elaborato il lutto, riprenderebbe a fluire di nuovo e a poter essere investita su nuovi oggetti.

Secondo Recalcati, invece, questa visione di Freud è troppo idilliaca e sarebbe smentita dall’esperienza psicoanalitica.

Secondo Recalcati il lutto non può mai essere elaborato del tutto; una parte di libido resterebbe quindi attaccata per sempre all’oggetto perduto.

Cosa penso io di questa piccola diatriba virtuale tra Recalcati e Freud?

Penso che abbiano ragione entrambi.

Penso che abbia ragione Recalcati a sostenere che dopo ogni morte di una persona che ci era cara, una parte di noi muore con lei; e che da questo punto di vista, quindi, nessuna ferita causata da una perdita luttuosa sia mai del tutto rimarginabile.

Ogni perdita causata da una morte accresce in noi la consapevolezza di dover morire, del nostro “essere per la morte”; consapevolezza che non è ovviamente solo intellettuale, ma è soprattutto emozionale ed affettiva.

Quindi ogni lutto fa venire fuori, rende manifesta, in noi una quota di melanconia latente, che è parte fondante del nostro essere mortali.

Penso, però, che abbia anche ragione Freud; che sia possibile cioè o, almeno, che sia possibile per una persona con una psiche mediamente sana, riuscire a convivere, in uno stato relativamente sereno, con questo fondo di melanconia, che lievita ogni volta in noi quando siamo colpiti da un lutto, specie quando muore una persona che ci era molto vicina e cara.

Che sia possibile non dico dimenticare prima o poi la persona che è morta, ma convivere abbastanza serenamente con il pensiero/memoria della sua perdita, della sua assenza, oramai irrecuperabile, nella nostra vita.

E che, quindi, la nostra vita possa riprendere non dico come prima ma quantomeno con la stessa voglia di vivere, di godere dei piccoli o grandi piaceri, delle piccole o grandi gioie, che la vita può continuare, nonostante tutto, a donarci.

Penso, in estrema sintesi, che la nostra libido, dopo una fase di annebbiamento, di occultamento, di appassimento, possa riprendersi, rinascere, tornare a rivivere, a trovare altri oggetti su cui investire e provarne gratificazione.

Senza farsi paralizzare dai sensi di colpa (quasi che la morte della persona a noi cara fosse in qualche modo colpa nostra) o dalla devastante, perversa, appercezione/associazione che alla persona defunta si legasse il senso stesso della nostra esistenza, per cui, venuta meno lei, sarebbe venuto meno anche il senso stesso del nostro vivere.

© Giovanni Lamagna

Stagnazione melanconica del lutto versus elaborazione simbolica della perdita.

“Il dolore del lutto è sempre statico, esclude il movimento e la trasformazione proprio perché rifiuta di riconoscere pienamente la separazione dall’oggetto perduto.” (Massimo Recalcati; “La luce delle stelle morte”; 2022 Feltrinelli; pag. 46).

Aggiungo che quando il dolore del lutto si prolunga oltre un certo limite questo è il segno che è sopraggiunta una depressione; o, meglio, che il lutto ha “risvegliato” ed attivato una depressione che era già potenziale, latente.

Significa che il soggetto depresso è stato risucchiato in un gorgo mortifero, che è attratto più dalla presenza di chi e di ciò che è morto che da quella di chi e di ciò è ancora vivo; in altre parole è attirato più dalla morte che dalla vita.

Ma non è il prolungamento anomalo del lutto, la cronicizzazione del lutto, l’incapacità di elaborare simbolicamente la perdita della persona defunta, che attivano la melanconia, la depressione, quella che Recalcati definisce “la stagnazione melanconica del lutto” (ibidem; pag. 46).

E’ – a mio avviso – piuttosto il carattere (potenzialmente, latentemente o manifestamente) depresso del soggetto che vive un lutto a prolungare questo lutto oltre limiti anomali, a renderlo cronico, incapace di una sua elaborazione simbolica.

Nella persona sana il lutto, prima o poi, viene elaborato e superato; la persona sana prima o poi simbolizza la separazione e la supera; nella persona sana l’istinto di vita prevale prima o poi sull’istinto di morte.

La persona sana prima o poi riprende in mano la sua vita, ricomincia a guardare al futuro; la persona insana rimane, invece, bloccata sul passato, prigioniera della nostalgia, anzi del rimpianto, incapace di guardare in avanti, alle persone e alle cose che sono rimaste in vita.

A questo punto però mi chiedo: che vuol dire “simbolizzare una separazione”, “elaborare un lutto”?

A mio avviso, vuol dire fare un percorso interiore (Recalcati lo chiama un “lavoro”), tale che la persona perduta entri simbolicamente, cioè psicologicamente, (potrei dire anche spiritualmente, se non temessi il fraintendimento del termine) a far parte di noi.

Che non la viviamo più come separata, altro da noi (come in un certo senso – per certi aspetti addirittura paradossali – era quando stava con noi), ma l’abbiamo come interiorizzata, fatta diventare oramai una parte stabile di noi.

Quando la separazione e il lutto sono stati elaborati, il ricordo della persona perduta (e di tutto ciò che ad essa si riferisce) è dolce, ci fa teneramente compagnia, ci aiuta addirittura a vivere e a progettare il futuro, per certi aspetti ce la rende ancora più presente di quando stava fisicamente con noi.

Ricordo qui (quasi per inciso) una frase alquanto oscura di Gesù (riportata dal Vangelo di Giovanni 16,7-15), ma che, alla luce della riflessione che sto in questo momento svolgendo, può risultare meno oscura o addirittura trasparente: “E’ bene per voi che io me ne vada perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paràclito; se invece me ne vado, lo manderò a voi”.

Il Paràclito è qui da intendersi come lo Spirito Santo, cioè Gesù stesso in forma spirituale, interiorizzata.

Ricordo che Gesù rivolge queste parole ai suoi discepoli, poco prima del suo arresto e della sua crocifissione, per consolarli ed aiutarli ad accettare la sua morte, la sua perdita, il suo allontanamento fisico (ma non certo spirituale; anzi!) dalle loro vite.

Secondo questa profezia e questo auspicio di Gesù la sua morte avrebbe addirittura giovato ai suoi discepoli, nel senso che li avrebbe costretti – in mancanza della sua presenza fisica – ad interiorizzare la sua realtà spirituale, a farla diventare carne della loro carne, fino a poter dire (come dirà effettivamente un giorno Paolo di Tarso): “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (Lettera ai Galati; 2, 20).

In questo caso la morte è vissuta come separazione fisica, indubbiamente dolorosa, perfino lacerante, straziante, almeno inizialmente, ma infine, prima o poi, come ricongiungimento spirituale, resurrezione in qualche modo della persona morta, addirittura più presente spiritualmente di quando essa era ancora fisicamente viva, generatrice di linfa ed energia vitale in chi le è sopravvissuta.

Al contrario nella “stagnazione melanconica del lutto” il morto prende il posto dei vivi, li sopravanza e quasi li oscura con la sua presenza fantasmatica, quasi li caccia fuori dalla scena dell’esistenza, il passato si sostituisce al presente e nientifica ogni prospettiva di futuro, la nostalgia e il rimpianto impediscono il godimento di chi (e anche di ciò che) è rimasto vivo.

Nella “stagnazione melanconica del lutto” il ricordo della persona perduta è ossessivo, amaro, persecutorio, colpevolizzante, onnipresente.

Lungi dall’aiutare la persona sopravvissuta (come nella profezia e nell’auspicio evangelici) a vivere, a continuare a vivere, anzi (in quel caso) a nascere addirittura a nuova vita, le rovina e intossica l’esistenza.

La morte – quando il lutto ristagna melanconicamente – attrae e risucchia nel suo gorgo depressivo e distruttivo la vita, il freudiano istinto di morte prevale sull’istinto di vita, la necrofilia (cito qui Erich Fromm) vince sulla biofilia.

© Giovanni Lamagna

Perdere chi dava senso alla nostra vita significa perdersi?

Davvero “Perdere chi dava senso alla nostra vita significa perdersi”, come afferma Massimo Recalcati a pag. 27 del suo “La luce delle stelle morte” (2022 Feltrinelli)?

No, non lo penso.

Certo, non ci sono dubbi manco per me, che la perdita di un’amicizia e, ancora più, di un amore (di un genitore, di un amante, di un figlio…) comporti un dolore, più o meno grande, più o meno lacerante, a seconda del significato e del valore che il legame con loro aveva per noi.

E’ innegabile – non c’è dubbio manco per me – che la perdita di un legame significativo crei in noi un vuoto, una mancanza, uno smarrimento esistenziale, un appannamento, se non un vero e proprio obnubilamento, del senso del vivere.

Ma di qui a “perdersi”, come sostiene Recalcati, ce ne corre; o, perlomeno, ce ne dovrebbe correre.

Il “perdersi” (dopo la perdita di un legame importante) può essere anche molto grave, può durare anche un tempo molto lungo, ma non può essere (o, almeno, non dovrebbe essere) totale e, soprattutto, non può essere (o, almeno, non dovrebbe essere) definitivo.

Prima o poi, anche dopo la perdita più grave e significativa, la natura ha previsto (e per fortuna!) l’elaborazione e la fine del “lutto” legato alla perdita.

E questo per una ragione fondamentale, che si oppone allo stesso assunto iniziale di Recalcati; e cioè che nessuno, in fondo, costituisce (o, meglio, dovrebbe costituire) “il senso” della nostra vita; a nessuno dovremmo attribuire un tale valore e un tale significato, potremmo dire anche un tale potere.

Nel senso che (ed è questo l’assunto fondamentale dal quale io parto e che – almeno per me -sostituisce quello da cui è partito Recalcati) il significato profondo della nostra vita deve (o, meglio, dovrebbe) poggiare su altro: non le singole persone e, meno che mai, le singole cose; manco le persone alle quali siamo legati dagli affetti più grandi e profondi.

Dovrebbe, in altre parole, poggiare su un’accettazione della vita nel suo complesso, nella sua totalità, con le sue luci e con le sue ombre, e non su suoi singoli aspetti (situazioni, oggetti, persone… per quanto importanti, preziosi) isolati dal resto.

Singoli aspetti che sono tutti inevitabilmente soggetti a caducità e possono tutti, quindi, sfuggirci, venirci a mancare da un momento all’altro.

Mentre il resto della vita bene o male perdura, perdura oltre ogni morte, ha un che di immortale, di solido, di eterno.

E’ dunque l’amore della vita in sé – un sentimento che ha a che fare con le pascaliane ragioni del cuore più che con quelle della mente (quindi o c’è non c’è), un sentimento quasi religioso di fede o, meglio, fiducia di base – che (almeno a mio avviso) dà (o, meglio, può dare) un senso alla nostra vita e fonda poi tutti gli altri amori.

Compresi, quindi, quelli la cui perdita, quando ci colpisce, ci fa un male da morire.

Non viceversa.

Ecco perché, quando perdiamo un’amicizia o un amore, staremo male, per un tempo anche molto lungo; avremo persino la (momentanea) sensazione di morirne, di non poter sopravvivere alla perdita, perlomeno psicologicamente, se non fisicamente.

Ma, prima o poi, la persona sana, solida, strutturata psicologicamente, ne uscirà: questo ci insegna l’esperienza dei più; anche quella di coloro che nel momento in cui subiscono una perdita ci appaiono disperati, distrutti, devastati dal dolore.

Corre il rischio, invece, di perdersi definitivamente (o si perde effettivamente) la persona che aveva con la persona “amata” una relazione di attaccamento simbiotico, di dipendenza patologica, più che di vero amore.

Il vero amore, infatti, prevede e richiede indubbiamente intimità, interdipendenza, vicinanza, legame, perfino attaccamento, ma anche confini, autonomia, giusta distanza e libertà, finanche un certo distacco.

Non è (o, meglio, ripeto, non dovrebbe essere) la ragione stessa della nostra vita, quella senza la quale viene meno il senso stesso della nostra esistenza, che si ridurrebbe pertanto ad un mero e depresso sopravvivere.

© Giovanni Lamagna

Alcune riflessioni sul “lutto”, sull’elaborazione del “lutto”, sulla paranoia e sulla melanconia.

Per Freud il lavoro dell’analisi è essenzialmente un lavoro sul lutto o (come dice Recalcati ne “Le nuove melanconie”; pag. 180) “un lavoro di elaborazione simbolica su tutti i tagli che hanno contrassegnato il processo singolare di soggettivazione”.

In primo luogo – a mio avviso – quello più traumatico di tutti, legato alla nascita, col taglio del cordone ombelicale, che teneva legato, anche simbolicamente oltre che fisicamente, il neonato al corpo della madre.

Ma, per elaborare un lutto (anzi i lutti) a me sembra che condizione indispensabile sia quella di essere consapevoli (o, meglio, diventare consapevoli) che un lutto c’è stato nella propria vita.

Alcuni soggetti, invece, questa consapevolezza non la vogliono prendere, suppongo perché essa li farebbe soffrire troppo.

In questo caso – a mio avviso – il lavoro dell’analisi è reso (quasi) impossibile, è “forcluso”, impedito.

Il paranoico è, appunto, un soggetto che si rifiuta di riconoscere ed elaborare il lutto.

Perché, invece di introiettare il lutto della separazione dall’Altro, perpetua questa separazione, facendo dell’Altro un oggetto persecutorio; facendo dell’Altro il Male assoluto, l’assoluto soggetto cattivo.

Ma c’è – a mio avviso – un altro modo di rifiutare il lutto; ed è quello di “idealizzare” l’altro, di negare il male, il negativo che c’è nell’altro.

Anche quando questo male è importante, significativo, consistente.

Questo “movimento” di rimozione del male è esattamente opposto a quello che fa il paranoico.

In questo caso il soggetto, invece di vedere l’Altro come il Male assoluto, un (s)oggetto persecutorio, lo vede come il Bene assoluto.

E, quindi un “(s)oggetto” da cui non è mai avvenuta (e mai potrà avvenire) la separazione che provoca il lutto.

In questa dinamica l’aggressività che il paranoico proietta sull’altro, si rivolge verso il soggetto stesso che ha rimosso l’esistenza, la presenza di un lutto (o di lutti) nella sua vita, per un eccesso di idealizzazione dell’Altro.

Credo che qui abbiano origine la melanconia acclarata o una certa propensione verso la melanconia, la cosiddetta tendenza melanconica o depressiva.

© Giovanni Lamagna