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Norme esterne e norme interne.

Tutti quanti noi siamo obbligati da certe norme e non siamo obbligati (almeno in senso stretto) da altre, che pure possiamo definire norme.

Le prime sono norme che si impongono a noi dall’esterno, le seconde ci vengono dall’interno.

Siamo sicuramente obbligati ad obbedire (anche se alcuni manco a queste si sentono vincolati) alle norme giuridiche, alle leggi che regolano la vita della società di cui siamo parte.

Siamo obbligati ad obbedire alle norme non giuridiche, ma non per questo meno stringenti (si chiamano “convenzioni sociali”), che regolano la vita delle comunità di cui facciamo parte, a cominciare da quelle della famiglia.

A meno che non vogliamo correre il rischio di esserne prima o poi cacciati via, espulsi; moralmente, psicologicamente, se non proprio fisicamente e materialmente.

Non siamo, invece, obbligati, in senso stretto, ad obbedire alle norme morali, che rappresentano qualcosa in più delle norme del diritto positivo che regolano le società/Stato e delle norme, più o meno formali ma non giuridiche, le convenzioni. che regolano la vita delle comunità di cui facciamo parte.

Voglio dire: non siamo obbligati in senso stretto, cioè nel senso letterale del termine; l’obbligo in senso stretto prevede, infatti, un vincolo, diciamo pure una minaccia esterni e delle sanzioni nel caso di sua trasgressione.

Ma siamo allo stesso tempo obbligati, anche se solo in senso metaforico.

Nel senso che la coscienza, il foro interiore (che è cosa ovviamente diversa dal foro esteriore dei tribunali civili e penali), ci pone davanti a delle norme (che definiamo morali), al cui rispetto non ci obbliga con la minaccia di sanzioni fisiche, materiali, ma facendoci sentire in colpa quando le trasgrediamo.

I sensi di colpa che proviamo quanto contravveniamo a una legge morale che ci detta la coscienza sono dunque sanzioni del tutto interiori, puramente intrapsichiche, diverse da quelle esteriori ed anche fisiche, che impongono talvolta le leggi sociali e comunitarie.

Ma sono pur sempre sanzioni, tanto che alle volte fanno stare male il soggetto che le subisce ancora più di quelle fisiche del diritto positivo o delle regole comunitarie.

A loro volta questi sensi di colpa (e le sanzioni morali che essi infliggono) sono di due tipi.

Ci sono sensi di colpa che proviamo verso gli altri: quando, ad esempio, mostriamo disattenzione o mancanza di rispetto verso la loro persona, quando non diamo loro l’amore che essi meriterebbero o si attenderebbero da noi, quando non manteniamo la parola loro data.

E questi sono i sensi di colpa che è più facile avvertire, perché se non li avvertiamo da soli (perché la nostra coscienza morale è debole, fragile, poco salda e sviluppata), sono gli altri che ce li rimandano e ce li fanno pesare.

Ma ci sono anche i sensi di colpa che a volte proviamo da soli verso noi stessi; quando, ad esempio, ci facciamo prendere dalla pigrizia, dall’indolenza, quando siamo sopraffatti dalla paura delle novità e del cambiamento.

Quando per vigliaccheria, per i sensi di colpa che proviamo verso delle regole sociali (convenzioni) che ce li vietano, non riconosciamo i nostri desideri legittimi.

O quando, per conformismo e quieto vivere con chi ci fa sentire non meritevoli di goderne, rinunciamo a realizzare aspirazioni del tutto alla nostra portata.

“Non c’è peccato più grande che cedere sul proprio desiderio”: diceva Lacan; ed è profondamente vero: lo sa bene chi lo ha sperimentato sulla propria pelle.

Proviamo, in altre parole, sensi di colpa verso noi stessi quando non obbediamo al nostro demone interiore, alla nostra vocazione fondamentale, al compito che il destino ha assegnato alla nostra vita.

Gli antichi Greci, non a caso, utilizzavano la parola composta “eudaimonia” (eu: buono + daimon: demone = fedeltà al proprio demone interiore) per indicare lo stato d’animo della felicità.

Per converso, possiamo, dunque, dire che noi ci condanniamo all’infelicità, ovverossia ad una vita piena di rimpianti e di sensi di colpa, quando non obbediamo al nostro demone interiore, alla nostra vocazione.

Questi sensi di colpa sono più difficili da avvertire, perché non insorgono in noi attraverso censori esterni.

Anzi, in genere, per non avvertirli, noi cerchiamo conforto proprio nell’approvazione degli altri, che in questo caso spesso ce la danno facilmente e ben volentieri, in nome di una solidarietà malsana, che mal cela a sua volta la propria cattiva coscienza, quella che Sartre chiamava “malafede”.

Questi sensi di colpa si manifestano però in molti casi attraverso svariati sintomi, di gravità più o meno accentuata: un’ansia e un nervosismo permanenti, una tristezza ricorrente, una malinconia diffusa, nei casi estremi una vera e propria depressione acclarata.

Sintomi che appesantiscono e, a volte addirittura, opprimono il nostro animo e non poche volte vengono anche somatizzati (mal di testa, mal di stomaco, nausea, spossatezza cronica, sonnolenza, labirintite…).

Sintomi che possono degenerare fino alla follia; ad esempio, nelle forme della paranoia e della schizofrenia; o, specie quando si invecchia, nella demenza senile.

© Giovanni Lamagna

Il paradosso della psicoterapia: accettare sé stessi/cambiare sé stessi.

James Hillman, nel suo “La ricerca interiore” (Moretti & Vitali 2010), tra pag. 79 e pag. 80, scrive alcune cose, a mio avviso di fondamentale importanza, riguardo al suo modo di intendere la psicoterapia.

Le riporto qui in maniera schematica con parole mie, citando ogni tanto le sue (tra virgolette) e osando integrare, in qualche punto, il suo pensiero con il mio.

Lo faccio non solo perché penso che dicano cose molto importanti e significative a chiunque svolga una qualsiasi professione di aiuto; quindi non solo a chi fa lo psicoterapeuta di “mestiere”.

Ma perché penso che dicano cose molto importanti e significative anche a chi voglia impegnarsi da solo (senza cioè aiuti esterni) in un percorso di crescita interiore, per realizzare al meglio le sue potenzialità, la sua vocazione fondamentale.

1.Parto allora dalla prima affermazione di Hillman: “Amarsi non è una cosa facile”; con la quale concordo, anche se essa, sulle prime, può apparire paradossale.

Infatti, “amare sé stessi” significa non solo accettare la parte di sé che (eventualmente) risplende e ci piace, ma anche la parte di sé che sta in ombra, quella che di solito tendiamo a non mostrare all’esterno, perché non ci piace.

L’amore di sé richiede, insomma, l’accettazione (quantomeno l’accettazione) di tutte le parti di sé: quelle che ci piacciono e quelle che non ci piacciono.

L’umiltà di dire (innanzitutto a sé stessi e poi – come postura psicologica di fondo – anche agli altri): io sono questo, io sono fatto così; io mi accetto per come sono, abbiate anche voi (altri) la bontà, la misericordia, di accettarmi per come sono.

2. Senza questa accettazione la stessa psicoterapia non può manco iniziare.

In questo, il ruolo dello psicoterapeuta è fondamentale; chi svolge una professione di aiuto, come prima cosa, deve accettare così com’è la persona che è venuta da lui in cerca di aiuto e deve aiutare costui/costei a fare altrettanto; almeno come posizione di partenza.

Se lo psicoterapeuta o il counselor si mettono a giudicare il loro cliente e come prima cosa gli indicano in quale modo e in quale direzione deve cambiare, la relazione d’aiuto abortisce ancora prima di iniziare.

L’accettazione preliminare e incondizionata di sé – dice Hillman – è già parte della terapia; anzi costituisce la base, la prima fase di ogni terapia.

3. Questa accettazione deve essere vera e quindi totale; non può essere diplomatica e quindi parziale, finalizzata cioè ad altri scopi: la cura, la guarigione, la realizzazione di sé, il potenziamento dell’Io…

Deve essere, in un certo senso, come l’amore della madre, che esiste e sussiste a prescindere; a prescindere dalle doti e dalle qualità del figlio e, persino, dal suo comportamento morale; per una madre il figlio è figlio, sempre e comunque.

4. E però… qui c’è un però… che fonda il paradosso stesso della vita e, quindi, anche della terapia; che costituisce un po’ la sua follia, che non è la follia solo di alcuni (i matti, i nevrotici…), ma è la follia che possiamo rintracciare in tutti noi.

Allo stesso tempo che si accoglie ed accetta la propria Ombra, “gioiosamente”, per certi aspetti addirittura “definitivamente”, nel corso della psicoterapia si prende consapevolezza che ci sono parti di sé che sono “gravose e intollerabili e che devono cambiare”.

Qui insorge il ruolo che solitamente, prevalentemente (anche se non esclusivamente), svolge il padre nel rapporto genitori-figli.

Mentre la madre accetta e ama incondizionatamente il figlio, il padre gli impone degli obblighi, in quanto rappresenta “lacanianamente” la Legge; il padre gli indica dei traguardi, degli obiettivi.

Il paradosso della terapia è che ti porta, ti guida ad accettare, fino in fondo, incondizionatamente te stesso, quello che sei; ma, allo stesso tempo, ti chiede di cambiare, di apportare alla tua vita i cambiamenti necessari a realizzare al meglio le tue potenzialità.

La consapevolezza di sé e l’accoglimento/accettazione della propria Ombra costituiscono solo la prima parte della terapia, ne sono la base, ne rappresentano le fondamenta; ma su queste fondamenta bisogna poi costruire il nuovo Sé.

Quello capace di eliminare (il più possibile) dalla propria vita i fattori che generano sofferenze non necessarie e di aprirsi ai piaceri, alle gioie e perfino ai momenti di felicità possibili, alla nostra portata; in altre parole il Sé sano, rigenerato, persino saggio.

5. Qui – dice Hillman – gli opposti si incontrano e si integrano.

Si fa tutto con impegno e al tempo stesso si lascia perdere”; io aggiungo: si fa tutto con impegno, come se si stesse lavorando, e allo stesso tempo si fa tutto allegramente, gioiosamente, come se si stesse giocando; si fa come se tutto dipendesse da noi e allo stesso tempo sapendo bene che non tutto dipende da noi.

“… si giudica con durezza, e si sta insieme contenti.”; io aggiungo: ci si giudica con durezza, paternamente, ma allo stesso tempo ci si giudica con dolcezza, maternamente.

Moralismo occidentale e abbandono orientale”, io preferisco dire “attivismo occidentale e fatalismo orientale” si incontrano e fondono in un singolare, un po’ misterioso e pur reale paradosso.

Il Dio ebraico della Legge, dei dieci Comandamenti e della Giustizia, incontra e si fonde con il Dio ebraico “della misericordia, del perdono e dell’amore”.

Si vive, insomma, come i Chassidim, capaci di unire profondo rigore morale e intenso “piacere per la vita”.

© Giovanni Lamagna

“Farò… dirò… ma un’altra volta…”.

Quante volte abbiamo pronunciato queste parole (ad altri o solo a noi stessi), quando ci veniva chiesto (dagli altri o dal nostro Maestro interiore) un cambiamento.

Il cambiamento, invece, è qui e ora.

Nel momento esatto in cui prendo consapevolezza di certe cose.

Rinviarlo ad altro momento significa solo una cosa: non lo voglio realizzare; lo rifiuto; nonostante sia diventato consapevole che esso sarebbe necessario.

© Giovanni Lamagna

Volere bene.

Volere bene a qualcuno significa innanzitutto e molto semplicemente provare gratitudine per la sua esistenza, per il suo essere al mondo.

Sentimento niente affatto scontato tra gli uomini; anzi raro; presente, nel migliore dei casi, solo all’interno di una ristretta cerchia di familiari ed amici.

I più tra noi spesso vivono con fastidio o addirittura con ostilità l’esistenza dell’altro, che – in una visione del tutto miope – toglierebbe spazio alla nostra o le impedirebbe di realizzare le sue potenzialità, le sue aspirazioni, i suoi desideri.

Volere bene a qualcuno significa, invece, avvertire – da tutti i punti di vista – che l’esistenza dell’altro, lungi dal togliere qualcosa alla nostra, l’arricchisce, la favorisce, la stimola, è fattore di crescita, di vitalità, di bene-essere per noi.

© Giovanni Lamagna

Difficoltà a prendere sonno.

È difficile prendere sonno quando la vita ti preme dentro.

Quando, cioè, hai bisogno di realizzare delle cose e ti sembra di non aver tempo per farlo.

Perché la morte ti rincorre, sta dietro l’angolo ad aspettarti.

© Giovanni Lamagna

Realizzare il proprio daimon, la propria vocazione.

Cercare di realizzare quello che i Greci chiamavano il proprio “daimon”, cioè la propria vocazione, non vuol dire affatto inseguire fantasie o sogni irrealizzabili.

Del tipo diventare attori o attrici, calciatori, uomini politici potenti, ricchi imprenditori, scienziati o artisti famosi…

Questi sogni e fantasie sono solo la parodia del nostro daimon, anzi ne impediscono la effettiva realizzazione.

Con l’esito inevitabile di delusioni e frustrazioni.

Realizzare il nostro daimon significa innanzitutto avere una realistica consapevolezza delle proprie potenzialità e del contesto economico, sociale, culturale, politico, familiare nel quale ci troviamo a vivere.

Solo sulla base di questa consapevolezza noi potremo individuare la nostra vera e specifica e vocazione e provare a realizzarla.

E, se ci metteremo d’impegno, sicuramente riusciremo a realizzarla (qualunque essa sia) e potremo esserne così felici e soddisfatti.

Che non significa – sia detto per inciso – vivere una vita senza dolori e, in certi momenti, addirittura angosce.

Significa solo riuscire a dare un senso e una direzione di marcia a questi dolori e a queste angosce.

© Giovanni Lamagna

Solitudine e Sè.

Chi cerca e vuole trovare sé stesso deve scendere nel fondo più profondo di sé stesso, laddove rimarrà solo, completamente, al primo impatto anche desolatamente, solo, come chi si avventura in abissi marini, senza alcuna compagnia ed assistenza.

Nella solitudine più totale, quando più nessun appiglio per rimanere a galla ci rimane, tocchiamo un fondo oltre il quale non possiamo più scendere.

Questo fondo è il nostro Sé; o, meglio, lì troviamo il nostro Sé, siamo messi a confronto con il nostro vero Sé.

Che poi, se ci pensiamo bene, è in realtà un Altro-da-sé, un Alter-ego, qualcuno con cui il nostro Ego è costretto da quel momento in poi a confrontarsi, a dialogare.

Solitudine (la solitudine più assoluta e radicale, non quella provvisoria e, quindi, un po’ finta, che tutti abbiamo sperimentato o sperimentiamo di tanto in tanto) e Sé (o Altro-da-sé) fanno la pariglia, sono, dunque, la stessa cosa, sono (quasi) sinonimi.

Non possiamo trovare il secondo, il Sé (o l’Altro-da-sé), se non sperimentiamo (fino in fondo) la prima (la solitudine).

Fin qui ho parlato di solitudine; bisogna dire, però, che, superato il primo impatto e nel momento in cui incontriamo l’Altro-da-sé, questa solitudine, non è più tale, perché in realtà non siamo più veramente soli, ma siamo in compagnia di qualcuno che, se vorremo, non ci abbandonerà mai, ci farà perenne compagnia.

Eppure, invece, una volta che abbiamo fatto, nella solitudine più profonda, questa esperienza di incontro col Sé, con l’Altro-da-sé, la tentazione immediata è quella di risalire subito a galla.

E non per tornare a riveder le stelle (come disse quel tale, che aveva appunto fatto questa discesa), ma per ritrovare immediatamente il conforto della compagnia (fisica) di altri corpi.

I motivi di questa tentazione sono fondamentalmente due: 1) la presenza dell’Altro-da-sé non ci sembra vera, perché non è una presenza fisica, corporea, ma del tutto spirituale, quindi ci apparirà in un primo momento non reale, ma fantasmatica; 2) il rapporto con l’Altro-da-sé ci appare, soprattutto all’inizio, difficile, faticoso, perché esigente, perché non si accontenta di quello che siamo già, in atto, ci chiede di diventare altro, di realizzare quello che siamo in potenza.

In questo caso, nel caso cioè in cui decideremo di abbandonare questo fondo appena raggiunto e di risalircene a galla, da dove siamo venuti, l’esperienza sarà stata completamente banale, superficiale, quindi vana, inutile.

Perché, invece, l’esperienza risulti utile, decisiva, un’esperienza radicale e di svolta nella nostra vita, occorre che, una volta toccato il fondo dell’abisso, da lì non risaliamo mai più, che decidiamo di vivere in solitudine o, meglio, in compagnia del nostro Alter-ego, il resto della nostra vita.

Intendiamoci: non sto dicendo qui che bisogna da questo momento in poi rinunciare ad avere rapporti con la gente altra, con le persone in carne ed ossa, per fare una scelta di natura monacale.

Dico solo che i rapporti con gli altri in carne ed ossa dovranno tenere presente d’ora in poi questa esperienza “fondamentale” che abbiamo fatto, dovranno convivere con questo rapporto primario che abbiamo finalmente trovato dentro di noi, il rapporto con l’Altro-da-sé.

E avere la consapevolezza che, anche quando siamo in compagnia di altri, perfino quando siamo in mezzo a una folla, siamo in realtà soli, che nulla e nessuno potrà sconfiggere ed annullare mai questa nostra solitudine fondamentale, diciamo pure ontologica.

Questo ci consentirà, ci darà modo, di non vivere gli altri come appoggio, come conforto, come appiglio illusorio, ma di stabilire con loro un rapporto vero, autentico perché basato su un “principio di realtà” e non di illusione.

I rapporti, i rapporti veri, non quelli, ad esempio, fondati sulla chiacchiera e sulla consuetudine, sono sempre incontri di due solitudini, perfettamente consapevoli di questa loro strutturale e insuperabile condizione.

E, in fondo, manco desiderosi di prescinderne, di farne a meno.

Per non rischiare di smarrire l’unico rapporto dal quale, se vogliamo, possiamo non separarci mai: quello col nostro vero Sé, l’Altro-da-sé; l’unico rapporto, dunque, davvero non precario.

Da considerare, infine, – cosa non da poco – che è dalla solitudine (e dal silenzio ad essa indissolubilmente legato) che nasce la parola che ha un senso, un peso, un valore; che non sia, insomma, un puro flatus vocis, quello del chiacchiericcio che normalmente ci circonda, che caratterizza la maggior parte dei rapporti tra gli uomini.

© Giovanni Lamagna

Si può fare a meno di un fine nella vita?

“… si potrebbe abbandonare l’idea di fine” – dice, quasi provocatoriamente, Benny Levy, che (in “La speranza oggi” Mimesis 2019; pag. 74) sta intervistando Sartre.

E questi gli replica secco: “Allora perché vivere?”

Affermando così (ed io condivido in pieno) che la vita dell’uomo senza un fine, senza uno scopo, potremmo dire anche “senza un compito da realizzare” (cito qui Victor Frankl) non avrebbe, non ha senso.

Tanto varrebbe suicidarsi!

© Giovanni Lamagna

Ognuno di noi ha un compito da realizzare, piccolo o grande che sia.

E’ uno sbaglio mortale (che talvolta però alcuni di noi tendono a commettere) confrontarsi con i grandi della Storia e con le loro opere immortali.

Ognuno di noi deve misurarsi, invece, esclusivamente con il compito che la storia ha assegnato a lui, proprio a lui; piccolo o grande che sia, fosse anche piccolissimo.

Compito che nessun altro (e questo è un privilegio di cui tutti gli uomini – nessuno escluso – godono) potrà mai realizzare al nostro posto.

© Giovanni Lamagna

La libertà (3).

In cosa consiste (per me) la libertà dell’uomo?

Non tanto nella possibilità di fare ciò che egli vuole fare, ma nel poter non fare ciò che egli è chiamato a fare.

Nella possibilità di non realizzare il compito che la natura gli ha assegnato nella vita.

In altre parole, di non corrispondere al proprio destino.

La nostra libertà, dunque, non sta nel fare ciò che ci pare e piace.

Ma nel non fare (stupidamente, autolesionisticamente) ciò che il nostro daimon, il nostro Maestro interiore, ci ispira a fare.

In questo senso la libertà può essere definita anche come la possibilità che ci è data di perderci, di non realizzarci umanamente.

In altre parole di firmare la nostra condanna, con le nostre stesse mani.

© Giovanni Lamagna