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Fuga dal dolore della perdita, reale o anche solo temuta.

Il concetto di “fuga nella guarigione” in psicoterapia è molto importante.

Esso sta a indicare che il soggetto precorre i tempi della guarigione; si illude di essere guarito anzitempo, appena si sente un po’ meglio e più rinfrancato, rispetto alla condizione in cui si trovava quando era entrato in terapia.

In questo caso il soggetto, anziché elaborare fino in fondo il “lutto”, da cui derivava la sua sofferenza (cioè la perdita, la mancanza, dell’oggetto a lui più caro, per lui fondamentale), prende una scorciatoia per risolvere velocemente, il più in fretta possibile, il lutto.

Trova cioè un sostituto dell’oggetto perduto prima di averne elaborata fino in fondo la perdita o l’assenza.

In questo modo l’oggetto sostituto surroga (anche se al momento e solo provvisoriamente e superficialmente) l’assenza dell’oggetto perduto e non consente una piena e risolutiva elaborazione del lutto.

Che continuerà, quindi, ad agire in maniera subdola e sotterranea nella psiche del soggetto, che non lo ha veramente elaborato del tutto, minandone, corrodendone l’equilibrio e il benessere psichico.

Oltre a impedirgli di trovare un vero sostituto, all’altezza dell’oggetto d’amore perduto, e non un suo surrogato, che ovviamente non sarà mai in grado di riempire il vuoto creato dal lutto.

p. s. Questo movimento si verifica spesso anche fuori della psicoterapia, nelle normali relazioni.

Quando, di fronte ad un abbandono o anche solo alla sua minaccia, una persona sostituisce subito o addirittura preventivamente l’oggetto d’amore perduto, anziché elaborare fino in fondo il dolore della perdita subita o anche solo temuta.

© Giovanni Lamagna

Il sintomo doloroso è un messaggio.

Il sintomo doloroso (sia quello fisico che quello psichico) è un messaggio che il nostro corpo o la nostra psiche (la sua parte inconscia) ci lanciano per dirci che c’è qualcosa di sbagliato nella nostra vita, qualcosa che dobbiamo correggere, medicare, sanare.

La cura è una forma di conversione: attraverso la cura decidiamo di cambiare strada, di prendere una via diversa da quella stavamo seguendo e che, almeno da un certo momento in poi, ha cominciato a darci un disagio o una vera e propria sofferenza.

© Giovanni Lamagna

Sul concetto di anima.

Non è vero, a mio avviso, che il concetto di “anima” sia “una costruzione teorica pleonastica”, come afferma lo psicoanalista Antonio Alberto Semi.

Il concetto di “anima” per me è l’equivalente del termine greco “ψυχή” e sta a indicare tutto ciò che non è “soma” (dal gr. σῶμα), cioè fisico, corporeo.

Ha, quindi, la sua utilità e funzionalità teorica.

Anche se mi è del tutto evidente che tra lo psichico e il corporeo la distinzione è solo concettuale e, quindi, convenzionale.

Perché in realtà “fisico” e “psichico” sono realtà profondamente interconnesse.

Come sa bene la psicosomatica.

© Giovanni Lamagna

Noi e i modelli.

“Nessun uomo è un’isola” e ciascuno di noi si forma nel rapporto con gli altri, assumendo a modello qualcuno, a cominciare dai nostri genitori.

Questo percorso è fisiologicamente inevitabile.

Poi i modelli – è vero! — vengono superati, vanno trascesi.

Ma senza modelli noi semplicemente non cresciamo; anzi, non nasciamo neppure in senso psichico, alla vita spirituale.

© Giovanni Lamagna

Sulla felicità

Traggo spunto per questa riflessione dalla lettura delle pag. 15-17 di un libro scritto da Diego Fusaro, “Caro Epicuro” (Piemme; 2020), dedicate al tema della felicità.

Che cosa è dunque la felicità per me? Ammesso che essa esista, che sia possibile sperimentarla a noi umani.

Per rispondere a tale domanda distinguerei questa parola da altre nozioni, concetti, che spesso vengono evocati quando si tratta di felicità, quasi ne fossero sinonimi o quantomeno fossero a lei contigui, se non proprio affini.

Questi concetti sono quello di piacere, quello di assenza di dolore e quello di pienezza dell’essere (che vengono, non a caso nominati, nel breve testo di Fusaro); ai quali io aggiungerei quello di gioia e quello classico, tipico dell’antica Grecia, cioè quello di “eudaimonia”.

Cercherò allora per ciascuno di essi di ragionare se e in che misura hanno a che fare con il concetto, anzi con l’esperienza della felicità.

Per Epicuro, come non manca di ricordarci Diego Fusaro, felicità e piacere sono sostanzialmente sinonimi.

Qui è appena il caso di evidenziare che Epicuro non parla di un piacere smodato e senza limiti, quello che Lacan definirà “godimento mortifero”, ovverossia il godimento dei viziosi, che finiscono per affogare e infine perire nella loro ricerca del piacere.

Il piacere di cui parla Epicuro è un piacere misurato, che mira ad eliminare il dolore. E’, ad esempio, il piacere che dà il bere che elimina il dolore della sete, quello del mangiare che elimina il dolore della fame.

Non è quindi il bere che provoca ubriacatura, né il mangiare che provoca vomito. Ubriacatura e vomito, infatti, hanno ben poco a che fare col piacere.

Sembrerebbe allora che per Epicuro la felicità consista nell’assenza del dolore, ovverossia nel piacere che elimina il dolore.

E qui giustamente Fusaro si interroga: è vero che la felicità sta in questo, nell’assenza di dolore?

E risponde: no, la felicità trova nell’assenza del dolore una sua condizione imprescindibile, la sua condizione negativa per sussistere, ma non può identificarsi con la semplice assenza del dolore.

Infatti (e questo lo aggiungo io) quante persone non sono affatto in una condizione di dolore (ovverossia di privazione, almeno apparente) e non sono affatto felici, almeno non lo sembrano affatto.

Ci sono perfino ricchi, che vivono in una condizione di abbondanza di beni, conducono una vita da sbafo, eppure affondano nella noia più profonda, se non addirittura nell’angoscia mortale.

Quanti ricchi arrivano perfino a suicidarsi, perché infelici!

Diverso dal concetto di piacere è quello di gioia.

Il piacere ha che fare principalmente col materiale, col corporeo: ci procura piacere ciò che ci procura sensazioni di benessere fisico.

La gioia, invece, ha a che fare più con lo psichico: ci procurano gioia quelle situazioni che ci donano un benessere psicofisico, delle emozioni e dei sentimenti di benessere.

Il piacere, insomma, in estrema sintesi, ha a che fare con le sensazioni, la gioia con le emozioni e i sentimenti.

A mio avviso le gioie sono più affini all’esperienza della felicità di quanto non lo siano i piaceri.

E’ difficile, infatti, che la gioia si accompagni alla noia e meno che mai all’angoscia.

Mentre, come abbiamo visto, talvolta noia e perfino angoscia si accompagnano ai piaceri.

E però manco la gioia può essere definita sinonimo di felicità.

Infatti, i sentimenti ed ancora di più le emozioni che possiamo definire “gioie” hanno un che di transeunte, di passeggero: ora ci sono e dopo qualche istante non ci sono più.

La felicità, invece, è una condizione esistenziale che noi associamo non al singolo istante o a singoli momenti distanziati tra di loro, ma a un insieme di momenti, anzi ad una intera e prolungata condizione di vita.

A questo punto allora potremmo chiederci: esiste la felicità? può esistere la felicità?

La mia risposta a questa domanda è netta, drastica: no, non esiste, non può esistere.

L’uomo, ciascuno di noi uomini, può sperimentare singoli momenti di felicità, ma non può ambire a una condizione perpetua, costante, indefinita e indeterminata di felicità.

Può aspirare alla gioia, a momenti di gioia, non può pretendere di essere felice.

Le gioie, infatti, nella condizione in cui è stato “gettato” l’uomo al momento della nascita, si alterneranno fatalmente con momenti di dolore sia fisico che psichico.

Quindi non potranno mai garantire quella che pensiamo idealmente, astrattamente, concettualmente, come felicità.

Qualcosa che si avvicina alla felicità, ma che comunque non coincide con essa, è quella che viene definita ed è stata definita da Fusaro “pienezza di essere”; ovverossia la condizione di una “vita piena”.

In cosa consiste questa condizione?

Non certo nell’assenza totale di dolori, sofferenze e pene; sappiamo bene che a nessun uomo è destinata una simile condizione esistenziale.

Essa consiste allora nel fatto che l’uomo sente profondamente di stare a realizzare o di aver realizzato, quando la sua vita si avvia al tramonto, la sua vocazione fondamentale, il compito (per usare un termine caro a Victor Frankl) a cui era stato chiamato quando era nato.

Questa condizione di fondamentale soddisfazione dell’essere (che i Greci definivano di “eu-daimonia”, cioè di sostanziale accordo con il proprio “buon demone” interiore) è forse la condizione umana più vicina a quella che immaginiamo sia la felicità.

Essa però si accompagna pur sempre a dolori e fatiche.

E, quindi, pur dandoci una qualche esperienza di cosa sia o potrebbe essere la felicità, ne è comunque ben distinta, anzi distante.

La felicità, in altri termine, non è una condizione possibile all’uomo; perlomeno non lo è in questo mondo; in un altro mondo, se esistesse, dopo questa vita, chissà, forse…

© Giovanni Lamagna

Religioso, spirituale, contemplativo, estatico, mistico

L’atto più profondamente religioso e spirituale che conosco (i due termini – spirituale e religioso – per me sono quasi sinonimi) è quello che ci mette in comunione con qualcosa che va al di là dei confini ristretti del nostro Ego.

Più il nostro Ego si dilata, si trascende – non in senso fisico ma psichico – e più noi viviamo un’esperienza religiosa e spirituale.

Arrivare a sentirsi parte del Tutto, dell’Umanità e, persino, del Cosmo, vivere questa esperienza non solo sul piano mentale, ma anche su quello emotivo e perfino su quello fisico-percettivo, è l’esperienza massima della spiritualità.

Quella che comunemente viene definita un’esperienza contemplativa, estatica o mistica.

© Giovanni Lamagna