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Recensione del romanzo “Confidenza” di Domenico Starnone (Einaudi 2019).

Il romanzo breve (appena 140 pagine) di Domenico Starnone “Confidenza” (Einaudi 2019), dal quale è stata recentemente ricavata la sceneggiatura di un film con Elio Germano protagonista, è bello.

Degno della migliore scrittura di questo autore, di cui mi piacciono sia le problematiche che affronta, sia il modo con cui ce le racconta.

Il romanzo, anche questa volta, ruota attorno a una vicenda familiare; sono chiari – conoscendo Starnone – i riferimenti autobiografici.

È la storia – quasi la biografia – di un uomo, Pietro Vella, un insegnante di liceo nato a Napoli, ma trasferitosi a Roma dopo la laurea, dove vive e lavora.

Che si innamora una prima volta di una sua allieva, Teresa, che ha almeno una decina di anni meno di lui e con la quale intreccia una tempestosa relazione, fatta di amore e di odio.

E poi, una volta conclusa – per sfinimento – questa prima relazione, ne inizia una nuova con una collega coetanea, Nadia, insegnante di matematica, con ambizioni di carriera universitaria ben presto naufragate.

Il rapporto con Nadia è tutto l’opposto di quello con Teresa; tanto tempestoso e lancinante era quello con Teresa, tanto tranquillizzante e rassicurante è quello con Nadia.

Che, infatti, “regala” a Pietro tre figli e, soprattutto, accudimento, cura e, pertanto, la libertà di dedicarsi ai suoi principali interessi: professionali, culturali e politici.

Così Pietro, da oscuro insegnante di liceo, diventa un saggista abbastanza noto che pubblica due libri e svariati articoli, viene invitato a dibattiti e convegni e, soprattutto, entra nel mondo dell’editoria, dove conosce un importante pedagogista, Stefano Itrò, e una editor avvenente, benestante e colta, Tilde, con la quale, grazie anche alla intensa frequentazione, vive una sorta di (anche se solo platonico) flirt.

Su queste tre relazioni – quella con Nadia (la moglie), quella con Teresa (la prima amante) e quella con Tilde (l’amica) – Starnone costruisce un’avvincente intreccio emotivo-sentimentale, profondamente erotico e persino – almeno a tratti – passionale, che ci porta a scandagliare la complessità, le ambiguità e le contraddizioni che caratterizzano i rapporti tra gli esseri umani, soprattutto quelli tra i due sessi, e in fondo la complessità, le ambiguità e le contraddizioni dello stesso animo umano, di cui quelle relazionali in fondo non sono altro che il riflesso.

Viene fuori, ad esempio, la complessità delle dinamiche legate a termini quali “fedeltà” e “tradimento”.

Il protagonista Pietro Vella tradisce più volte la moglie Nadia con la mente e col desiderio, “con discrezione, forse addirittura castamente” (p.121); e – almeno in una situazione – riesce ad evitare di farlo anche concretamente, fisicamente (con Tilde), per puro caso, perché distratto/attratto da un altro “tradimento” (con Teresa) di natura puramente mentale.

La stessa moglie Nadia – che pure sembra il ritratto della donna tranquilla, tutta casa e lavoro, ma soprattutto fedele – sul finale del romanzo confessa alla figlia: “… tuo padre mi è così indispensabile che, per poter restare con lui, ho dovuto tradirlo moltissime volte, secondo tutte le possibili accezioni lecite del tradimento.” (p. 121).

Per cui la figlia Emma così ne riassume la vicenda emotivo-affettivo-sentimentale-matrimoniale: “… mi è sembrato tutto sommato bello che questi due vecchi… per poter vivere insieme tutta la vita, avessero dovuto inventarsi una pratica innocente del tradimento che permettesse loro di non dirsi: non ci vediamo più.” (p. 121).

Come se un matrimonio, per reggersi, per durare nel tempo, avesse bisogno necessariamente, indispensabilmente di tradimenti reciproci dei due partner; reali o solo mentali, effettivi o sessualmente casti qui ha poca importanza.

Viene, quindi, fuori in questo romanzo, in maniera paradigmatica a me sembra, una delle lezioni fondamentali di Jung: ciascuno di noi è fatto di una “persona” – la maschera che mostriamo agli altri – e di una “ombra” – il nostro lato oscuro, quello che tendiamo a nascondere, non solo agli altri, ma anche a noi stessi.

Ciascuno di noi ha quindi, molto probabilmente, una qualche “confidenza” (non a caso è questa la parola che dà il titolo al romanzo), fatta in un momento di particolare intimità (o debolezza) a qualcuno/a, di qualcosa di cui prova vergogna, con le conseguenti paura, preoccupazione, ansia, in certi momenti vero e proprio terrore, che l’altro/a possa portarla allo scoperto, rivelandola in pubblico.

L’altro/a, in questo caso, è la metafora della nostra coscienza (più o meno) sporca, con la quale ciascuno di noi deve fare i conti.

Aggiungo su questo punto solo un ultimo elemento di riflessione: alcuni – di quello che siamo – vedono solo o prevalentemente il bello e il pulito, altri solo o prevalentemente il brutto e lo sporco.

Mentre forse ciascuno di noi non è né solo e totalmente il primo, né solo e totalmente il secondo, ma un impasto complicato, complesso, del primo e del secondo, nel quale è difficile distinguere il primo dal secondo.

© Giovanni Lamagna

Due bei film: “Domani è un altro giorno” e “Momenti di trascurabile felicità”.

Nelle ultime settimane mi è capitato di “recuperare” al cineforum due film, entrambi incentrati sul tema della morte: “Domani è un altro giorno” (2019; regia di Simone Spada) e “Momenti di trascurabile felicità” (2019; regia di Daniele Luchetti).

Mi sono entrambi piaciuti (soprattutto il primo) e perciò vorrei commentarli, per mettere a fuoco emozioni e pensieri che mi sono stati provocati dalla loro visione. Mi piace farlo poi nel giorno in cui, per antica tradizione, si commemorano i morti.

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Recensione del film “Domani è un altro giorno”.

Il film racconta la storia di Giuliano, attore romano, esuberante ed estroverso, di mezza età (interprete Marco Giallini), che da un anno combatte con un male incurabile: gli restano oramai poche settimane di vita.

L’amico di una vita, Tommaso, ombroso ed introverso (interprete Valerio Mastandrea), quando lo viene a sapere, si precipita a Roma dal Canada, dove vive e lavora da tempo, per trascorrere quattro giorni assieme a Giuliano.

Il tempo di tentare di convincere l’amico a intraprendere un’ultima disperata chemioterapia, che potrà allungargli l’esistenza, ma solo di poco. Giuliano rifiuta con decisione: ha già lottato abbastanza e non se la sente più.

Il film racconta i quattro giorni nei quali i due amici in pratica si danno l’estremo saluto. Potrebbero essere giorni tristi. E senz’altro lo sono, velati come sono di intensa e commovente malinconia.

Ma i due amici, abituati ad un rapporto di grande confidenza e familiarità, di grande ironia e ilarità, fatto di continui sfottò reciproci, perfino di duro sarcasmo, non si rassegnano alla cupezza.

Vivono gli ultimi istanti del loro rapporto, prima di salutarsi definitivamente, in un clima di grande tenerezza, che in certi attimi fa sbocciare addirittura l’allegria, la gioia di essersi incontrati, frequentati e di aver vissuto tanti bei momenti assieme.

Il film, insomma, anche se racconta una vicenda su cui incombe l’ombra nera della morte, è un inno alla gioia della vita e ad una delle sue manifestazioni più luminose: l’amicizia.

Infine, è un vero e proprio elogio all’autodeterminazione del fine vita: questione oggi di estrema attualità.

Sembra dire: dopo che si è vissuta una esistenza tutto sommato serena e allegra, se non proprio felice, è giusto che ad ognuno di noi venga lasciata la libertà di decidere le terapie da affrontare o non affrontare, di decidere i tempi e i modi della propria morte.

Questo ad evitare che gli ultimi giorni della nostra esistenza si trasformino in una lenta e atroce agonia, che offuscherebbe penosamente l’allegria e la serenità che ci hanno magari caratterizzato per una intera vita. Quale ne sarebbe il senso?

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Recensione del film “Momenti di trascurabile felicità”.

Questo film ha in comune con il primo il tema della morte. Anche qui la morte incombe. Si può addirittura dire ne sia la protagonista.

Ma mentre nel film di Simone Spada la morte è una minaccia ben reale, qui (anche se solo alla fine) si rivela come una minaccia solo immaginata, quasi sognata.

Ben reale, però. Al punto da far intravedere al protagonista del film, Paolo (interpretato da Pif) un altro modo di vivere la propria vita, un’altra scala di valori.

Anche qui, insomma, come nel film precedente, la morte è vista e raccontata quasi in funzione della vita, come un fatto, una realtà, che possono darci uno sguardo nuovo e (si potrebbe dire anche) più sano sulla vita.

Paolo è un ingegnere palermitano, quarantenne, sposato con due figli.

Vive una vita abbastanza distratta, tutta presa dal lavoro, dagli amici con i quali cazzeggia al bar, dalle numerose e farfallanti avventure extraconiugali e dal brivido del rischio: quello di passare col rosso, a bordo del suo motorino, proprio nell’attimo (fatto di decimi di secondo) in cui è rosso per lui, ma è ancora rosso per i veicoli che provengono dalla strada trasversale alla sua.

Un giorno, mentre fa il suo solito attraversamento spericolato, evidentemente sbaglia i tempi per una frazione di secondo e viene investito da un grosso autoveicolo. Si ritrova in Paradiso, dove però, in base ad un algoritmo calcolato da uno degli angeli (interpretato da Renato Carpentieri), che selezionano gli accessi, si scopre che egli ha diritto ancora ad un’ora e mezza di vita sulla terra.

Paolo, allora, ridiscende sulla terra per viversi il pochissimo tempo che ancora gli resta come uomo vivo. E qui il film diventa il racconto, tra il serio e il faceto, di come la vita di una persona, sotto lo sguardo consapevole del destino che tutti ci attende, prima o poi, cioè la morte, possa totalmente, radicalmente cambiare.

Paolo si rende conto di quanto la sua vita sia stata fino ad allora estremamente superficiale, di quanto narcisismo abbia dominato i suoi comportamenti di maschio italiano, per giunta siculo, di quanto poco tempo ed attenzione abbia dedicato alla moglie (interpretata da Thony) e ai suoi due figli, cioè ai suoi affetti più veri.

Insomma si rende conto che la vita (e potremmo dire ciò che poi in fondo le dà senso) è fatta di tanti momenti che, quando li viviamo, ci appaiono magari insignificanti e quindi trascurabili, ma che, invece, vissuti alla luce di una maggiore consapevolezza potrebbero darci vera e autentica felicità.

E questa maggiore consapevolezza può venirci (è brutto e triste doverlo riconoscere, ma è anche la realtà) può sopravvenire in noi se ci rendiamo conto che la nostra vita non è eterna, non ha un tempo infinito a sua disposizione, che essa è destinata a terminare prima o poi. Perché questo pensiero ridisegna immediatamente per noi (e senza neanche molto sforzo da parte nostra) la vera e giusta scala dei valori.

Insomma il pensiero della morte, lungi dall’incupirci, può aiutarci a vivere meglio, come accade a Paolo, il protagonista del film del regista Daniele Luchetti, che ne ha scritto anche la sceneggiatura, assieme a Francesco Piccolo, traendo spunto da un libretto omonimo dello scrittore casertano.

Film che nel primo tempo si muove leggero, quasi frivolo, figlio dello stile a volte insopportabile dello scrittore dalla cui opera trae spunto. Nel secondo, invece, decolla, diventa un po’ più serio e meno superficiale, fino a toccare, in qualche momento, persino la poesia.

Giovanni Lamagna