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Recensione del romanzo “Confidenza” di Domenico Starnone (Einaudi 2019).

Il romanzo breve (appena 140 pagine) di Domenico Starnone “Confidenza” (Einaudi 2019), dal quale è stata recentemente ricavata la sceneggiatura di un film con Elio Germano protagonista, è bello.

Degno della migliore scrittura di questo autore, di cui mi piacciono sia le problematiche che affronta, sia il modo con cui ce le racconta.

Il romanzo, anche questa volta, ruota attorno a una vicenda familiare; sono chiari – conoscendo Starnone – i riferimenti autobiografici.

È la storia – quasi la biografia – di un uomo, Pietro Vella, un insegnante di liceo nato a Napoli, ma trasferitosi a Roma dopo la laurea, dove vive e lavora.

Che si innamora una prima volta di una sua allieva, Teresa, che ha almeno una decina di anni meno di lui e con la quale intreccia una tempestosa relazione, fatta di amore e di odio.

E poi, una volta conclusa – per sfinimento – questa prima relazione, ne inizia una nuova con una collega coetanea, Nadia, insegnante di matematica, con ambizioni di carriera universitaria ben presto naufragate.

Il rapporto con Nadia è tutto l’opposto di quello con Teresa; tanto tempestoso e lancinante era quello con Teresa, tanto tranquillizzante e rassicurante è quello con Nadia.

Che, infatti, “regala” a Pietro tre figli e, soprattutto, accudimento, cura e, pertanto, la libertà di dedicarsi ai suoi principali interessi: professionali, culturali e politici.

Così Pietro, da oscuro insegnante di liceo, diventa un saggista abbastanza noto che pubblica due libri e svariati articoli, viene invitato a dibattiti e convegni e, soprattutto, entra nel mondo dell’editoria, dove conosce un importante pedagogista, Stefano Itrò, e una editor avvenente, benestante e colta, Tilde, con la quale, grazie anche alla intensa frequentazione, vive una sorta di (anche se solo platonico) flirt.

Su queste tre relazioni – quella con Nadia (la moglie), quella con Teresa (la prima amante) e quella con Tilde (l’amica) – Starnone costruisce un’avvincente intreccio emotivo-sentimentale, profondamente erotico e persino – almeno a tratti – passionale, che ci porta a scandagliare la complessità, le ambiguità e le contraddizioni che caratterizzano i rapporti tra gli esseri umani, soprattutto quelli tra i due sessi, e in fondo la complessità, le ambiguità e le contraddizioni dello stesso animo umano, di cui quelle relazionali in fondo non sono altro che il riflesso.

Viene fuori, ad esempio, la complessità delle dinamiche legate a termini quali “fedeltà” e “tradimento”.

Il protagonista Pietro Vella tradisce più volte la moglie Nadia con la mente e col desiderio, “con discrezione, forse addirittura castamente” (p.121); e – almeno in una situazione – riesce ad evitare di farlo anche concretamente, fisicamente (con Tilde), per puro caso, perché distratto/attratto da un altro “tradimento” (con Teresa) di natura puramente mentale.

La stessa moglie Nadia – che pure sembra il ritratto della donna tranquilla, tutta casa e lavoro, ma soprattutto fedele – sul finale del romanzo confessa alla figlia: “… tuo padre mi è così indispensabile che, per poter restare con lui, ho dovuto tradirlo moltissime volte, secondo tutte le possibili accezioni lecite del tradimento.” (p. 121).

Per cui la figlia Emma così ne riassume la vicenda emotivo-affettivo-sentimentale-matrimoniale: “… mi è sembrato tutto sommato bello che questi due vecchi… per poter vivere insieme tutta la vita, avessero dovuto inventarsi una pratica innocente del tradimento che permettesse loro di non dirsi: non ci vediamo più.” (p. 121).

Come se un matrimonio, per reggersi, per durare nel tempo, avesse bisogno necessariamente, indispensabilmente di tradimenti reciproci dei due partner; reali o solo mentali, effettivi o sessualmente casti qui ha poca importanza.

Viene, quindi, fuori in questo romanzo, in maniera paradigmatica a me sembra, una delle lezioni fondamentali di Jung: ciascuno di noi è fatto di una “persona” – la maschera che mostriamo agli altri – e di una “ombra” – il nostro lato oscuro, quello che tendiamo a nascondere, non solo agli altri, ma anche a noi stessi.

Ciascuno di noi ha quindi, molto probabilmente, una qualche “confidenza” (non a caso è questa la parola che dà il titolo al romanzo), fatta in un momento di particolare intimità (o debolezza) a qualcuno/a, di qualcosa di cui prova vergogna, con le conseguenti paura, preoccupazione, ansia, in certi momenti vero e proprio terrore, che l’altro/a possa portarla allo scoperto, rivelandola in pubblico.

L’altro/a, in questo caso, è la metafora della nostra coscienza (più o meno) sporca, con la quale ciascuno di noi deve fare i conti.

Aggiungo su questo punto solo un ultimo elemento di riflessione: alcuni – di quello che siamo – vedono solo o prevalentemente il bello e il pulito, altri solo o prevalentemente il brutto e lo sporco.

Mentre forse ciascuno di noi non è né solo e totalmente il primo, né solo e totalmente il secondo, ma un impasto complicato, complesso, del primo e del secondo, nel quale è difficile distinguere il primo dal secondo.

© Giovanni Lamagna

Figlio/a di zoccola!

A Napoli si usa appellare spesso qualcuno o qualcuna con l’espressione “sei un figlio (o una figlia) di zoccola!”.

A volte con un’intenzione chiaramente offensiva e dispregiativa.

Più spesso col tono affettuoso di chi sta a fare addirittura un complimento.

Perché dico questo?

Per evidenziare che (anche) nella cultura popolare il termine “zoccola” ha una valenza quantomeno ambivalente.

Può significare una persona del tutto negativa: volgare, rozza, moralmente inaffidabile, una persona che si prostituisce.

Ma può anche significare (e più spesso significa) una persona in gamba, una persona con i giusti attributi (e qui non mi riferisco solo a quelli sessuali, anche se pure a quelli), una persona che sa quello che vuole e sa farsi valere; in svariati campi.

© Giovanni Lamagna

Piccola recensione del libro “Tu, un secolo” di Raffaele La Capria (Mondadori 2022)

Che cosa mi ha portato a leggere questo libro?

Essenzialmente la figura del suo autore, di cui onestamente ho letto pochissimo, ma di cui ho sentito parlare molto e che una volta ho pure conosciuto di persona ad un incontro letterario che si svolse alcuni anni fa a Napoli a villa Pignatelli.

Mi sono fatto l’idea che La Capria fosse un uomo non solo di grande cultura, non solo di notevole capacità letteraria, ma anche di grande umanità.

Un uomo che ha avuto una vita particolarmente felice, segnata da una fanciullezza vissuta nello storico palazzo Donn’Anna, affacciato sul mare, così vicino al mare che egli era solito quasi ogni giorno, nella “bella stagione”, tuffarvisi direttamente dal suo balcone.

Il libro è una raccolta di lettere indirizzate allo scrittore da suoi amici, per la massima parte letterati come lui; qualche lettera è anche sua.

Dalle lettere emanano i sentimenti di grande affetto, amore, che in certi casi rasentano la venerazione, degli autori nei confronti di La Capria.

Si evidenzia anche un certo snobismo, tipico delle elite intellettuali, accompagnato però sempre a sobrietà e, tutto sommato, a semplicità e verità.

Mi ha fatto piacere leggerlo, incontrarlo; è stato come aver conosciuto direttamente la persona, l’uomo Raffaele La Capria: una gran bella persona!

© Giovanni Lamagna

Recensione del film “E’ stata la mano di Dio” (2021) di Paolo Sorrentino

Ho appena visto l’ultimo film di Paolo Sorrentino, “E’ stata la mano di Dio”, e dico subito che mi è piaciuto: è un bel film, senz’altro un film d’autore!

Certo Sorrentino non è Fellini, anche se al regista riminese chiaramente e dichiaratamente si ispira, per cui è quasi impossibile non paragonarlo col mostro sacro, suo mentore virtuale.

Sorrentino indubbiamente non ha il genio magico e, diciamolo pure, inimitabile di Fellini, però è certamente una persona molto interiore, che sa guardarsi dentro e, come tutte le persone interiori, ha perciò molte cose da dire.

Non lo sa fare nel modo visionario, incandescente, seduttivo, scoppiettante e incantatore di Fellini, ma lo sa fare sicuramente con buona maestria e padronanza, sia nel costruire le storie sia nel renderle sul grande schermo.

Questo film – tanto per restare all’accostamento con Fellini – è un vero e proprio Amarcord sorrentiniano. Così come “La grande bellezza” fu la versione sorrentiniana de “La dolce vita” felliniana.

L’idea da cui nasce è, infatti, probabilmente la stessa da cui originò il meraviglioso film di ricordi del regista riminese: il desiderio/esigenza di ripercorrere la propria adolescenza, di rivisitare i luoghi in cui essa si svolse, di ritrovare persone, episodi, atmosfere, dolori, tragedie, che la caratterizzarono.

Quasi per fare i conti con quella fase della vita, prolungatasi forse fin troppo a lungo, e per uscirne definitivamente, aprendone una nuova.

E, come il film di Fellini ovviamente era ambientato a Rimini, così l’Amarcord di Sorrentino non poteva che essere ambientato a Napoli.

Due contesti evidentemente molto diversi, immerso spesso nella nebbia più fitta il primo, estremamente luminoso e solare il secondo; entrambi però accomunati dall’allegria quasi ridanciana, dal gusto per lo scherzo, anzi per lo sberleffo, dal piacere di godere della sensualità dei corpi.

Fatta questa premessa, evidenzierei che il film di Sorrentino si divide in due tempi nettamente distinti tra di loro, quasi contrapposti.

Le caratteristiche principali del primo sono la risata, la gioia di vivere, la convivialità allegra. Nel corso del primo tempo si ride molto, sembra quasi di assistere ad un film comico; come d’altra parte si rideva molto nell’Amarcord felliniano.

Ma già l’ultima scena del primo tempo preannuncia un radicale cambio di registro, che si affermerà poi pienamente nel secondo tempo; alla commedia (spesso comica) subentrerà prima il dolore acuto e poi la vera e propria tragedia.

La svolta viene annunciata dal pianto e dal tremore isterico della madre (Teresa Saponangelo) del giovane Fabio (Filippo Scotti: Sorrentino adolescente), che scopre il tradimento (in corso forse già da svariati anni) del marito (Toni Servillo) con una sua collega di ufficio.

E si realizza pienamente con la scena dei due genitori di Fabio, che dopo la breve separazione, dopo essersi riappacificati, quando hanno coronato finalmente il loro sogno (molto piccolo-borghese) di avere una casa in montagna (a Roccaraso), accendono il camino e sprovvedutamente vi si addormentano davanti, seduti sul divano, mentre l’uno legge “Un uomo” di Oriana Fallaci e l’altra sferruzza a maglia; respirano così l’aria che diventa sempre più velenosa per le esalazioni del monossido di carbonio e vanno incontro ad una tragica e prematura morte.

I tre figli riescono a salvarsi dalla stessa sorte per puro miracolo, perché non hanno accompagnato i genitori (come pure questi avrebbero desiderato) nel weekend a Roccaraso: Marchino (Marlon Joubert), perché tutto preso dal nuovo amore per una ragazza, Daniela (Rossella Di Lucca), perché vive isolata in un mondo tutto suo (e, infatti, nel film compare pochissimo), infine Fabietto, perché non voleva perdersi la partita Napoli-Empoli, dove avrebbe visto giocare il suo idolo Diego Armando Maradona, nuovo acquisto del Napoli.

Questo di Maradona è uno dei capitoli più importanti dell’adolescenza di Fabio/Sorrentino e, per conseguenza del film; uno di quelli sul quale si è maggiormente costruito l’immaginario del giovane adolescente; Maradona è visto come una specie di divinità calata in terra, che compensa le frustrazioni di un’intera città e ne realizza i sogni a lungo, troppo a lungo, repressi, perché considerati impossibili.

Emblematica, quasi onirica, la scena in cui il ragazzo, mentre attraversa la strada, vede Maradona in un’auto ferma ad un semaforo rosso: il suo sguardo resta paralizzato per svariati secondi, i suoi occhi non credono a quello che stanno vedendo, e con in suoi quelli della piccola folla che ha ricevuto la grazia di una simile visione.

Come non riandare con la memoria alla scena felliniana dei riminesi che a bordo delle loro barche si spingono al largo per assistere nel buio della notte e col mare mosso al passaggio luccicante e favoloso del transatlantico Rex?

L’altro personaggio molto significativo dell’adolescenza di Fabio-Sorrentino è la zia Patrizia (Luisa Ranieri), sorella della madre, donna di straordinaria e prorompente bellezza, che accende le fantasie e le pulsioni erotico-sessuali del giovane ragazzo e di quelle del fratello Marchino.

Patrizia è una bellissima donna, ma anche estremamente frustrata, sia perché non riesce a rimanere incinta, sia perché vive con un marito, Franco (Massimiliano Gallo) che spesso e volentieri la riempie di botte; per questo dà spesso in stranezze.

Emblematica la scena della famiglia allargata ai numerosissimi parenti, in gita su un grande gozzo al largo della penisola sorrentina, quando Patrizia, col massimo candore e allo stesso tempo massima spudoratezza, si toglie tutti i vestiti di dosso e si stende completamente nuda, meravigliosamente nuda, sulla tolda della barca e tutti gli astanti la guardano allibiti e allo stesso tempo desideranti.

Come non riandare anche qui ad una delle scene madri dell’Amarcord felliniano: quella in cui la tabaccaia prosperosa e sensuale alla sera, prima sella chiusura, fa entrare nel suo negozio i ragazzi del borgo che sono soliti guardarla sbavanti e pieni di desiderio, abbassa la saracinesca e mostra loro, seduttiva e complice, le sue enormi, debordanti tette?

Patrizia è per Fabietto l’altro mito della sua adolescenza, l’unico che può competere nel suo immaginario sognante con quello di Maradona.

La morte tragica di Saverio e Maria segna, come una ferita non più rimarginabile, la vita dei tre figli, in modo particolare quella di Fabietto, che al contrario del fratello maggiore, Marchino, il quale intende darsi alla bella vita per rimuovere il dolore per la perdita dei genitori, non se ne fa una ragione, non riesce ad allontanare da sé le tracce del trauma vissuto.

Si rifugia così nel mondo dell’immaginario, che gli sembra senza ombra di dubbi preferibile alla realtà che egli definisce “scadente”. E in questo modo dentro di lui affiora un poco alla volta e infine si manifesta chiaramente la vocazione a fare il regista di film.

In questo suo percorso di (parziale) elaborazione del trauma (la elaborazione definitiva avverrà forse proprio con la costruzione e realizzazione di questo film: ecco il suo senso e la sua motivazione di fondo!) lo aiutano quattro figure significative.

1. La zia Patrizia, che non solo, come abbiamo già visto, è stato il primo oggetto dei suoi ardori erotici e sessuali, in quanto incarnazione stessa, sublime, della femminilità e dell’erotismo; ma è anche colei che incoraggia subito, appena Fabio glielo rivela, e con grande forza il suo sogno di diventare un autore di film.

2. Armando (Biagio Manna) un giovane contrabbandiere (Fabio lo incontra per caso allo stadio e con lui familiarizza condividendo il tifo per Maradona), che lo introduce in un mondo per lui (cresciuto in un ambiente piccolo borghese) completamente altro, quello della camorra e della violenza, alternata però anche a grande generosità e persino tenerezza.

3. La baronessa Focale (Betti Pedrazzi), una signora anziana, nobile decaduta, dall’aria solo apparentemente altera e distaccata, che abitava nello stesso palazzo ed era di famiglia in casa Schisa.

Che, quando si rende conto del momento molto difficile che sta attraversando Fabio, con un pretesto lo attira a casa sua e con modi molto garbati ed estremamente seduttivi, lo introduce ai misteri del sesso: la prima volta di Fabio!

E’ questa una delle scene più sexy e conturbanti del film, paragonabile e forse addirittura superiore a quella della zia Patrizia completamente nuda sulla tolda della barca davanti ad un pubblico di spettatori che la guardavano carichi di stupore e meraviglia.

Lì c’era il trionfo solare e spettacolare della bellezza fisica di Luisa Ranieri (zia Patrizia), esaltata dalla luce e dalla natura, con la monta ovvia del desiderio degli astanti maschili, in particolare di Fabio e di suo fratello Marchino, e forse persino l’invidia delle astanti femminili.

Qui, invece, si realizzano – nella penombra di una camera da letto e nel tete a tete – la celebrazione delle arti seduttive, affinate con gli anni e con l’esperienza, di un’anziana signora e il rito di iniziazione al sesso di un giovane, che fino ad allora lo aveva solamente fantasticato e, quindi, si mostra timido e imbranato.

Anche qui come non associare la scena dell’anziana baronessa che seduce e inizia al sesso il giovane Fabio a quella felliniana della splendida Gradisca che maliziosamente attizza prima e poi svezza, anche se solo con un bacio, i giovani adolescenti riminesi che sbavavano per lei?

4. Infine, Antonio Capuano (Ciro Capano), un regista napoletano, un po’ di nicchia, che all’inizio strapazza violentemente il giovane Fabio, che gli ha confidato il suo desiderio di diventare regista cinematografico, come per metterlo alla prova e saggiare l’autenticità della sua vocazione.

Ma poi si addolcisce, intenerisce e gli dà persino alcuni consigli, il più importante dei quali mi pare è “Non disunirti!”.

Che io ho interpretato così: non perdere i contatti con le tue radici, quindi con la tua famiglia, con la tua città di origine, con i simboli e i miti che hanno segnato la tua adolescenza, con il tuo dolore di fondo; perché è da lì che potrai ricevere la linfa che alimenterà la tua creatività, le cose che vorrai dire e tradurre in immagini.

Il film si conclude (anche qui sulla falsariga dell’Amarcord felliniano) con la scena di Fabio che viaggia in treno, direzione Roma, per inseguire il suo sogno di fare il regista.

E in sottofondo si ascolta la famosa canzone di Pino Daniele “Napule è”, come a dire che Fabio lascia la città che lo ha visto nascere e crescere, ma non si “disunisce”: le sue radici rimangono a Napoli e daranno linfa continua alla sua creatività artistica.

© Giovanni Lamagna

Recensione del film “Qui rido io” di Mario Martone.

L’ultimo film di Mario Martone, “Qui rido io”, è un bel film, quello che si dice di solito “un film riuscito”.

Analizza a fondo la figura di Eduardo Scarpetta, attore e commediografo, il massimo esponente del teatro napoletano nei decenni a cavallo tra la fine dell’800 e gli inizi del 900, erede del grande successo del suo maestro Antonio Petito.

Ma, a pensarci bene, la figura di Scarpetta è un pretesto che Martone utilizza per indagare da un lato le contraddizioni che caratterizzano – chi più e chi meno, chi in un modo chi in un altro – l’animo di ogni uomo, dall’altro il clima culturale e politico dell’Italia in generale e di Napoli in particolare agli inizi del 900.

Per quanto riguarda Scarpetta viene fuori innanzitutto un uomo dalla vis artistica geniale, straripante, molto sicuro di sé, perché consapevole del suo talento sia di commediografo che di attore, ma enormemente accentratore, tendente quindi a schiacciare gli altri componenti della sua compagnia, compresi i figli.

E poi grande, forse persino assatanato, amante delle donne, alcune delle quali faceva vivere (praticamente convivere) nella sua stessa casa o nelle immediate adiacenze, come in una specie di grande comune; ma allo stesso tempo indifferente, quasi inconsapevole delle dinamiche dolorose che i suoi pluriamori scatenavano tra le numerose amanti e i figli (ancora più numerosi) da loro avuti.

Ancora: estremamente generoso, grazie ai grandi guadagni accumulati, coi componenti della sua famiglia allargata, ma allo stesso tempo estremamente tirato, taccagno, spilorcio, con gli attori della sua compagnia, i quali si lamentavano tutti dei miseri compensi che da lui percepivano.

Infine, di Scarpetta viene descritta molto bene la parabola umana ed artistica: dall’immediato, rapido successo (la maschera da lui inventata e interpretata, quella di Felice Sciosciammocca, arriva a soppiantare quella di Pulcinella, portata in auge pochi decenni prima da Antonio Petito) fino al progressivo tramonto, umano e professionale.

Dovuto in parte alla nascita e al successo del grande varietà e del cinematografo, in parte ad una causa intentatagli con l’accusa di plagio da Gabriele D’Annunzio, che ne paralizzò l’attività per tre anni, dal 1906 al 1908.

Accusa da cui egli seppe però difendersi benissimo, anche grazie all’appoggio che gli fornì Benedetto Croce, e dalla quale alla fine di un tormentato processo fu completamente scagionato, con una sentenza del tribunale di Napoli che all’epoca fece clamore.

Nel film – dicevo all’inizio – viene descritto anche, seppure sullo sfondo della vicenda umana ed artistica di Eduardo Scarpetta, il clima culturale e politico dell’Italia e in modo particolare di Napoli tra la fine dell’800 e gli inizi del 900.

Un clima che potremmo definire da “belle epoque”, dove la spensieratezza, il divertissement, l’allegria, la comicità, la risata, lo sberleffo, la battuta sarcastica e dissacrante, tipici del teatro di Scarpetta, ma non solo di Scarpetta, tendono se non proprio a coprire e rimuovere, quantomeno a sminuire il dramma e perfino le tragedie della povertà diffusa, che diventava vera e propria miseria nel popolino.

A questo clima cercavano di reagire, almeno qui a Napoli, personaggi quali Salvatore Di Giacomo, Ernesto Murolo, Ferdinando Russo, Libero Bovio, Roberto Bracco, che contestavano quelle che consideravano evasioni, alienazioni, e nelle loro poesie, canzoni e commedie volevano far emergere i drammi e le tragedie, soprattutto la povertà e la miseria del popolo; e, quindi, si ponevano in antagonismo a Scarpetta.

Anche se poi non si capisce bene perché (nel film questo aspetto non viene chiarito), nella tenzone legale contro l’attore commediografo, abbiano colluso e si siano alleati con un personaggio come Gabriele D’Annunzio, snob, dandy, amante del lusso e della bella vita, lontanissimo quindi dalla condizione della povera gente, che non solo ignorava, ma forse disprezzava finanche.

Nel film ha particolare importanza la colonna sonora, costituita da molte delle più belle canzoni napoletane di ogni tempo, a cominciare da quelle classiche di fine 800/inizi 900 a quelle più recenti degli anni 50 e 60; come a voler sottolineare (forse) una continuità tra il passato e il presente di Napoli, città che fa fatica, molta fatica, ad uscire dai suoi tradizionali cliché.

Bella e convincente l’interpretazione di Toni Servillo, nei panni del protagonista Eduardo Scarpetta, che egli rende magnificamente. Ma bella e convincente tutta la compagnia di attori, da cui Servillo è circondato, tra i più importanti del teatro napoletano e del cinema italiano.

Ottima la regia, come quasi sempre, di Mario Martone, mai banale, sempre attento alle inquadrature più efficaci, ai piccoli particolari della recitazione, alla colonna sonora, alla resa emozionale della storia senza mai scadere nel sentimentalismo e nella retorica.

© Giovanni Lamagna

Abito una città

Solare e piovosa

allegra e dolente

triste e gioiosa

pezzente e lussuriosa

aristocratica e plebea

violenta e solidale

bambina e vecchia

nuova e antica

povera e straricca

cadente e rinascente

dura e porosa

avvolgente e sfuggente

aperta e chiusa

timida e sfacciata

luminosa e cupa

lucida e rugosa

strasana e stramalata

provincia e metropoli

unica e universale

orribile e magnifica

fetida e profumata

umida e secca

generosa e prepotente

volgare e raffinata

ridanciana e severa

austera ed eccessiva

ritrosa e sfrontata

emaciata e prosperosa

scontrosa e ruffiana

scostante ed accogliente

gaudente e disperata

ribelle e servile

sazia ed affamata

carnale e cinica

luce sfavillante e ombre tenebrose

acqua, aria, terra e fuoco.

Abito a Napoli.

© Giovanni Lamagna

Sulla seconda serie televisiva de “L’amica geniale”.

Lunedì sera si è concluso il secondo ciclo della serie televisiva “L’amica geniale”, tratta dall’omonimo romanzo in quattro volumi di Elena Ferrante. Qual è il mio giudizio?

Premesso che non ho (ancora) letto il romanzo, il mio giudizio sintetico e complessivo è che si è trattata di una bellissima opera-zione televisiva.

Sono rimasto inchiodato davanti al televisore, senza avere nessun calo di attenzione né colpo di sonno (ed io sono uno che la sera va a dormire presto), coinvolto nella trama narrativa, ma soprattutto dalle vicende esistenziali dei vari personaggi, soprattutto (come è ovvio) delle due protagoniste, Elena Greco e Lila Cerullo, interpretate (in questa seconda serie) magnificamente da due giovani attrici esordienti, Margherita Mazzucco e Gaia Girace.

Già questo fatto giustifica in larga misura il mio giudizio fortemente positivo: di solito quando una trasmissione non mi piace o non mi interessa molto, dopo un poco che la sto seguendo mi si chiudono gli occhi e la lascio perdere. Con “L’amica geniale” questo non è avvenuto in nessun momento di nessuna delle quattro puntate di questa seconda serie, come, del resto, non era avvenuto quando hanno trasmesso la prima. Segno inequivocabile che ha preso profondamente il mio cuore e la mia testa.

Espresso il mio giudizio sintetico, vorrei provare adesso ad articolarlo, motivarlo, scoprendo e manifestando le sue molteplici ragioni.

1.La prima ragione è che ho vissuto, pur nelle differenze notevoli, una grande e sostanziale identificazione.

Nella storia di queste ragazze e di questi ragazzi, ma in fondo anche in quella del quartiere Luzzatti in cui essa è ambientata, mi sono riconosciuto, come se fosse stata la mia.

Nel quartiere Luzzatti, che distava dal mio poco più di un chilometro, ho rivisto il quartiere nel quale sono nato (il quartiere Arenaccia).

Nei vari ragazzi e ragazze della storia (specie in quelle/i nate/i e vissute/i nel quartiere Luzzatti) ho rivisto me stesso bambino e adolescente, perché io avevo la loro stessa età in quegli anni (’50 e ’60). Come ho rivisto quelle dei miei amici, miei coetanei.

Ho rivisto la grande povertà di quegli anni, ma anche la grande dignità con la quale essa veniva vissuta dai più. Ho rivissuto il sentimento di amicizia, di cameratismo profondo, ma anche di semplice buon vicinato che ci legava un po’ tutti.

Ho rivisto anche gli episodi di violenza e di degrado, di cui (per mia fortuna) non sono mai stato protagonista diretto, ma che comunque sfioravano la mia vita, quella dei miei familiari e quella degli amici che frequentavo.

Qualcuno (a cominciare da mia moglie) ha avuto da ridire sulla rappresentazione così cruda ed esplicita di questa violenza e perfino sul ricorso ad un dialetto così stretto, così marcato, a tratti perfino smaccatamente e volutamente volgare.

Ma io non condivido per nulla tali rilievi. Credo, infatti, che la storia avrebbe perso forza (di realtà e di comunicazione), se non si fosse espressa anche nella forma del dialetto napoletano e della violenza esplicita e per nulla edulcorata.

Semmai mi fa meraviglia il fatto che una storia simile, così caratterizzata nel tempo e nello spazio (la Napoli degli anni ’50 e ’60, anzi di un quartiere particolarmente degradato di Napoli, non certo simile a quelli delle sue cartoline note in tutto il mondo) abbia potuto interessare, anzi appassionare, milioni di persone delle più varie parti del pianeta.

E, però, di fronte a questo dato di realtà, non posso non concluderne (e con me credo debbano farlo un poco tutti) che evidentemente le vicende de “L’amica geniale” avevano (ed hanno) un nucleo di verità essenziale di carattere universale, condivisibile e quindi comprensibile nei più vari contesti economici, sociali, culturali e, perfino, antropologici, al di là delle sue indubbie ed evidenti specificità.

  1. La seconda ragione del mio interesse così vivo e forte di fronte a questa serie televisiva sta nel fatto che essa racconta una storia di formazione. Che (come ho già detto prima) in gran parte ricalca la mia, ma che avrebbe avuto comunque per me un suo interesse intrinseco, anche se fosse stata molto diversa dalla mia.

I personaggi, che animano questo racconto (prima bambini, poi adolescenti, poi giovani adulti), sono, in fondo, un unico grande personaggio: le loro storie si intrecciano tra di loro, quasi come facce diverse di un unico prisma, l’una complementare alle altre.

Nel racconto c’è la storia di chi riesce a farcela, ad uscire dalla “prigione” di un’esistenza chiusa che poteva far preludere ad un destino segnato. E’ questa sostanzialmente la storia di Elena. E c’è quella di chi prova disperatamente a fare la stessa cosa, magari per vie diverse, ma non ce la fa. E’ la storia di Lila.

Ci sono poi le storie dei personaggi solo apparentemente secondari, alcuni dei quali affondano nel destino di miseria e degrado nel quale sono nati, altri cercano scorciatoie di riscatto sociale per le vie brevi della illegalità più o meno grave e marcata. I più si rassegnano ad una vita “banale” e del tutto conformata ai più.

Ne esce fuori un quadro perfetto e articolato delle vicende umane, nelle quali nessuno può dirsi totalmente estraneo agli altri, eppure ognuno/a è diverso/a dagli altri/e, spesso estremamente diverso/a, in certi casi (almeno apparentemente) opposto/a. E ciascuno di noi può riconoscere il suo “particolare” e ritrovarcisi.

  1. La terza ragione che ha motivato il mio forte interesse verso questa storia è da rintracciare nel modo in cui essa affronta la “questione femminile”. Intendiamoci: niente a che fare con le rivendicazioni del mondo femminile (o, meglio, di una parte di esso) per lo stato di soggezione e subalternità in cui è vissuta la donna per secoli, anzi per millenni, e ancora oggi in parte vive, soprattutto in certe zone del mondo.

Nel periodo storico in cui la vicenda de “L’amica geniale” è situata, queste rivendicazioni in fondo manco erano ancora cominciate. Iniziarono ad emergere solo verso la metà degli anni ‘60 e solo in certi contesti sociali che non erano certo quello del quartiere Luzzatti, in cui è stata ambientata la gran parte della vicenda del romanzo della Ferrante, almeno in questi primi otto capitoli della saga.

Allora cosa intendo qui per “questione femminile”? Intendo qualcosa che sovrasta la dimensione storica e geografico-spaziale. Ed ha a che fare piuttosto con la dimensione antropologica.

Sotto questo aspetto le donne hanno avuto da sempre un “potere”, che va ben al di là dei ruoli sociali, così fortemente codificati e stratificati nel tempo (e che non voglio, certo, qui disconoscere o minimizzare). Un ruolo che in fondo gli stessi uomini (dominatori e sfruttatori, chi più e chi meno) ben percepiscono e riconoscono, anche se solo ad un livello inconscio, subliminale.

E, di fronte al quale, forse in parte si spiega (anche se, ovviamente, non si giustifica per nulla) la loro violenza estrema, potremmo dire anche animalesca, bestiale, o (nel migliore dei casi) la loro invidia e la loro aggressività latenti.

Questa dimensione del “femminile” è – a mio avviso – resa in modo mirabile ne “L’amica geniale” E’, anzi, forse il fattore primo che ne spiega il fascino, mi verrebbe di dire per certi aspetti addirittura perverso.

Essa emerge in una molteplicità di situazioni e rapporti, in modi e tempi ossessivamente ricorrenti. Ma è evidenziata in particolare nel rapporto tra Lila e i fratelli Solara, prima, e poi nel rapporto tra Lila e il marito Stefano (interpretato da un magnifico Gennaro De Stefano).

Lila è oggetto di molteplici violenze (verbali e fisiche), eppure anche nelle situazioni più drammatiche di cui è vittima (in quanto femmina), emerge, è impossibile non riconoscerlo, il suo “potere di femmina”, che è forse proprio quello che scatena (intendiamoci – lo ripeto ancora una volta, a evitare facili equivoci – non la sto qui giustificando) la grande violenza che subisce.

Qui, per inciso, mi viene da dire che non saprei affermare con sicurezza e senza ombra di dubbio che Elena Ferrante è una “donna che scrive”. Per quanto mi riguarda potrebbe essere benissimo un “uomo che scrive”.

Un uomo, però, che riconosce in sé la sua “parte femminile” e, soprattutto, il potere che la donna (anzi la femmina) ha ed esercita su di sé, sul maschio, al di là dei ruoli sociali storicamente consolidatisi.

  1. Un ultima ragione di fascino che riconosco alla serie televisiva de “L’amica geniale” la rintraccio nel “rapporto/contrasto tra natura e cultura, istinto e ragione, perfino tra bestialità e umanità”, che del racconto mi sembra uno degli elementi (mi verrebbe di dire: dei protagonisti) principali.

E’ del tutto ovvio che questo rapporto/conflitto si evidenzia in tutta la sua forza nelle figure di Elena e Lila. Ma, forse, si manifesta anche in altre figure meno protagoniste e più secondarie.

Elena rappresenta il polo della riflessione, della calma, della ponderazione, del desiderio di emanciparsi culturalmente ancor prima che socialmente, fino ad apparire addirittura (e non è così) una creatura impalpabile e fredda.

Lila è il suo opposto: tutta fuoco, impulsività, istinto (al limite dell’autodistruttività), violenza, voglia di crescere in fretta, di uscire dagli schemi in cui l’ha messa l’ambiente in cui è cresciuta.

E, però, ciascuna delle due (anzi forse proprio per questo) riconosce nell’altra una parte di sé. L’una “invidia” all’altra e vorrebbe avere quello che lei non ha o ha sviluppato in maniera solo embrionale.

Questo è ciò che fa la forza del loro legame, come della maggior parte (dico io, sulla base della mia esperienza di vita) dei rapporti veramente importanti e significativi. Si allontanano più volte nel corso degli anni, come a prendere atto di una loro radicale inconciliabilità.

Ma poi sempre, in qualche modo e per le vie più traverse, si rincontrano e devono riconoscere che il loro legame ha, invece, una forza che va ben al di là delle loro profonde diversità. Come se una calamita le tenesse collegate anche nella (solo apparente) distanza.

Giovanni Lamagna

Recensione del film “Capri revolution”.

Finalmente ho visto “Capri revolution”, l’ultima opera di Mario Martone, che avevo perso in prima visione: l’ho recuperato al cineforum che frequento il martedì. Un film esteticamente molto bello, intrigante, coinvolgente. E contenutisticamente molto complesso, che può essere letto su più livelli: storico, economico, sociale, culturale, politico…

Livello storico. Il film vuole raccontare il clima in cui avvenne lo scoppio della prima guerra mondiale, quando si incrociavano e convivevano pulsioni e ideali ingenuamente pacifisti con tendenze e istanze ciecamente interventiste; il bisogno di un lavacro che quasi purificasse l’umanità e la consapevolezza del disastro immane al quale si stava andando incontro, la felicità e l’allegria della bella epoque e l’atroce presentimento della imminente carneficina.

Livello economico. Il film descrive la realtà agricolo-pastorale degli inizi del secolo scorso e l’avvio del processo di industrializzazione, con tutte le forti contraddizioni che questo avvio ha comportato. Emblematico il fatto che il padre di Lucia (la protagonista del film) nasce contadino-pastore e poi, con l’insediamento dell’acciaieria di Bagnoli, da Capri si trasferisce a Napoli e diventa operaio metallurgico: per questo si ammala ai polmoni e muore di cancro.

Livello sociale. Il film evidenzia le forti disuguaglianze presenti anche in una piccola realtà come Capri. I contadini-pastori vivono ovviamente in una condizione di estrema povertà. I ceti medi benestanti si sono arricchiti essenzialmente grazie al commercio legato al turismo. I contadini-pastori tendono ovviamente ad elevare la loro condizione economico sociale entrando a far parte della classe media, soprattutto attraverso matrimoni combinati (tipo quello che i fratelli propongono e quasi impongono a Lucia).

Livello culturale. La popolazione indigena vive in una condizione di grave arretratezza culturale. In gran parte è analfabeta. Pensa e agisce in base a schemi bigotti e patriarcali. Ne è un esempio eclatante il modo in cui i due fratelli (specie il maggiore e specie dopo la morte del padre) trattano la giovane Lucia, protagonista del film, quasi come se fossero i suoi padroni, insofferenti (a voler usare un eufemismo) ai suoi desideri/tentativi di emancipazione (c’è qui un’eco anche delle nascenti istanze femministe).

Eppure Capri ospita una comunità (anzi una “comune”) formata da uomini, donne e bambini provenienti in massima parte dalle nazioni del nord Europa. Che hanno sposato la condizione economica prevalente dell’isola (quella agricolo-pastorale), come una via per ritrovare l’antica natura della condizione umana e recuperarne la genuinità, praticando il nudismo, la danza, la musica, il canto, la pittura (le arti, insomma, nelle varie forme) e una sorta di religione pagana adoratrice della natura: il sole, la luna, il mare, le rocce…), di cui l’isola di Capri è quasi topos archetipo.

Ovviamente la presenza di una piccola comunità, così anomala e trasgressiva, all’interno della comunità più vasta dell’isola, del tutto tradizionale e conservatrice, ingenera il conflitto che sempre si genera tra l’istanza progressista e quella conservatrice. Anche se Lucia, la giovane pastorella di capre protagonista del film, si pone come l’anello di congiunzione tra le due istanze e alla fine entrambe le supera.

Lucia è attratta e turbata allo stesso tempo dai comportamenti degli abitanti della Comune: prova insieme ripugnanza e curiosità per il loro modo di vivere, ma alla fine ne è conquistata, abbandona la casa dove abitava assieme alla madre e ai fratelli e va a vivere nella comunità.

Livello politico. Un altro elemento dello scontro culturale, che in questo caso diventa anche politico, è dato dal rapporto tra quello che è un po’ il guru della comunità, Seybu (ascetico, contemplativo, naturista, vegetariano, trasgressivo sul piano dei costumi sessuali, ma ascientifico nella cura delle malattie, fanaticamente alla ricerca di fantomatici rimedi naturali e omeopatici) e Carlo, il giovane medico giunto da poco a Procida (uomo di scienza rigoroso, generoso, politicamente progressista, vagamente socialista, ma sostenitore dell’intervento in guerra, fanaticamente convinto che la sconfitta degli imperi centrali avrebbe provocato un rimescolamento dei rapporti sociali e favorito, quindi, l’emancipazione delle classi subalterne).

Il film è l’intreccio e la combinazione pregevole di questi diversi livelli di lettura di una storia, che trova però i suoi pilastri, i suoi fondamenti, nello spazio (Capri, luogo magico per antonomasia, per il suo paesaggio, per il clima, il sole, il mare, il cielo, la luce, la vegetazione, le rocce…) e nel tempo in cui si svolge, tempo così fortemente caratterizzato dall’idea di “rivoluzione”, come forse nessun altro mai.

Perciò Lucia è l’assoluta protagonista del film (interpretata da Marianna Fontana, un’attrice dal volto straordinariamente intenso, selvaggio e dolce, popolare e nobile: tale da sembrare estratto da un acquerello di Vincenzo Gemito).

Perché Lucia è figlia di Capri, della Capri tradizionale e conservatrice, ma allo stesso è capace di emanciparsi, dando una sua personale lettura e traduzione pratica della rivoluzione, che non saranno né quella del guru nordico pacifista-naturista, né quella del medico socialista scientista e interventista.

Lucia è capace di recuperare il rapporto primario con la madre. Che, in una delle scene finali, le dice “sapevo che saresti tornata” e, allo stesso tempo, “quando uscivi la notte, io ti vedevo, ma facevo finta di non vederti; quando uscivi la notte, ero un po’ anche io che uscivo con te”. E qui le due generazioni, rappresentate dalla madre e dalla figlia, sembrano trovare un punto di congiunzione.

Ma subito dopo la stessa Lucia prende il piroscafo e parte non si sa per dove, verso un luogo indefinito; in ogni caso, per viversi la sua libertà ed emancipazione, oramai definitivamente e saldamente conquistate.

Giovanni Lamagna

Sul film “Per amor vostro”.

29 settembre 2015

Sul film “Per amor vostro”.

Il film di Giuseppe M. Gaudino “Per amor vostro” è il ritratto di una donna di mezza età, Anna, (interpretato magistralmente da una straordinaria Valeria Golino), ma è anche il ritratto fedele della città in cui è ambientato, Napoli, con le sue (molte) ombre (non a caso il film è stato per la sua gran parte girato in bianco e nero) e le sue luci (non poche, nonostante tutto).

Della trama forse già tutti sanno, avendo letto le molte recensioni che già sono state scritte. Provo allora a trascrivere, quasi in sequenza temporale, le parole o le espressioni chiave, che ho via, via colto e appuntato mentre vedevo il film.

Candore, squallore, violenza, terrore, mistero, ingenuità, angoscia, incubi, rimozione, gratitudine, seduzione, paura del mare, soap opera, trappola, sensi di colpa, cedimento alla seduzione, bisogno disperato di amore, E’ cosa ‘e niente!, famiglia felice, famiglia disperata, sogno, pianto, libertà, odio, rancore, istituto di rieducazione per minorenni, suore, abbandono dei genitori, usura, sposa, diavoli, angelo, inferno, solfatara di Pozzuoli, morte, resurrezione, coraggio, denuncia del marito, autoinganno, tentativo di suicidio, giudizio dei figli, accussì eva ‘i! (così doveva andare!), fatalismo, rassegnazione, sfida, ribellione, voglia di riscatto, culto dei morti…

Ora mettete insieme, come in un frullatore, tutte queste parole ed espressioni, fatene una miscela, come in una libera associazione, ed otterrete (a mio avviso) l’immagine esatta (o abbastanza fedele) di Anna e della Napoli che il regista Giuseppe M. Gaudino ha voluto descrivere.

Un film da andare a vedere!

Giovanni Lamagna