Archivi Blog
Figlio/a di zoccola!
A Napoli si usa appellare spesso qualcuno o qualcuna con l’espressione “sei un figlio (o una figlia) di zoccola!”.
A volte con un’intenzione chiaramente offensiva e dispregiativa.
Più spesso col tono affettuoso di chi sta a fare addirittura un complimento.
Perché dico questo?
Per evidenziare che (anche) nella cultura popolare il termine “zoccola” ha una valenza quantomeno ambivalente.
Può significare una persona del tutto negativa: volgare, rozza, moralmente inaffidabile, una persona che si prostituisce.
Ma può anche significare (e più spesso significa) una persona in gamba, una persona con i giusti attributi (e qui non mi riferisco solo a quelli sessuali, anche se pure a quelli), una persona che sa quello che vuole e sa farsi valere; in svariati campi.
© Giovanni Lamagna
Piccola recensione del libro “Tu, un secolo” di Raffaele La Capria (Mondadori 2022)
Che cosa mi ha portato a leggere questo libro?
Essenzialmente la figura del suo autore, di cui onestamente ho letto pochissimo, ma di cui ho sentito parlare molto e che una volta ho pure conosciuto di persona ad un incontro letterario che si svolse alcuni anni fa a Napoli a villa Pignatelli.
Mi sono fatto l’idea che La Capria fosse un uomo non solo di grande cultura, non solo di notevole capacità letteraria, ma anche di grande umanità.
Un uomo che ha avuto una vita particolarmente felice, segnata da una fanciullezza vissuta nello storico palazzo Donn’Anna, affacciato sul mare, così vicino al mare che egli era solito quasi ogni giorno, nella “bella stagione”, tuffarvisi direttamente dal suo balcone.
Il libro è una raccolta di lettere indirizzate allo scrittore da suoi amici, per la massima parte letterati come lui; qualche lettera è anche sua.
Dalle lettere emanano i sentimenti di grande affetto, amore, che in certi casi rasentano la venerazione, degli autori nei confronti di La Capria.
Si evidenzia anche un certo snobismo, tipico delle elite intellettuali, accompagnato però sempre a sobrietà e, tutto sommato, a semplicità e verità.
Mi ha fatto piacere leggerlo, incontrarlo; è stato come aver conosciuto direttamente la persona, l’uomo Raffaele La Capria: una gran bella persona!
© Giovanni Lamagna
Recensione del film “E’ stata la mano di Dio” (2021) di Paolo Sorrentino
Ho appena visto l’ultimo film di Paolo Sorrentino, “E’ stata la mano di Dio”, e dico subito che mi è piaciuto: è un bel film, senz’altro un film d’autore!
Certo Sorrentino non è Fellini, anche se al regista riminese chiaramente e dichiaratamente si ispira, per cui è quasi impossibile non paragonarlo col mostro sacro, suo mentore virtuale.
Sorrentino indubbiamente non ha il genio magico e, diciamolo pure, inimitabile di Fellini, però è certamente una persona molto interiore, che sa guardarsi dentro e, come tutte le persone interiori, ha perciò molte cose da dire.
Non lo sa fare nel modo visionario, incandescente, seduttivo, scoppiettante e incantatore di Fellini, ma lo sa fare sicuramente con buona maestria e padronanza, sia nel costruire le storie sia nel renderle sul grande schermo.
Questo film – tanto per restare all’accostamento con Fellini – è un vero e proprio Amarcord sorrentiniano. Così come “La grande bellezza” fu la versione sorrentiniana de “La dolce vita” felliniana.
L’idea da cui nasce è, infatti, probabilmente la stessa da cui originò il meraviglioso film di ricordi del regista riminese: il desiderio/esigenza di ripercorrere la propria adolescenza, di rivisitare i luoghi in cui essa si svolse, di ritrovare persone, episodi, atmosfere, dolori, tragedie, che la caratterizzarono.
Quasi per fare i conti con quella fase della vita, prolungatasi forse fin troppo a lungo, e per uscirne definitivamente, aprendone una nuova.
E, come il film di Fellini ovviamente era ambientato a Rimini, così l’Amarcord di Sorrentino non poteva che essere ambientato a Napoli.
Due contesti evidentemente molto diversi, immerso spesso nella nebbia più fitta il primo, estremamente luminoso e solare il secondo; entrambi però accomunati dall’allegria quasi ridanciana, dal gusto per lo scherzo, anzi per lo sberleffo, dal piacere di godere della sensualità dei corpi.
Fatta questa premessa, evidenzierei che il film di Sorrentino si divide in due tempi nettamente distinti tra di loro, quasi contrapposti.
Le caratteristiche principali del primo sono la risata, la gioia di vivere, la convivialità allegra. Nel corso del primo tempo si ride molto, sembra quasi di assistere ad un film comico; come d’altra parte si rideva molto nell’Amarcord felliniano.
Ma già l’ultima scena del primo tempo preannuncia un radicale cambio di registro, che si affermerà poi pienamente nel secondo tempo; alla commedia (spesso comica) subentrerà prima il dolore acuto e poi la vera e propria tragedia.
La svolta viene annunciata dal pianto e dal tremore isterico della madre (Teresa Saponangelo) del giovane Fabio (Filippo Scotti: Sorrentino adolescente), che scopre il tradimento (in corso forse già da svariati anni) del marito (Toni Servillo) con una sua collega di ufficio.
E si realizza pienamente con la scena dei due genitori di Fabio, che dopo la breve separazione, dopo essersi riappacificati, quando hanno coronato finalmente il loro sogno (molto piccolo-borghese) di avere una casa in montagna (a Roccaraso), accendono il camino e sprovvedutamente vi si addormentano davanti, seduti sul divano, mentre l’uno legge “Un uomo” di Oriana Fallaci e l’altra sferruzza a maglia; respirano così l’aria che diventa sempre più velenosa per le esalazioni del monossido di carbonio e vanno incontro ad una tragica e prematura morte.
I tre figli riescono a salvarsi dalla stessa sorte per puro miracolo, perché non hanno accompagnato i genitori (come pure questi avrebbero desiderato) nel weekend a Roccaraso: Marchino (Marlon Joubert), perché tutto preso dal nuovo amore per una ragazza, Daniela (Rossella Di Lucca), perché vive isolata in un mondo tutto suo (e, infatti, nel film compare pochissimo), infine Fabietto, perché non voleva perdersi la partita Napoli-Empoli, dove avrebbe visto giocare il suo idolo Diego Armando Maradona, nuovo acquisto del Napoli.
Questo di Maradona è uno dei capitoli più importanti dell’adolescenza di Fabio/Sorrentino e, per conseguenza del film; uno di quelli sul quale si è maggiormente costruito l’immaginario del giovane adolescente; Maradona è visto come una specie di divinità calata in terra, che compensa le frustrazioni di un’intera città e ne realizza i sogni a lungo, troppo a lungo, repressi, perché considerati impossibili.
Emblematica, quasi onirica, la scena in cui il ragazzo, mentre attraversa la strada, vede Maradona in un’auto ferma ad un semaforo rosso: il suo sguardo resta paralizzato per svariati secondi, i suoi occhi non credono a quello che stanno vedendo, e con in suoi quelli della piccola folla che ha ricevuto la grazia di una simile visione.
Come non riandare con la memoria alla scena felliniana dei riminesi che a bordo delle loro barche si spingono al largo per assistere nel buio della notte e col mare mosso al passaggio luccicante e favoloso del transatlantico Rex?
L’altro personaggio molto significativo dell’adolescenza di Fabio-Sorrentino è la zia Patrizia (Luisa Ranieri), sorella della madre, donna di straordinaria e prorompente bellezza, che accende le fantasie e le pulsioni erotico-sessuali del giovane ragazzo e di quelle del fratello Marchino.
Patrizia è una bellissima donna, ma anche estremamente frustrata, sia perché non riesce a rimanere incinta, sia perché vive con un marito, Franco (Massimiliano Gallo) che spesso e volentieri la riempie di botte; per questo dà spesso in stranezze.
Emblematica la scena della famiglia allargata ai numerosissimi parenti, in gita su un grande gozzo al largo della penisola sorrentina, quando Patrizia, col massimo candore e allo stesso tempo massima spudoratezza, si toglie tutti i vestiti di dosso e si stende completamente nuda, meravigliosamente nuda, sulla tolda della barca e tutti gli astanti la guardano allibiti e allo stesso tempo desideranti.
Come non riandare anche qui ad una delle scene madri dell’Amarcord felliniano: quella in cui la tabaccaia prosperosa e sensuale alla sera, prima sella chiusura, fa entrare nel suo negozio i ragazzi del borgo che sono soliti guardarla sbavanti e pieni di desiderio, abbassa la saracinesca e mostra loro, seduttiva e complice, le sue enormi, debordanti tette?
Patrizia è per Fabietto l’altro mito della sua adolescenza, l’unico che può competere nel suo immaginario sognante con quello di Maradona.
La morte tragica di Saverio e Maria segna, come una ferita non più rimarginabile, la vita dei tre figli, in modo particolare quella di Fabietto, che al contrario del fratello maggiore, Marchino, il quale intende darsi alla bella vita per rimuovere il dolore per la perdita dei genitori, non se ne fa una ragione, non riesce ad allontanare da sé le tracce del trauma vissuto.
Si rifugia così nel mondo dell’immaginario, che gli sembra senza ombra di dubbi preferibile alla realtà che egli definisce “scadente”. E in questo modo dentro di lui affiora un poco alla volta e infine si manifesta chiaramente la vocazione a fare il regista di film.
In questo suo percorso di (parziale) elaborazione del trauma (la elaborazione definitiva avverrà forse proprio con la costruzione e realizzazione di questo film: ecco il suo senso e la sua motivazione di fondo!) lo aiutano quattro figure significative.
1. La zia Patrizia, che non solo, come abbiamo già visto, è stato il primo oggetto dei suoi ardori erotici e sessuali, in quanto incarnazione stessa, sublime, della femminilità e dell’erotismo; ma è anche colei che incoraggia subito, appena Fabio glielo rivela, e con grande forza il suo sogno di diventare un autore di film.
2. Armando (Biagio Manna) un giovane contrabbandiere (Fabio lo incontra per caso allo stadio e con lui familiarizza condividendo il tifo per Maradona), che lo introduce in un mondo per lui (cresciuto in un ambiente piccolo borghese) completamente altro, quello della camorra e della violenza, alternata però anche a grande generosità e persino tenerezza.
3. La baronessa Focale (Betti Pedrazzi), una signora anziana, nobile decaduta, dall’aria solo apparentemente altera e distaccata, che abitava nello stesso palazzo ed era di famiglia in casa Schisa.
Che, quando si rende conto del momento molto difficile che sta attraversando Fabio, con un pretesto lo attira a casa sua e con modi molto garbati ed estremamente seduttivi, lo introduce ai misteri del sesso: la prima volta di Fabio!
E’ questa una delle scene più sexy e conturbanti del film, paragonabile e forse addirittura superiore a quella della zia Patrizia completamente nuda sulla tolda della barca davanti ad un pubblico di spettatori che la guardavano carichi di stupore e meraviglia.
Lì c’era il trionfo solare e spettacolare della bellezza fisica di Luisa Ranieri (zia Patrizia), esaltata dalla luce e dalla natura, con la monta ovvia del desiderio degli astanti maschili, in particolare di Fabio e di suo fratello Marchino, e forse persino l’invidia delle astanti femminili.
Qui, invece, si realizzano – nella penombra di una camera da letto e nel tete a tete – la celebrazione delle arti seduttive, affinate con gli anni e con l’esperienza, di un’anziana signora e il rito di iniziazione al sesso di un giovane, che fino ad allora lo aveva solamente fantasticato e, quindi, si mostra timido e imbranato.
Anche qui come non associare la scena dell’anziana baronessa che seduce e inizia al sesso il giovane Fabio a quella felliniana della splendida Gradisca che maliziosamente attizza prima e poi svezza, anche se solo con un bacio, i giovani adolescenti riminesi che sbavavano per lei?
4. Infine, Antonio Capuano (Ciro Capano), un regista napoletano, un po’ di nicchia, che all’inizio strapazza violentemente il giovane Fabio, che gli ha confidato il suo desiderio di diventare regista cinematografico, come per metterlo alla prova e saggiare l’autenticità della sua vocazione.
Ma poi si addolcisce, intenerisce e gli dà persino alcuni consigli, il più importante dei quali mi pare è “Non disunirti!”.
Che io ho interpretato così: non perdere i contatti con le tue radici, quindi con la tua famiglia, con la tua città di origine, con i simboli e i miti che hanno segnato la tua adolescenza, con il tuo dolore di fondo; perché è da lì che potrai ricevere la linfa che alimenterà la tua creatività, le cose che vorrai dire e tradurre in immagini.
Il film si conclude (anche qui sulla falsariga dell’Amarcord felliniano) con la scena di Fabio che viaggia in treno, direzione Roma, per inseguire il suo sogno di fare il regista.
E in sottofondo si ascolta la famosa canzone di Pino Daniele “Napule è”, come a dire che Fabio lascia la città che lo ha visto nascere e crescere, ma non si “disunisce”: le sue radici rimangono a Napoli e daranno linfa continua alla sua creatività artistica.
© Giovanni Lamagna
Recensione del film “Qui rido io” di Mario Martone.
L’ultimo film di Mario Martone, “Qui rido io”, è un bel film, quello che si dice di solito “un film riuscito”.
Analizza a fondo la figura di Eduardo Scarpetta, attore e commediografo, il massimo esponente del teatro napoletano nei decenni a cavallo tra la fine dell’800 e gli inizi del 900, erede del grande successo del suo maestro Antonio Petito.
Ma, a pensarci bene, la figura di Scarpetta è un pretesto che Martone utilizza per indagare da un lato le contraddizioni che caratterizzano – chi più e chi meno, chi in un modo chi in un altro – l’animo di ogni uomo, dall’altro il clima culturale e politico dell’Italia in generale e di Napoli in particolare agli inizi del 900.
Per quanto riguarda Scarpetta viene fuori innanzitutto un uomo dalla vis artistica geniale, straripante, molto sicuro di sé, perché consapevole del suo talento sia di commediografo che di attore, ma enormemente accentratore, tendente quindi a schiacciare gli altri componenti della sua compagnia, compresi i figli.
E poi grande, forse persino assatanato, amante delle donne, alcune delle quali faceva vivere (praticamente convivere) nella sua stessa casa o nelle immediate adiacenze, come in una specie di grande comune; ma allo stesso tempo indifferente, quasi inconsapevole delle dinamiche dolorose che i suoi pluriamori scatenavano tra le numerose amanti e i figli (ancora più numerosi) da loro avuti.
Ancora: estremamente generoso, grazie ai grandi guadagni accumulati, coi componenti della sua famiglia allargata, ma allo stesso tempo estremamente tirato, taccagno, spilorcio, con gli attori della sua compagnia, i quali si lamentavano tutti dei miseri compensi che da lui percepivano.
Infine, di Scarpetta viene descritta molto bene la parabola umana ed artistica: dall’immediato, rapido successo (la maschera da lui inventata e interpretata, quella di Felice Sciosciammocca, arriva a soppiantare quella di Pulcinella, portata in auge pochi decenni prima da Antonio Petito) fino al progressivo tramonto, umano e professionale.
Dovuto in parte alla nascita e al successo del grande varietà e del cinematografo, in parte ad una causa intentatagli con l’accusa di plagio da Gabriele D’Annunzio, che ne paralizzò l’attività per tre anni, dal 1906 al 1908.
Accusa da cui egli seppe però difendersi benissimo, anche grazie all’appoggio che gli fornì Benedetto Croce, e dalla quale alla fine di un tormentato processo fu completamente scagionato, con una sentenza del tribunale di Napoli che all’epoca fece clamore.
Nel film – dicevo all’inizio – viene descritto anche, seppure sullo sfondo della vicenda umana ed artistica di Eduardo Scarpetta, il clima culturale e politico dell’Italia e in modo particolare di Napoli tra la fine dell’800 e gli inizi del 900.
Un clima che potremmo definire da “belle epoque”, dove la spensieratezza, il divertissement, l’allegria, la comicità, la risata, lo sberleffo, la battuta sarcastica e dissacrante, tipici del teatro di Scarpetta, ma non solo di Scarpetta, tendono se non proprio a coprire e rimuovere, quantomeno a sminuire il dramma e perfino le tragedie della povertà diffusa, che diventava vera e propria miseria nel popolino.
A questo clima cercavano di reagire, almeno qui a Napoli, personaggi quali Salvatore Di Giacomo, Ernesto Murolo, Ferdinando Russo, Libero Bovio, Roberto Bracco, che contestavano quelle che consideravano evasioni, alienazioni, e nelle loro poesie, canzoni e commedie volevano far emergere i drammi e le tragedie, soprattutto la povertà e la miseria del popolo; e, quindi, si ponevano in antagonismo a Scarpetta.
Anche se poi non si capisce bene perché (nel film questo aspetto non viene chiarito), nella tenzone legale contro l’attore commediografo, abbiano colluso e si siano alleati con un personaggio come Gabriele D’Annunzio, snob, dandy, amante del lusso e della bella vita, lontanissimo quindi dalla condizione della povera gente, che non solo ignorava, ma forse disprezzava finanche.
Nel film ha particolare importanza la colonna sonora, costituita da molte delle più belle canzoni napoletane di ogni tempo, a cominciare da quelle classiche di fine 800/inizi 900 a quelle più recenti degli anni 50 e 60; come a voler sottolineare (forse) una continuità tra il passato e il presente di Napoli, città che fa fatica, molta fatica, ad uscire dai suoi tradizionali cliché.
Bella e convincente l’interpretazione di Toni Servillo, nei panni del protagonista Eduardo Scarpetta, che egli rende magnificamente. Ma bella e convincente tutta la compagnia di attori, da cui Servillo è circondato, tra i più importanti del teatro napoletano e del cinema italiano.
Ottima la regia, come quasi sempre, di Mario Martone, mai banale, sempre attento alle inquadrature più efficaci, ai piccoli particolari della recitazione, alla colonna sonora, alla resa emozionale della storia senza mai scadere nel sentimentalismo e nella retorica.
© Giovanni Lamagna
Abito una città
Solare e piovosa
allegra e dolente
triste e gioiosa
pezzente e lussuriosa
aristocratica e plebea
violenta e solidale
bambina e vecchia
nuova e antica
povera e straricca
cadente e rinascente
dura e porosa
avvolgente e sfuggente
aperta e chiusa
timida e sfacciata
luminosa e cupa
lucida e rugosa
strasana e stramalata
provincia e metropoli
unica e universale
orribile e magnifica
fetida e profumata
umida e secca
generosa e prepotente
volgare e raffinata
ridanciana e severa
austera ed eccessiva
ritrosa e sfrontata
emaciata e prosperosa
scontrosa e ruffiana
scostante ed accogliente
gaudente e disperata
ribelle e servile
sazia ed affamata
carnale e cinica
luce sfavillante e ombre tenebrose
acqua, aria, terra e fuoco.
Abito a Napoli.
© Giovanni Lamagna
Sull’articolo di Saviano comparso ieri su “la Repubblica”
Su “la Repubblica” di ieri Roberto Saviano dedica un lungo articolo (una pagina intera) alla vicenda di Ugo Russo, l’adolescente ucciso sabato scorso a Napoli da un carabiniere, che il Russo e un suo giovanissimo complice stavano tentando di rapinare.
L’articolo dice molte cose giuste (ed anche, a dire il vero, altre sulle quali sarebbe necessario fare dei distinguo e delle precisazioni), ma ne dimentica una, per me essenziale.
E cioè che, a fronte di episodi simili e del retroterra economico, sociale e culturale che essi esprimono, c’è bisogno, oltre che degli interventi economici, sociali, educativi e culturali, a cui fa riferimento Saviano, anche di una giusta e proporzionata dose di repressione.
Anche nei confronti dei minori che si rendono protagonisti di episodi simili a quello di sabato scorso (o addirittura più gravi). Come, del resto, aveva egregiamente scritto il giorno prima su “la Repubblica Napoli” il giornalista Luigi Vicinanza.
Perché lo Stato, un qualsiasi Stato, anche il più virtuoso dal punto di vista del welfare, si regge anche (pure se non solo) sulla forza. Lo Sato è quell’organismo giuridico che, per definizione, ha il monopolio della forza. Se non riesce a farla valere, diciamo pure a imporre, viene meno la sua stessa funzione.
D’altra parte non possiamo neanche lontanamente teorizzare una società (e, quindi, uno Stato) in cui tutto funziona a tal punto (dall’economia ai servizi sociali alle istituzioni culturali…) che la delinquenza e la criminalità vi siano del tutto bandite.
Certo, possiamo sperare che in una società più equa, meno stratificata economicamente e socialmente, dove la cultura sia considerata un bene comune ed alto a cui tutti aspirare, la delinquenza e la criminalità diventino fenomeni marginali. Ma non possiamo certo sperare e tantomeno ipotizzare che esse scompaiano del tutto.
E allora, di fronte a episodi di violenza, di delinquenza e di criminalità, cosa deve fare uno Stato? Assistere impotente, passivo, inerte, in nome di un “buonismo” che è estraneo potremmo dire alla sua stessa costituzione giuridica? No, non può! Altrimenti lo Stato scompare, si ecclissa.
Certo, deve migliorare sempre di più i suoi servizi sociali e culturali, ma deve anche, quando ciò si rendesse necessario, anzi indispensabile, reprimere, impedire che violenza, delinquenza, criminalità facciano danni alla collettività oltre un certo limite fisiologico, deve assolutamente impedire che esse dilaghino, come purtroppo da secoli succede a Napoli.
Intervento sociale e intervento repressivo devono camminare di pari passo. Guai a pensare che tutto si possa risolvere solo con gli interventi sociali (che tra l’altro spesso fanno vedere i loro risultati solo a lungo termine). Come guai a pensare che tutto si risolva solo con gli interventi repressivi.
Purtroppo spesso a Napoli il dibattito (retorico e inconcludente) si accende sulla questione se vengano prima gli uni o prima gli altri. Con l’esito, il più delle volte, che purtroppo non si realizzano né gli uni né gli altri.
Giovanni Lamagna
……………………………………………………..
P.S.
Alcune delle questioni affrontate da Saviano su cui, a mio avviso, occorre fare dei distinguo rispetto alle tesi da lui sostenute.
1.Saviano dice: “Questa è una tragedia di cui Napoli è responsabile. Questa è una tragedia di cui siamo responsabili tutti noi che ci occupiamo di ciò che accade al Sud, di ciò che accade a Napoli.”
Questa tesi non mi trova concorde, perché finisce per avere, al di là delle stesse intenzioni di Saviano, il seguente esito negativo: “Tutti responsabili, nessun responsabile!”.
E, invece, qui ci sono delle responsabilità ben precise e non generalizzabili. Ne vorrei elencare alcune.
Ci sono le responsabilità di una classe borghese, miope, ignorante ed egoista, che mira a sfruttare anziché ad elevare socialmente e culturalmente i ceti e le classi subalterne.
Ci sono le responsabilità di un modello economico prevalente, che mira all’arricchimento facile, a consumi fatui, che disprezza la cultura.
Ci sono le responsabilità di una classe dirigente, soprattutto di quella politica, imbelle, che anziché far valere la legge, preferisce mantenere con la criminalità (organizzata e non) un rapporto di quasi non belligeranza o, quantomeno, di tolleranza.
Ci sono poi le responsabilità (gravissime) degli stessi soggetti che si fanno attirare nella spirale della delinquenza spicciola e/o della vera e propria criminalità. In primo luogo di quelli adulti, incapaci di adempiere minimamente al loro ruolo educativo di genitori. E poi degli stessi giovani e perfino degli adolescenti, che cresciuti in ambienti malsani, finiscono per diventare delinquenti.
Non ovviamente, non naturalmente, quale esito quasi fatale ed inevitabile; così come sembrano teorizzare molti maitre a penser improvvisati e, a me pare, lo stesso Saviano.
Sostenere questa tesi significa fare torto, anzi offesa, alle masse di poveri che, pur in condizioni di vita estremamente indigenti, non si lasciano sedurre dalle sirene del guadagno facile offerto loro dalla criminalità e preferiscono guadagnarsi da vivere con attività modeste ma oneste, pur se in mezzo a grandi stenti e sofferenze.
- Quando scoppiano queste tragedie, puntualmente si fa appello (e lo fa a lungo anche Saviano) al ruolo che dovrebbe svolgere la scuola. Ora lungi da me sottovalutare il ruolo delle agenzie educative in generale e della scuola in particolare, anche rispetto al problema che stiamo esaminando.
Avendo però insegnato nella scuola per oltre tre decenni, mi sia permesso dire che affidare alla scuola un ruolo quasi taumaturgico è del tutto sbagliato. Non è questione di ore passate a scuola o di strutture e, in fondo, manco di metodologie. E’ questione di modelli culturali.
Che cosa intendo dire? Questo. Se il modello culturale egemone, dominante nella società, è quello dell’arricchimento, magari facile, se il modello prevalente dei consumi è quello dei beni fatui, frivoli, se il modello principale delle relazioni sociali è quello della competizione estrema, cosa pensate possa fare la scuola, la quale prova invece a passare (d’accordo: non sempre lo fa in maniera convincente ed efficace) il modello culturale opposto?
L’insegnamento che i ragazzi ricevono a scuola entrerà per forza di cose in rotta di collisione con quello che gli stessi ragazzi apprendono fuori della scuola. Col risultato che alcuni (sempre più pochi) scelgono quello offerto loro dalla scuola, altri (i più) quello proposto loro dalla società in cui tutti noi viviamo.
Non rimuoviamo con troppa facilità una dichiarazione molto grave fatta dal ragazzino complice di Ugo, quando è stato interrogato all’indomani della tragica vicenda che lo aveva visto coinvolto: “A noi i soldi ricavati dalla rapine ci servivano per andare in discoteca”.
Quindi non per portare un po’ di reddito a casa delle loro famiglie indigenti (cosa che avrebbe potuto dare al gesto dei due ragazzi un minimo di giustificazione), ma “per andare in discoteca”, cioè per fare una cosa del tutto fatua e frivola.
Pensate che anche la migliore delle scuole (dal punto di vista della didattica e del tempo prolungato) sia in grado di parlare, di dire qualcosa a ragazzi intrisi di questi modelli culturali e sociali? O il dialogo tra loro sarà destinato fatalmente ad essere un dialogo tra sordi?
Questo non per dire che allora è impossibile qualsiasi intervento socio-educativo. Ma semplicemente per affermare che è del tutto fuorviante e banale affidarlo in primo luogo o addirittura esclusivamente alla scuola.
Qui o cambiano (e radicalmente) i modelli sociali prevalenti, oppure le scuole (anche le migliori) e gli insegnanti (anche i più bravi) si ridurranno al ruolo di “predicatori nel deserto”. Ovviamente del tutto inascoltati da ragazzini come Ugo e come il suo complice di pari età.
Giovanni Lamagna
Sul film “Per amor vostro”.
29 settembre 2015
Sul film “Per amor vostro”.
Il film di Giuseppe M. Gaudino “Per amor vostro” è il ritratto di una donna di mezza età, Anna, (interpretato magistralmente da una straordinaria Valeria Golino), ma è anche il ritratto fedele della città in cui è ambientato, Napoli, con le sue (molte) ombre (non a caso il film è stato per la sua gran parte girato in bianco e nero) e le sue luci (non poche, nonostante tutto).
Della trama forse già tutti sanno, avendo letto le molte recensioni che già sono state scritte. Provo allora a trascrivere, quasi in sequenza temporale, le parole o le espressioni chiave, che ho via, via colto e appuntato mentre vedevo il film.
Candore, squallore, violenza, terrore, mistero, ingenuità, angoscia, incubi, rimozione, gratitudine, seduzione, paura del mare, soap opera, trappola, sensi di colpa, cedimento alla seduzione, bisogno disperato di amore, E’ cosa ‘e niente!, famiglia felice, famiglia disperata, sogno, pianto, libertà, odio, rancore, istituto di rieducazione per minorenni, suore, abbandono dei genitori, usura, sposa, diavoli, angelo, inferno, solfatara di Pozzuoli, morte, resurrezione, coraggio, denuncia del marito, autoinganno, tentativo di suicidio, giudizio dei figli, accussì eva ‘i! (così doveva andare!), fatalismo, rassegnazione, sfida, ribellione, voglia di riscatto, culto dei morti…
Ora mettete insieme, come in un frullatore, tutte queste parole ed espressioni, fatene una miscela, come in una libera associazione, ed otterrete (a mio avviso) l’immagine esatta (o abbastanza fedele) di Anna e della Napoli che il regista Giuseppe M. Gaudino ha voluto descrivere.
Un film da andare a vedere!
Giovanni Lamagna