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L’amore per gli altri.

L’amore per gli altri è premio a sé stesso.

Non ha bisogno dell’attesa di ricompense o premi.

Non ha bisogno, quindi, di sperare nel Paradiso.

Che è pura illusione.

In questa falsa speranza sta l’aspetto più caduco del Cristianesimo.

Il nocciolo duro del messaggio cristiano sta nell’amore per gli altri.

Che ci salva dal narcisismo, dall’egocentrismo, dal triste e malsano ripiegamento su noi stessi.

E, quindi, è terapeutico.

Perciò basta a sé stesso; non ha bisogno di premi o ricompense in un aldilà ipotetico.

© Giovanni Lamagna

Vita presente e vita post mortem.

L’uomo religioso che crede nell’esistenza di un’altra vita dopo la morte è, per forza di cose, al di là della sua stessa volontà, un uomo, che in una misura più o meno grande rinuncia a vivere pienamente e fino in fondo questa vita, in attesa e nella speranza di quella futura, di quella che lo attenderà dopo la morte.

Se non vivesse questa che io considero una vera e propria alienazione (non saprei definirla meglio con un altro termine) non avrebbe bisogno di credere nell’esistenza di un’altra vita dopo la morte; si accontenterebbe di vivere pienamente e fino in fondo questa vita, senza la prospettiva di un prosieguo post mortem.

© Giovanni Lamagna

Misticismo e movimento.

I mistici non sono “statici”, come afferma Franco Ferrarotti, “in attesa dell’estasi”.

A parte che la parola “estasi” (dal greco “ἔκ: fuori” + “στασις: stato”) vuol dire, letteralmente, “uscita da”.

Uscita da dove?

Dal proprio Sé (quello, sì, statico) per andare verso l’Altro da sé.

L’ estasi comporta, quindi, per definizione, un movimento.

Come potrebbe allora avvenire questo movimento, se i mistici stessero fermi?

Ma poi i mistici non stanno semplicemente, passivamente, “in attesa dell’estasi”.

Essi sono alla ricerca, una ricerca attiva, dell’estasi; l’estasi è, appunto, il risultato finale, l’approdo, il frutto, potremmo anche dire il premio, di questa loro ricerca.

I mistici, dunque, si muovono eccome, al contrario di quello che pensa Ferrarotti.

Solo che si muovono con lo spirito, anche quando stanno fermi, immobili, col corpo.

E il movimento spirituale, quello che avviene nella contemplazione, che precede e si realizza compiutamente nell’estasi, è il più importante.

Ben più importante di quello che avviene semplicemente col corpo, quando il corpo compie alcune azioni esteriori.

© Giovanni Lamagna

Il piacere e il tempo di attesa del piacere

E’ bello godere di un piacere, ma è bella anche l’attesa che precede il godimento del piacere e lo prepara.

Forse è, addirittura, più bella questa attesa che il piacere stesso.

E’ bello, ad esempio, godere di un bicchiere di vino.

Ma ancora più bello è centellinarne la degustazione.

E’ bello godere di un amplesso.

Ma ancora più belle sono le intimità che lo precedono.

© Giovanni Lamagna

Passato, presente e futuro

Ci sono uomini e donne che preferiscono guardare prevalentemente all’indietro, al loro passato.

I loro stati d’animo prevalenti sono la nostalgia o il rimpianto.

Ce ne sono altri che vivono del tutto proiettati in avanti, nel futuro.

I loro stati d’animo prevalenti sono l’ottimismo (a volte addirittura fanatico) o l’attesa messianica (spesso inerte e passiva).

L’ideale per me è stare ben piantati nel presente, con un occhio rivolto al passato, per trarne eventualmente lezioni, e con l’altro rivolto al futuro, per provare in qualche modo a prevederlo e progettarlo per quanto possibile.

I sentimenti che mi animano sono quindi: piacere di vivere il presente, nella consapevolezza che è l’unico momento che ci appartiene veramente; fiducia nel futuro, ma senza nessun futile ottimismo; senso della storia e del passato, ma senza alcuna nostalgia.

© Giovanni Lamagna

L’uomo è destinato ad essere irrimediabilmente infelice?

Il secondo mito filosofico che a mio avviso va sfatato è quello della radicale infelicità umana. Il filosofo in qualche modo emblema di questo mito è Schopenhauer.

Il quale, pur avendo raccolto parecchi appunti per dar vita, prima o poi (era questa la sua intenzione), a un piccolo manuale di eudemonologia – ovverossia l’arte della felicità – (progetto rimasto poi solo a livello di abbozzo), aveva della vita una visione radicalmente pessimistica, essendo per lui “la felicità e i piaceri… soltanto chimere che un’illusione ci mostra in lontananza, mentre la sofferenza e il dolore sono reali e si annunciano immediatamente da sé, senza bisogno dell’illusione e dell’attesa”.

Per cui “vivere felici può significare solo vivere il meno infelici possibile, o, in breve, vivere passabilmente”.

Anche qui, come per la prima dicotomia (quella buono/cattivo), io tendo a rifiutare la rigida contrapposizione tra due polarità inconciliabili, tra il concetto di felicità e quello di infelicità, in base alla quale per alcuni (pochi in verità) l’uomo sarebbe un animale fondamentalmente felice, per altri (i più, almeno tra i filosofi) condannato ad una fondamentale infelicità.

La mia esperienza mi porta a dire che l’uomo è felice ed infelice allo stesso tempo. E’ felice (almeno nella maggior parte dei casi, a meno di non essere nato in condizioni particolarmente sfortunate) per il solo e semplice fatto di essere venuto al mondo e di vivere.

Tanto è vero che in lui è fortissimo un istinto, padre di tutti gli altri istinti, che lo porta a voler vivere e non certo a morire. I casi in cui prevale il desiderio di morire e di togliersi la vita sono eccezioni a questa regola, non certo la norma.

L’uomo è felice, nel senso che ha quantomeno esperito momenti di felicità nella sua vita. Altrimenti non saprebbe neanche cosa sono l’infelicità e il dolore, che per me altro non sono che assenza di felicità (appunto) e assenza di piacere, di gioia.

Questo cosa vuol dire allora? Che l’uomo è un animale essenzialmente felice? Niente affatto! Non lo penso per niente!

La condizione umana, quella che vivono tutti gli uomini, chi più e chi meno, chi prima o chi dopo, incontra inevitabilmente il dolore sul suo tragitto.

E soprattutto è destinata a finire con la morte, che è la fine di tutto, quindi anche di quel poco o molto di felicità, di cui siamo riusciti a godere durante la vita.

E questo pensiero incombe minaccioso su tutta l’esistenza di noi umani, generando un’ombra che rabbuia anche i momenti e le vite più felici.

In conclusione, anche rispetto alla dicotomia felicità/infelicità, io sarei portato a dire che la condizione umana è un impasto singolare di felicità e infelicità.

L’uomo non è né radicalmente felice (cosa, invero, un po’ difficile da sostenere) né radicalmente infelice.

E’ a volte felice, a volte infelice. In nessun caso è felice sempre o infelice sempre.

Anche Leopardi, che non può certo essere definito un uomo felice, che nei suoi accenti rispetto alla vita ricorda molto quelli di Schopenhauer, in certi momenti ha assaporato la gioia, se non proprio la felicità.

Altrimenti non avrebbe potuto scrivere versi come questi:

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare

Cos’è questo naufragare del pensiero nel mare dell’infinito, dell’immenso, se non una profonda, intima esperienza, quand’anche solo momentanea e breve, di felicità?

(3, continua)

Giovanni Lamagna