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Gli uomini e la guerra.

Se io rispondo ad un insulto con uno schiaffo o un pugno, molto probabilmente l’altro risponderà con pugni e schiaffi e si arriverà così alla rissa.

A quel punto si innescherà, molto probabilmente, un’escalation di violenze, che potrà essere interrotta solo dall’intervento di terzi neutrali, che faranno da pacieri, o dalla sconfitta e resa unilaterale di uno dei due litiganti.

Questo era probabilmente quello che succedeva di norma agli inizi dei tempi, quando gli uomini erano poco più che delle bestie, quando vigeva la “legge” della giungla e la sopraffazione del più forte sui più deboli.

La civiltà, le società degli umani, sono nate quando, alla prima scintilla di violenza, chi l’ha subita è stato capace (o è stato costretto) a non reagire con la stessa violenza o, magari, con una violenza ancora maggiore.

La civiltà umana è nata quando la catena della violenza che poteva innescarsi – e che normalmente si innescava quando la vita sociale degli ominidi era praticamente simile a quella delle altre bestie – si è interrotta, per scelta consapevole di chi l’aveva subita o per l’intervento di un terzo estraneo alla contesa.

Questo principio – che si è affermato ed è diventato abbastanza egemone, oramai già da parecchio tempo, tra gli individui, i singoli cittadini di uno Stato, all’interno delle società civilizzate – non si è ancora affermato però (se non in maniera molto limitata e a fasi alterne) a livello dei rapporti tra i popoli, gli Stati e le nazioni.

Per cui viene ancora considerato legittimo l’uso della violenza quando un popolo o una nazione sono attaccati da un altro popolo o da un’altra nazione.

La guerra è – generalmente e tutto sommato – ancora considerata un modo legittimo per dirimere, risolvere, le controversie tra le nazioni.

La guerra viene ritenuta ancora oggi – come ebbe a dire il generale prussiano Von Klausevitz a metà Ottocento, con un’affermazione divenuta poi famosissima – il proseguimento della politica, con altri mezzi; quando cioè la diplomazia fallisce, si arena, si incaglia, giunge su un binario morto.

In altre parole quello che oramai abbastanza universalmente viene considerato “incivile” a livello dei rapporti tra gli individui, tra i singoli cittadini all’interno di uno Stato e di una Nazione, viene considerato, invece, ancora legittimo a livello dei rapporti tra gli Stati e le Nazioni.

Ciò vuol dire che ne abbiamo ancora di strada da percorrere sulla via del progresso civile ed umano.

Ne abbiamo di cammino da compiere prima che si avveri l’auspicio di alcuni uomini illustri (quali, per fare solo alcuni nomi, Albert Einstein o Bertrand Russell o Gino Strada); l’auspicio che la guerra diventi un tabù, come lo sono già diventati, in epoche passate, l’incesto e la schiavitù!

Ed io – a dire il vero – non sono manco convinto che, come Umanità, siamo ancora in tempo a percorrere questa lunga strada che ci resta da fare, prima che uno scontro di infinite proporzioni ci (auto)distrugga anzitempo.

Anzi, se devo essere del tutto sincero con me stesso, la ragione non mi spinge affatto ad essere ottimista rispetto a questa prospettiva.

Dal momento che oramai abbiamo tutti gli strumenti perché questo rischio incombente, che già da alcuni decenni pesa minaccioso sulle nostre teste, da pura eventualità si trasformi in mostruosa e tragica realtà.

E potrebbe bastare anche una piccola scintilla per innescare un incendio immane e senza ritorno: questa scintilla potrebbe essere ad esempio il conflitto attualmente in corso in Ucraina.

© Giovanni Lamagna

Alcune considerazioni sul Cristianesimo

Un amico mi scrive: “Secondo me, amare i propri nemici è una follia contro natura e uno dei motivi per cui il cristianesimo è in via di estinzione. Anzi il vero cristianesimo è già estinto da secoli. Quello che sopravvive è un cristianesimo fai-da-te e ipocrita.”

Qui di seguito la mia risposta.

Caro B., amare i propri nemici sarebbe contro natura, se nell’uomo ci fossero solo pulsioni che tendono alla competizione e alla sopraffazione, per cui all’invidia, all’aggressività, all’odio non si può che rispondere con altrettanto odio e aggressività; in altre parole se fosse vero che “occhio per occhio, dente per dente”.

Come forse ritieni tu. Ma – devo riconoscere – non sei certo il solo: nella storia ti hanno preceduto caterve di uomini di pensiero illustri, quali – per fare solo quattro nomi – Machiavelli, Hobbes e, per molti aspetti, Nietzsche e Freud.

Io, invece, penso (ma mi sento, a mia volta, in buona compagnia, con fior di altri illustri pensatori) che nell’uomo esistano indubbiamente le pulsioni (negative e distruttive) di cui sopra, ma esistano anche quelle (positive e costruttive) che tendono alla compassione, alla cooperazione e persino all’amore.

Il “vero cristianesimo” (come lo definisci tu) mirava a che le seconde superassero, annullassero o, quantomeno, integrassero le prime in ogni singolo uomo; perciò invitava, sollecitava, ad una vera e propria conversione del cuore.

E questo non è, certo, facile da realizzarsi, ma, almeno a mio avviso, non è neanche del tutto impossibile o, addirittura, una follia, perché radicalmente “contro natura”, come invece sostieni tu.

Il Cristianesimo, il vero Cristianesimo, si è estinto da tempo?

Questo è forse il tuo auspicio, ma a me (e, a dire il vero, non solo a me) non sembra affatto; del resto, quando sembra morto, il Cristianesimo rinasce dalle sue ceneri.

Intanto sono vive e ancora abbastanza vegete le Chiese, che, pur con tutte le loro infinite contraddizioni (e, in certi casi, persino misfatti; pensiamo agli ultimi, recenti, episodi venuti alla luce di pedofilia tra i preti), al Cristianesimo si richiamano.

Questo è, che ci piaccia o no, un dato storico inoppugnabile; ora, mi sai dire quali altre istituzioni, che abbiamo conosciuto nella Storia, sono state in grado di durare così a lungo nel tempo?

Ma soprattutto il Cristianesimo ha gettato un seme profondo, ritengo oramai indelebile, che vive nella coscienza morale di tanti, tantissimi, uomini di spirito, che ne hanno colto e si sforzano di praticare il suo messaggio essenziale.

Perfino uomini che non si sono riconosciuti ieri e non si riconoscono oggi nelle Chiese che al Cristianesimo facevano e fanno riferimento; perfino uomini (tra i quali metto immodestamente il sottoscritto) che si dichiarano non credenti, che non si riconoscono in nessuna fede religiosa.

Basti pensare a uno per tutti, a Benedetto Croce, che su questo argomento scrisse un piccolo saggio diventato poi famoso e spesso citato: “Non possiamo non dirci cristiani”; e lui non era certo un “uomo di fede”, almeno nel senso classico e tradizionale che ha assunto questa espressione.

© Giovanni Lamagna