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Alcune considerazioni sul Cristianesimo

Un amico mi scrive: “Secondo me, amare i propri nemici è una follia contro natura e uno dei motivi per cui il cristianesimo è in via di estinzione. Anzi il vero cristianesimo è già estinto da secoli. Quello che sopravvive è un cristianesimo fai-da-te e ipocrita.”

Qui di seguito la mia risposta.

Caro B., amare i propri nemici sarebbe contro natura, se nell’uomo ci fossero solo pulsioni che tendono alla competizione e alla sopraffazione, per cui all’invidia, all’aggressività, all’odio non si può che rispondere con altrettanto odio e aggressività; in altre parole se fosse vero che “occhio per occhio, dente per dente”.

Come forse ritieni tu. Ma – devo riconoscere – non sei certo il solo: nella storia ti hanno preceduto caterve di uomini di pensiero illustri, quali – per fare solo quattro nomi – Machiavelli, Hobbes e, per molti aspetti, Nietzsche e Freud.

Io, invece, penso (ma mi sento, a mia volta, in buona compagnia, con fior di altri illustri pensatori) che nell’uomo esistano indubbiamente le pulsioni (negative e distruttive) di cui sopra, ma esistano anche quelle (positive e costruttive) che tendono alla compassione, alla cooperazione e persino all’amore.

Il “vero cristianesimo” (come lo definisci tu) mirava a che le seconde superassero, annullassero o, quantomeno, integrassero le prime in ogni singolo uomo; perciò invitava, sollecitava, ad una vera e propria conversione del cuore.

E questo non è, certo, facile da realizzarsi, ma, almeno a mio avviso, non è neanche del tutto impossibile o, addirittura, una follia, perché radicalmente “contro natura”, come invece sostieni tu.

Il Cristianesimo, il vero Cristianesimo, si è estinto da tempo?

Questo è forse il tuo auspicio, ma a me (e, a dire il vero, non solo a me) non sembra affatto; del resto, quando sembra morto, il Cristianesimo rinasce dalle sue ceneri.

Intanto sono vive e ancora abbastanza vegete le Chiese, che, pur con tutte le loro infinite contraddizioni (e, in certi casi, persino misfatti; pensiamo agli ultimi, recenti, episodi venuti alla luce di pedofilia tra i preti), al Cristianesimo si richiamano.

Questo è, che ci piaccia o no, un dato storico inoppugnabile; ora, mi sai dire quali altre istituzioni, che abbiamo conosciuto nella Storia, sono state in grado di durare così a lungo nel tempo?

Ma soprattutto il Cristianesimo ha gettato un seme profondo, ritengo oramai indelebile, che vive nella coscienza morale di tanti, tantissimi, uomini di spirito, che ne hanno colto e si sforzano di praticare il suo messaggio essenziale.

Perfino uomini che non si sono riconosciuti ieri e non si riconoscono oggi nelle Chiese che al Cristianesimo facevano e fanno riferimento; perfino uomini (tra i quali metto immodestamente il sottoscritto) che si dichiarano non credenti, che non si riconoscono in nessuna fede religiosa.

Basti pensare a uno per tutti, a Benedetto Croce, che su questo argomento scrisse un piccolo saggio diventato poi famoso e spesso citato: “Non possiamo non dirci cristiani”; e lui non era certo un “uomo di fede”, almeno nel senso classico e tradizionale che ha assunto questa espressione.

© Giovanni Lamagna

Recensione del film “Qui rido io” di Mario Martone.

L’ultimo film di Mario Martone, “Qui rido io”, è un bel film, quello che si dice di solito “un film riuscito”.

Analizza a fondo la figura di Eduardo Scarpetta, attore e commediografo, il massimo esponente del teatro napoletano nei decenni a cavallo tra la fine dell’800 e gli inizi del 900, erede del grande successo del suo maestro Antonio Petito.

Ma, a pensarci bene, la figura di Scarpetta è un pretesto che Martone utilizza per indagare da un lato le contraddizioni che caratterizzano – chi più e chi meno, chi in un modo chi in un altro – l’animo di ogni uomo, dall’altro il clima culturale e politico dell’Italia in generale e di Napoli in particolare agli inizi del 900.

Per quanto riguarda Scarpetta viene fuori innanzitutto un uomo dalla vis artistica geniale, straripante, molto sicuro di sé, perché consapevole del suo talento sia di commediografo che di attore, ma enormemente accentratore, tendente quindi a schiacciare gli altri componenti della sua compagnia, compresi i figli.

E poi grande, forse persino assatanato, amante delle donne, alcune delle quali faceva vivere (praticamente convivere) nella sua stessa casa o nelle immediate adiacenze, come in una specie di grande comune; ma allo stesso tempo indifferente, quasi inconsapevole delle dinamiche dolorose che i suoi pluriamori scatenavano tra le numerose amanti e i figli (ancora più numerosi) da loro avuti.

Ancora: estremamente generoso, grazie ai grandi guadagni accumulati, coi componenti della sua famiglia allargata, ma allo stesso tempo estremamente tirato, taccagno, spilorcio, con gli attori della sua compagnia, i quali si lamentavano tutti dei miseri compensi che da lui percepivano.

Infine, di Scarpetta viene descritta molto bene la parabola umana ed artistica: dall’immediato, rapido successo (la maschera da lui inventata e interpretata, quella di Felice Sciosciammocca, arriva a soppiantare quella di Pulcinella, portata in auge pochi decenni prima da Antonio Petito) fino al progressivo tramonto, umano e professionale.

Dovuto in parte alla nascita e al successo del grande varietà e del cinematografo, in parte ad una causa intentatagli con l’accusa di plagio da Gabriele D’Annunzio, che ne paralizzò l’attività per tre anni, dal 1906 al 1908.

Accusa da cui egli seppe però difendersi benissimo, anche grazie all’appoggio che gli fornì Benedetto Croce, e dalla quale alla fine di un tormentato processo fu completamente scagionato, con una sentenza del tribunale di Napoli che all’epoca fece clamore.

Nel film – dicevo all’inizio – viene descritto anche, seppure sullo sfondo della vicenda umana ed artistica di Eduardo Scarpetta, il clima culturale e politico dell’Italia e in modo particolare di Napoli tra la fine dell’800 e gli inizi del 900.

Un clima che potremmo definire da “belle epoque”, dove la spensieratezza, il divertissement, l’allegria, la comicità, la risata, lo sberleffo, la battuta sarcastica e dissacrante, tipici del teatro di Scarpetta, ma non solo di Scarpetta, tendono se non proprio a coprire e rimuovere, quantomeno a sminuire il dramma e perfino le tragedie della povertà diffusa, che diventava vera e propria miseria nel popolino.

A questo clima cercavano di reagire, almeno qui a Napoli, personaggi quali Salvatore Di Giacomo, Ernesto Murolo, Ferdinando Russo, Libero Bovio, Roberto Bracco, che contestavano quelle che consideravano evasioni, alienazioni, e nelle loro poesie, canzoni e commedie volevano far emergere i drammi e le tragedie, soprattutto la povertà e la miseria del popolo; e, quindi, si ponevano in antagonismo a Scarpetta.

Anche se poi non si capisce bene perché (nel film questo aspetto non viene chiarito), nella tenzone legale contro l’attore commediografo, abbiano colluso e si siano alleati con un personaggio come Gabriele D’Annunzio, snob, dandy, amante del lusso e della bella vita, lontanissimo quindi dalla condizione della povera gente, che non solo ignorava, ma forse disprezzava finanche.

Nel film ha particolare importanza la colonna sonora, costituita da molte delle più belle canzoni napoletane di ogni tempo, a cominciare da quelle classiche di fine 800/inizi 900 a quelle più recenti degli anni 50 e 60; come a voler sottolineare (forse) una continuità tra il passato e il presente di Napoli, città che fa fatica, molta fatica, ad uscire dai suoi tradizionali cliché.

Bella e convincente l’interpretazione di Toni Servillo, nei panni del protagonista Eduardo Scarpetta, che egli rende magnificamente. Ma bella e convincente tutta la compagnia di attori, da cui Servillo è circondato, tra i più importanti del teatro napoletano e del cinema italiano.

Ottima la regia, come quasi sempre, di Mario Martone, mai banale, sempre attento alle inquadrature più efficaci, ai piccoli particolari della recitazione, alla colonna sonora, alla resa emozionale della storia senza mai scadere nel sentimentalismo e nella retorica.

© Giovanni Lamagna

Cosa intendeva Gesù per Regno di Dio?

Certamente Gesù, quando parlava di “Regno di Dio” o di “Regno dei Cieli” non intendeva un regno di natura temporale.

Ci sono alcune sue affermazioni nette, chiare, forti, che contraddicono una tale interpretazione. Anzi la escludono del tutto. L’ultima, forse la più inequivoca di tutte, la pronunciò poco prima della sua crocifissione.

In risposta a Pilato che gli chiedeva: “Sei tu il re dei Giudei?”, Gesù dichiarò: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù.” (Vangelo di Giovanni; 18; 33-36).

Sono meno certo, invece, che Gesù con le espressioni “Regno di Dio” e “Regno dei Cieli” non intendesse l’avvento (escatologico) di un regno spirituale e del tutto soprannaturale, che sostituisse definitivamente il Regno naturale, storico, politico, nel quale si è svolta la sua predicazione.

Anzi è molto probabile, a mio avviso, che con quelle espressioni Gesù intendesse proprio la fine del “tempo storico dell’aldiquà” e gli inizi del “tempo eterno dell’aldilà”.

Come l’intendevano, del resto, alcuni dei profeti messianici che apparvero numerosi in Galilea più o meno nello stesso tempo storico di Gesù.

Anche se, certamente, il messaggio di Cristo si può leggere pure in una chiave del tutto terrena: è questa la tesi sostenuta dal mio amico Lino Picca nel suo libro “Alla ricerca di senso…”, nonostante egli sia un convinto credente.

Cioè come la volontà, il desiderio, l’aspirazione, potremmo dire anche la missione, di realizzare il Regno dell’amore, della pace, dell’armonia tra gli uomini, a prescindere dalla fede in un aldilà ultraterreno, metafisico.

Ma questa mi sembra una lettura (direi laica) del messaggio evangelico, che si può fare oggi, a posteriori. Visto il fallimento della profezia giovannea dell’Apocalisse 21, 1-4, dell’avvento di cieli nuovi e terre nuove.

Non so se possa essere considerata un’interpretazione corretta dal punto di vista non solo dell’essenza e dello spirito, ma anche della lettera del messaggio evangelico, di quello che intendeva Gesù per “Regno di Dio” o “Regno dei Cieli”.

Pure se è quella che io preferisco e nella quale mi riconosco di più, da agnostico quale sono. Quella che mi porta a dire, con Benedetto Croce, “non possiamo non dirci cristiani”.

Giovanni Lamagna