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La scelta della castità.

La scelta della castità da parte dei preti e dei religiosi è motivata – tra l’altro – dall’idea che nell’altra vita, dopo la morte, non esisterà più il sesso, saremo tutti esseri angelicati, quindi asessuati.

La castità vorrebbe essere quindi un’anticipazione di quella che sarà la vita ultraterrena, un’anticipazione della “beatitudine” di cui godremo in Paradiso, nel contatto, nell’unione con Dio.

Se ne deduce che, anche in questa vita, si dovrebbe vivere meglio essendo casti che non essendolo.

Ma quelli che hanno fatto una tale scelta possono davvero affermare una cosa simile: di essere più felici di coloro che hanno una normale vita sessuale?

Ho i miei dubbi.

Quindi che senso ha fare una simile scelta, fosse anche per amore di Dio?

© Giovanni Lamagna

Sentimento oceanico o sentimento cosmico?

Il problema è posto da Jeannie Carlier a Pierre Hadot, ad un certo punto del loro dialogo pubblicato nel libro “La filosofia come modo di vivere” (Einaudi, 2008).

Carlier riferisce di privilegiare la seconda espressione, meglio confacente a suo avviso a descrivere l’esperienza del sentimento di unità del tutto, che è propria dell’esperienza mistica.

Pierre Hadot, invece, difende la prima espressione, quella del “sentimento oceanico”, in quanto a suo avviso rende meglio l’esperienza del sentirsi “un’onda in un oceano sconfinato”, “l’impressione di immersione, di dilatazione dell’io in un Altro al quale l’io non è estraneo, poiché ne costituisce una parte”.

Su questa distinzione (e per quello che può valere o interessare) io mi sento più vicino a Carlier che ad Hadot.

Perché il Cosmo è qualcosa di più esteso e complessivo dell’oceano; l’oceano è solo una parte, anzi una piccola parte del Cosmo.

Ed io nell’esperienza mistica mi sento parte/immerso non solo de/nell’Oceano, ma de/nell’intero Cosmo.

Non a caso lo stesso Hadot racconta che egli ha cominciato a provare il sentimento oceanico in età molto prematura, appena pubere, di notte, di fronte alle stelle che “brillavano in un cielo immenso”.

Hadot così racconta: “… fui invaso da un’angoscia insieme terrificante e soave, provocata dal sentimento della presenza del mondo, o del tutto, e di me in questo mondo. In realtà ero incapace di esprimere la mia esperienza, ma in seguito sentii che poteva corrispondere a domande come “Chi sono?”, “Perché sono qui?”. Provavo un sentimento di estraneità, lo stupore e la meraviglia di esserci. Nello stesso tempo, percepivo di essere immerso nel mondo, di farne parte e che il mondo si estendeva dal più piccolo filo d’erba fino alle stelle. Il mondo mi era presente, intensamente presente. Molto più tardi avrei scoperto che questa presa di coscienza del mio essere immerso nel mondo, questa impressione di appartenenza al tutto, era ciò che Romain Rolland ha chiamato il “sentimento oceanico”. Credo di essere filosofo a partire da quel momento, se per filosofia si intende la coscienza dell’esistenza, dell’essere al mondo. A quell’epoca non sapevo come esprimere ciò che provavo, ma sentivo il bisogno di scrivere… A partire da quel momento ho sentito di essere distante dagli altri, poiché non potevo concepire che i miei compagni o addirittura i miei genitori e i miei fratelli potessero immaginare cose simili. Solo molto più tardi ho scoperto che molte persone hanno esperienze analoghe, ma non ne parlano.

Ho cominciato a percepire il mondo in modo nuovo. Il cielo, le nuvole, le stelle, le “sere del mondo”, come dicevo a me stesso, mi affascinavano. Sporgendomi dalla finestra a testa in su, guardavo il cielo notturno, con l’impressione di immergermi nell’immensità stellata. Questa esperienza ha dominato tutta la mia vita. L’ho provata di nuovo, molte altre volte… Questa esperienza è stata anzitutto per me la scoperta di qualcosa di emozionante e affascinante che non era assolutamente legato alla fede cristiana. Ha dunque avuto un ruolo importante nella mia evoluzione interiore. Per altro verso ha fortemente influenzato la mia concezione della filosofia, ho sempre considerato la filosofia come una trasformazione della percezione del mondo.

Da allora ho percepito molto fortemente l’opposizione radicale che esiste tra la vita quotidiana, che viene vissuta in una semincoscienza, in cui siamo guidati dagli automatismi e dalle abitudini, senza essere consapevoli della nostra esistenza nel mondo, e quegli strati privilegiati nei quali viviamo intensamente e abbiamo coscienza del nostro essere al mondo…

Da quel momento, dato che non osavo rivelare a nessuno ciò che avevo provato, ho sempre sentito che esistono cose indicibili. Avrei potuto dire solo banalità. E mi accorgevo anche che quando i preti parlavano di Dio e della morte, realtà enormi e terrificanti, formulavano frasi belle e fatte, che mi sembravano convenzionali e artificiali. Quanto vi era di più essenziale per noi non si poteva esprimere. (pag. 9-10).

Dopo aver letto questo passaggio del discorso di Hadot, mi stupisco che egli contesti a Carlier l’espressione “sentimento cosmico” e continui a privilegiare quella di “sentimento oceanico”.

Infatti, molte delle realtà da lui citate (le stelle, il mondo, il cielo, il filo d’erba…) sono/sarebbero rese meglio dall’espressione “sentimento cosmico” che dall’espressione “sentimento oceanico”.

Una sola espressione da lui adoperata è resa meglio dal “sentimento oceanico”: “Mi sentivo immerso nel mondo”. Perché il verbo “immerso” è effettivamente ben associabile all’idea del mare e dell’oceano.

Ma, in realtà, Hadot è “immerso nel mondo”, nell’intero Universo, e non solo nell’oceano.

In questo senso, perciò, anche per me (come per la Carlier) l’esperienza da lui raccontata è resa meglio dall’espressione “sentimento cosmico” che da quella di “sentimento oceanico”.

In quanto questa seconda sta a indicare solo una parte (l’oceano) rispetto al tutto (il mondo) nel quale Hadot si sente immerso, di cui Hadot si sente particella.

Anche se ovviamente queste distinzioni sono solo di dettaglio, rappresentano solo una questione linguistica, nominalistica.

Le due espressioni in realtà sono solo metafore che tendono a rendere con parole diverse una esperienza che è comunque chiara: è la stessa esperienza, non si tratta di due esperienze diverse.

© Giovanni Lamagna

Alcune considerazioni sul Cristianesimo

Un amico mi scrive: “Secondo me, amare i propri nemici è una follia contro natura e uno dei motivi per cui il cristianesimo è in via di estinzione. Anzi il vero cristianesimo è già estinto da secoli. Quello che sopravvive è un cristianesimo fai-da-te e ipocrita.”

Qui di seguito la mia risposta.

Caro B., amare i propri nemici sarebbe contro natura, se nell’uomo ci fossero solo pulsioni che tendono alla competizione e alla sopraffazione, per cui all’invidia, all’aggressività, all’odio non si può che rispondere con altrettanto odio e aggressività; in altre parole se fosse vero che “occhio per occhio, dente per dente”.

Come forse ritieni tu. Ma – devo riconoscere – non sei certo il solo: nella storia ti hanno preceduto caterve di uomini di pensiero illustri, quali – per fare solo quattro nomi – Machiavelli, Hobbes e, per molti aspetti, Nietzsche e Freud.

Io, invece, penso (ma mi sento, a mia volta, in buona compagnia, con fior di altri illustri pensatori) che nell’uomo esistano indubbiamente le pulsioni (negative e distruttive) di cui sopra, ma esistano anche quelle (positive e costruttive) che tendono alla compassione, alla cooperazione e persino all’amore.

Il “vero cristianesimo” (come lo definisci tu) mirava a che le seconde superassero, annullassero o, quantomeno, integrassero le prime in ogni singolo uomo; perciò invitava, sollecitava, ad una vera e propria conversione del cuore.

E questo non è, certo, facile da realizzarsi, ma, almeno a mio avviso, non è neanche del tutto impossibile o, addirittura, una follia, perché radicalmente “contro natura”, come invece sostieni tu.

Il Cristianesimo, il vero Cristianesimo, si è estinto da tempo?

Questo è forse il tuo auspicio, ma a me (e, a dire il vero, non solo a me) non sembra affatto; del resto, quando sembra morto, il Cristianesimo rinasce dalle sue ceneri.

Intanto sono vive e ancora abbastanza vegete le Chiese, che, pur con tutte le loro infinite contraddizioni (e, in certi casi, persino misfatti; pensiamo agli ultimi, recenti, episodi venuti alla luce di pedofilia tra i preti), al Cristianesimo si richiamano.

Questo è, che ci piaccia o no, un dato storico inoppugnabile; ora, mi sai dire quali altre istituzioni, che abbiamo conosciuto nella Storia, sono state in grado di durare così a lungo nel tempo?

Ma soprattutto il Cristianesimo ha gettato un seme profondo, ritengo oramai indelebile, che vive nella coscienza morale di tanti, tantissimi, uomini di spirito, che ne hanno colto e si sforzano di praticare il suo messaggio essenziale.

Perfino uomini che non si sono riconosciuti ieri e non si riconoscono oggi nelle Chiese che al Cristianesimo facevano e fanno riferimento; perfino uomini (tra i quali metto immodestamente il sottoscritto) che si dichiarano non credenti, che non si riconoscono in nessuna fede religiosa.

Basti pensare a uno per tutti, a Benedetto Croce, che su questo argomento scrisse un piccolo saggio diventato poi famoso e spesso citato: “Non possiamo non dirci cristiani”; e lui non era certo un “uomo di fede”, almeno nel senso classico e tradizionale che ha assunto questa espressione.

© Giovanni Lamagna

Sulla performance di Roberto Benigni all’ultimo Festival di Sanremo. Due modi diversi (e, per molti aspetti, opposti) di guardare lo stesso fatto.

Qualche giorno dopo la performance di Roberto Benigni all’ultimo festival di Sanremo ho avuto modo di leggere l’articolo di Luigino Bruni, comparso l’11 febbraio scorso su “Avvenire”, il quotidiano della CEI (Conferenza Episcopale Italiana).

L’articolo esprime un giudizio sulla apparizione di Benigni, dal quale dissento profondamente. Lo riporto qui sotto integralmente e subito dopo esprimo le mie valutazioni.

Cantico dei cantici. Il corpo delle donne (intimità della Bibbia)

di Luigino Bruni

Sono tra coloro che sono rimasti delusi dalla performance di Roberto Benigni al Festival di Sanremo dedicata al biblico Cantico dei Cantici. Forse perché avevo aspettative alte, grazie al ricordo, vivissimo, delle sue meravigliose letture di Dante, della Costituzione italiana, dei Dieci comandamenti; forse perché Benigni ci ha donato film molto amati per la loro poesia e forza etica.

Ma, forse, in questa delusione c’è anche qualcosa di più. Il corpo delle donne, insieme a quello dei bambini, è il primo bene che una civiltà deve tutelare e proteggere con tutte le sue forze. Quando un uomo, un maschio, parla del corpo della donna, prima deve togliersi i calzari dai piedi perché sta entrando in un territorio sacro, una terra fatta sacra da molto amore e da moltissimo dolore. Da sempre il corpo della donna, prima di essere icona dell’amore, è stato immagine di potere, di violenza, di abusi e di soprusi, di corpo ferito e di eros comprato dai maschi. Non si può parlare del corpo delle donne senza avere ben in mente i molti millenni di storia umana in cui le donne hanno vissuto il proprio corpo come luogo da custodire e da preservare dall’uso cattivo dei maschi, un uso sbagliato che ancora troppo spesso è presente e non solo storia.

Ho guardato Benigni insieme a mia mamma e mia sorella. Due donne moderne, laiche, riconciliate con la vita e con i corpi loro, dei figli e dei mariti. Non hanno detto una parola durante lo spettacolo, ma l’aria di casa si è riempita di un pudore mescolato con l’imbarazzo e il disagio. Accanto a loro, io ho avuto forte l’impressione di vedere sullo schermo una donna denudata in pubblico da Benigni, senza che lei avesse dato il suo consenso, denudata ai soli fini dello show. Ho visto quella giovane donna medio-orientale, vissuta due millenni e mezzo fa, e in lei ho rivisto le bellissime ragazze delle Mezzaluna fertile (il Cantico mette insieme antichi poemi nuziali babilonesi e cananei).

Una ragazza ‘bruna’ in un mondo di maschi, in una cultura patriarcale che vedeva poco e male le donne, nascoste sotto la tenda, a occuparsi per tutta la vita di bambini e anziani. Quando nella Bibbia si incrocia una donna non è mai un incontro banale. Quelle donne hanno in genere lottato e sofferto molto per entrare in quel racconto, hanno dovuto farsi spazio in una cultura che non glielo dava spontaneamente.

Donne che vivevano poco e male, quasi tutte analfabete, e non di rado morivano per gravidanze non sempre volute e desiderate. Quale eros conosceva quella ragazza del Cantico? Non certamente quello delle fantasie di noi maschi del XXI secolo, né quello che ci ha raccontato Benigni. Il Cantico è testo profetico, perché dice ai maschi e alle donne del suo tempo quale fosse il disegno di Dio sulla donna e sull’amore. Non era la descrizione dell’eros che quegli antichi scrittori vedevano attorno a loro, ma l’eros di un mondo futuro sempre desiderato e mai raggiunto. Non dobbiamo infatti dimenticare che il Cantico è un intreccio di presenza e di assenza dell’amato. È anche un canto all’amore non trovato, che fugge, che non si trova: «Lungo la notte, ho cercato l’amore dell’anima mia; l’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi alzerò e farò il giro della città per le strade e per le piazze; voglio cercare l’amore dell’anima mia. L’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi hanno incontrata le guardie che fanno la ronda in città: ‘Avete visto l’amore dell’anima mia?’» (Cantico 3,1-3). Senza questa dimensione di mancanza, di assenza, di limite, non si comprende l’eros che diventa solo gioco o sterile ricerca di piacere. L’eros è insieme pienezza e indigenza, ferita e benedizione. Ferita per tutti, uomini e donne, ma diversamente e di più per le donne (ferita, cioè vulnus).

Non credo che il Cantico sia stato scritto da una donna, e non lo credo per molte ragioni. Ma soprattutto non lo credo perché una donna non avrebbe parlato del proprio corpo e di quello del suo uomo con quelle parole. Le donne hanno altre parole per parlare dell’amore, dell’eros, della philia e dell’agape. Perché dell’eros le donne amano parlare solo due alla volta, nell’intimità di un rapporto d’amore, dove le parole non dette e quelle sussurrate sono importanti almeno quanto il corpo donato, e quando mancano queste poche parole diverse il corpo parla poco e male.

L’unico numero buono dell’eros è il due. E quando dell’eros si parla troppo e si parla in pubblico l’eros diventa altro, ed è bene usare altre parole molto meno nobili. La Bibbia ha da sempre letto quell’antico canto nuziale in modo sapienziale, allegorico e profetico, non per negare l’eros ma per salvarlo, perché l’unico modo per salvare l’eros è custodirlo nella sua intimità e nel suo nascondimento. E quando il Cantico viene letto senza ideologie e manipolazioni, non si fa una esperienza erotica, ma si fa una esperienza spirituale, mistica e soprattutto poetica: «Alzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto! Perché, ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna. Il fico sta maturando i primi frutti e le viti in fiore spandono profumo. Alzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto!» (2,10-13).

La poesia è stata infatti la grande assente dalla lettura di Benigni, una poesia mangiata dalla bramosia, molto infantile, di stupire gli spettatori con quell’eros ‘nascosto’ dai preti e rabbini finalmente scoperto e liberato. Tutti i giorni i media usano i corpi delle donne per fare spettacolo, per vendere, per fare audience. E ogni giorno di più. La Bibbia non lo ha mai fatto. Parla poco di eros e di sesso, perché ne rispetta il mistero e l’intimità. La Bibbia va portata in tv, va portata ovunque, perché parla solo e sempre di vita. Ma se proviamo a manipolarla si chiude e non ci fa accedere al suo mistero e alla sua bellezza. Come, nonostante le probabili buone intenzioni, è accaduto l’altra sera sul palco di Sanremo.

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E qui di seguito le mie valutazioni, articolate per punti, seguendo la falsariga dell’articolo di Luigino Bruni.

1.Dico subito che io non sono rimasto deluso dalla performance di Benigni. Anche se non l’ho ascoltata e vista in diretta. Un po’ per l’ora tarda, non conciliabile col mio sonno, un po’ perché da tempo non nutro nei confronti di Roberto Benigni grandi aspettative.

Ritengo infatti che Roberto Benigni, uomo di spettacolo, abbia dato il meglio di sé quando ha fatto il comico. E’ scaduto, invece, almeno ai miei occhi, quando ha voluto mettersi a fare il poeta, ancora di più quando ha assunto i toni del retore, quasi del predicatore.

Nell’ultimo Sanremo l’attore toscano è stato ancora una volta enfatico, retorico e ridondante, ma almeno è uscito fuori dai canoni del prevedibile e del conformismo, nei quali invece si era spesso ridotto negli ultimi anni. Sono andato a vedermi la sua performance su Raiplay, dopo aver letto i commenti del giorno dopo e soprattutto quello di Luigino Bruni, che provo qui a chiosare.

  1. Sono d’accordo con Bruni, che il corpo delle donne è stato per millenni (e ancora oggi lo è) oggetto di potere, violenza, sfruttamento da parte del maschio. E che quindi noi maschi per parlarne dovremmo usare mille precauzioni e prudenze.

E’ pur vero, però, che ciò non deve sfociare nell’inibizione o, peggio ancora, nel bigottismo. Che ci fanno vedere il brutto e il peccato e, quindi, gridare allo scandalo, appena si parla di corpi e di eros. Eros che (sia detto per inciso) è ben altra cosa dal semplice sesso.

Faccio notare qui che Benigni nella sua performance sanremese non ha nominato solo il corpo della donna e le sue parti intime, ma anche quello del maschio e le sue parti intime.

Ha inteso parlare poi precipuamente dell’eros e non dell’amore in generale o di altre forme di amore (filia, agape…). E l’eros non lo si può neanche nominare, se non si fa riferimento ai corpi, alle sensazioni, ai sentimenti e a tutto ciò che si prova nell’atto sessuale.

Ovviamente dipende da come se ne parla. Se ne può parlare in modo volgare, con riferimento alla pura e sola anatomia: e qui sta la pornografia. O se ne può parlare con stile, delicatezza, tatto e con riferimento alle emozioni e ai sentimenti, in altre parole all’amore: e qui sta l’erotismo. A me pare con tutta evidenza che Benigni ne abbia parlato nel secondo modo. Quindi non vedo dove poggi la critica del Bruni.

  1. Capisco l’imbarazzo e il disagio che possono aver provocato le parole di Benigni, non mi riesce difficile comprenderne le ragioni e motivazioni. E però non le condivido.

C’è un pudore che non sento in me: è quello che ci fa sentire scabroso anche solo il nominare certe parole, come se esse fossero qualcosa di cui vergognarsi e da tenere nascoste per la loro stessa natura.

Non a caso le parti intime dei nostri corpi (in altre parole i nostri organi sessuali) sono state definite per secoli “pudenda”, cioè organi di cui avere vergogna, dal verbo latino “pudeo” (“vergognarsi, arrossire di vergogna”).

Credo che l’intervento di Benigni abbia voluto (e, a mio avviso, avuto il merito) di portare alla luce ciò che si tende a nascondere, di “nominare” esplicitamente ciò che si tende a tacere o nominare solo per metafore, a decontaminare e rendere innocente ciò che si tende a ritenere in qualche modo colpevole, se non peccaminoso, o quantomeno non del tutto puro (ancora oggi, nonostante l’apparente evoluzione e disinibizione dei costumi sessuali).

  1. Ha molto probabilmente ragione il professor Bruni ad affermare che le donne, la maggior parte delle donne, dell’epoca in cui fu scritto il “Cantico dei cantici” non conoscevano affatto l’eros come vi viene lì descritto. Perché erano “… donne che vivevano poco e male, quasi tutte analfabete, e non di rado morivano per gravidanze non sempre volute e desiderate”.

E, però, forse proprio per questo il Cantico dei cantici è un testo profetico, perché come tutti i testi profetici si situa fuori dal tempo in cui è stato scritto, anticipa i tempi che verranno, libera il tempo presente dai pregiudizi e dai tabù, di cui il tempo storico è prigioniero. Perfino quello attuale. Se la sua lettura (non solo quella presunta integrale fatta da Benigni, ma anche quella che ha l’imprimatur della CEI) ancora oggi genera imbarazzo e disagio, se non proprio scandalo.

  1. E’ vero, molto vero, che l’eros, il desiderio erotico, si nutrono “di mancanza, di assenza, di limite”. E’ un concetto questo su cui batte continuamente e da anni anche Massimo Recalcati, che su questi argomenti ha detto e scritto parole memorabili.

E però non vedo dove stia la contraddizione tra questo modo di intendere l’eros e il “gioco” (inteso come dinamica relazionale – vedi Erich Berne- e non frivolo passatempo) o la “ricerca del piacere” (perché questa ricerca sarebbe “sterile”, come la definisce Bruni, e non legittima aspirazione dell’essere umano?)

  1. Anch’io non credo che il Cantico sia stato scritto da una donna: effettivamente sarebbe stato pretendere troppo per l’epoca in cui il Cantico fu scritto. E però questo significa una cosa niente affatto positiva, ma semmai negativa: significa che le donne sono vissute per secoli, anzi per millenni, sotto il peso dell’oppressione maschile, che le voleva (e ancora oggi in gran parte le vuole) oggetto del desiderio e, magari, della lussuria (“l’amante”, “la prostituta”) e, allo stesso tempo, inibite e iper-pudiche (“la madonna”, “la madre”).
  2. Non sono, infine, d’accordo che “quando dell’eros si parla troppo e si parla in pubblico l’eros diventa altro”. Non sono d’accordo: perché dipende – come ho già detto prima – da come se ne parla; se ne può parlare in maniera “volgare” ed è una cosa; se ne può parlare in maniera “colta”, per quanto esplicita, ed è un’altra cosa. A me pare che Benigni ne abbia parlato nella seconda maniera.

Ancora: non sono d’accordo che “La Bibbia ha da sempre letto quell’antico canto nuziale in modo sapienziale, allegorico e profetico, non per negare l’eros ma per salvarlo, perché l’unico modo per salvare l’eros è custodirlo nella sua intimità e nel suo nascondimento”.

Forse Luigino Bruni voleva dire che la Chiesa (non la Bibbia) ha sempre letto il Cantico dei cantici in maniera allegorica.

E, però, qui io condivido in pieno la critica (tutto sommato abbastanza garbata) che Benigni fa alla Chiesa, la quale con la sua sessuofobia (chiamiamo pure le cose col loro nome!) preferiva leggere quell’antico canto in maniera allegorica e non letterale, esattamente e con l’intento di negare o rimuovere l’eros, non certo per salvarlo. E qui, proprio qui, sta a mio avviso la positività (e, forse, persino la grandezza) della performance di Benigni.

Ancora, non sono d’accordo sul fatto che leggere il Cantico “senza ideologie e manipolazioni” porta a fare non “un’esperienza erotica”, ma “una esperienza spirituale, mistica e soprattutto poetica”.

Questo sarebbe vero se esperienza erotica ed esperienza poetica, spirituale e persino mistica fossero esperienze radicalmente diverse o, addirittura, incompatibili. Come – debbo dedurre – ritiene Luigino Bruni.

Io, invece, penso che l’erotismo possa andare benissimo d’accordo con la poesia, con la spiritualità e, perfino, col misticismo. Anzi tanto più è forte l’erotismo, quanto più è poetico, spirituale e, perfino, mistico.

Così come la poesia, l’esperienza spirituale e, perfino, quella mistica sono tanto più sane e autentiche nella misura in cui sono anche erotiche, vanno in accordo con l’eros e non lo rimuovono, né tanto meno lo demonizzano.

  1. La poesia è stata la grande assente dalla lettura di Benigni? Dipende da cosa si intende per poesia o per arte. Se fosse vero quello che afferma Luigino Bruni, dovremmo allora giudicare non poetiche molte delle poesie di Pablo Neruda (per non parlare delle novelle del “Decamerone” di Boccaccio) o non artistiche molte delle opere scultoree o pittoriche di autori antichi e moderni, oltre che contemporanei, che hanno esposto il corpo delle donne (e non solo delle donne, anche quello dei maschi: pensiamo a Michelangelo) in tutte le forme e maniere.

Tutti i giorni i media usano i corpi delle donne per fare spettacolo, per vendere, per fare audience.”: su questo sono pienamente d’accordo con Luigino Bruni. Il che non mi porta però a dire (come, invece, fa lui), con un eccesso opposto e speculare, che, per non mercificare il corpo delle donne, allora non bisogna parlare di sesso o che bisogna parlarne il meno possibile.

Io credo (e per concludere) che parlare di eros e di sesso, non solo nell’intimità del rapporto a due, ma pubblicamente, perfino su un palco, nel corso di uno spettacolo, sia pienamente legittimo.

Dipende ovviamente da come se ne parla. A me sembra, però, che Roberto Benigni nella sua performance all’ultimo Sanremo ne abbia parlato in maniera (almeno dal mio punto di vista) esemplare.

Giovanni Lamagna

Mistica e religione

L’essenza dell’esperienza mistica per me è del tutto laica: non ha affatto bisogno di un riferimento alla divinità e alla religione, se non in senso lato.

Anzi, per me, quanto più essa è un’esperienza laica, lontana dai templi e dai preti, tanto più è un’esperienza autentica e, quindi, credibile.

Giovanni Lamagna

Quattro modi di rapportarsi al sesso e alla corporeità

7 settembre 2015

Quattro modi di rapportarsi al sesso e alla corporeità.

Ci sono, a mio avviso, quattro modi di rapportarsi al sesso in particolare, ma potremmo dire anche all’elemento corporeo in generale, alla dimensione puramente animale che è presente in ognuno di noi.

Il primo è quello di considerare questa dimensione l’unica o la più importante.

Chi si pone in questo atteggiamento si comporta di conseguenza e di solito (quasi) come gli animali. Segue esclusivamente i propri istinti e impulsi, senza (quasi) nessuna mediazione del pensiero e (in alcuni casi) neanche della sfera emotivo/affettiva.

Nella sfera comportamentale di queste persone non c’è nessuna evoluzione, nessuna crescita: per loro non ci sono altri modi di comportarsi che quelli che mettono in atto da quando hanno acquisito una certa autonomia; non arrivano nemmeno a immaginare che ci possano essere delle alternative.

Nella vita di queste persone il sesso è molto presente (a volte in maniera addirittura compulsiva), ma come esperienza (quasi) puramente fisica, senza grossi coinvolgimenti emozionali ed affettivi. Non è esclusa una certa dose di violenza nel loro approccio sessuale.

Stiamo parlando ovviamente dei bruti, molto più vicini come modo di sentire e di agire al mondo animale che a quello degli umani.

I bruti (per fortuna!) sono piuttosto rari. Quindi diciamo che questo modo di rapportarsi al sesso è poco diffuso tra coloro che risultano iscritti dalla nascita all’anagrafe civile.

Il secondo modo potremmo dire è l’opposto del primo. E’ quello di coloro che provano una certa ripugnanza (più o meno profonda ed estesa) nei confronti della corporeità (in generale) e della sessualità (in particolare). Di coloro che hanno come modello la natura angelicata e che preferirebbero quindi essere angeli.

Spesso queste persone fanno la scelta della castità (nel campo della sessualità) e si impongono comportamenti (più o meno) ascetici su tutti gli altri piani (ad esempio nel rapporto col cibo, con l’abbigliamento, con la fatica e il tempo libero, ecc…).

E’ la scelta dei preti, dei monaci, dei frati, delle suore, degli eremiti, di molti guru, ma anche di persone che vivono inseriti abbastanza bene nella società comune degli altri umani, ma hanno un rapporto complicato con il loro corpo e in modo particolare con la loro sessualità.

Anche questo modo di essere, comportando implicazioni abbastanza radicali ed estreme, è piuttosto raro, è in fondo la scelta di pochi individui.

Esso indubbiamente risolve alla radice il problema di trovare una sintesi/armonia tra istanze (apparentemente) opposte, ma lo fa attraverso una rimozione delle sue cause, piuttosto che attraverso una loro effettiva risoluzione, lo fa eliminando uno dei corni del dilemma, anziché trovare un “accordo” tra i due corni.

Il terzo modo di rapportarsi al sesso e alla corporeità è quello di trovare un compromesso tra la natura animale presente in ogni uomo (tesa alla esclusiva soddisfazione dei bisogni primari: quelli legati alla sopravvivenza personale e alla riproduzione della specie) e quella più specificamente umana (coltivazione dei sentimenti, degli affetti, del pensiero, dell’intelligenza, della cultura…).

Talvolta (anzi piuttosto spesso) i primi vanno in conflitto con i secondi ( o viceversa) e allora occorre trovare un’armonia o (in mancanza) un compromesso tra i due.

La maggior parte degli uomini preferisce trovare un compromesso, che per forza di cose sta in un punto che potremmo definire mediano tra l’animalità pura e l’umanità ai suoi livelli più alti.

In questo caso parlerei di compromesso “mediocre”, non solo per il significato letterale di questo termine, perché si situa in un punto di medietà tra le due dimensioni in conflitto, ma anche perché comporta il sacrificio, la penalizzazione contemporanea di entrambe le dimensioni.

Questo modo di pensare, di essere e di vivere è quello che è stato codificato nella maniera più perfetta e completa dal modello di educazione borghese, specie da quello piccolo borghese, che potremmo anche definire del “perbenismo borghese”.

Questa modalità non implica una rinuncia al sesso, né tantomeno alla corporeità, ma questi devono essere “contenuti” entro schemi molto ben prestabiliti, delimitati e delimitanti: il piacere non può superare certi limiti (altrimenti scattano i sensi di colpa, collegati alle convenzioni sociali), la nudità è consentita solo in certi ambiti, situazioni e relazioni (altrimenti viene violato il comune senso del pudore), la sessualità deve obbedire a regole e norme alquanto rigide (in alcuni casi sanzionate addirittura dal codice civile).

Nella vita delle persone che adottano questo tipo di modalità il sesso è presente, ma con molta moderazione (come del resto tutto nella loro vita), viene vissuto senza grandi entusiasmi ed eccitazione, starei per dire è un sesso soft, a bassa intensità emotiva e fisica, che col tempo tende poi a svanire del tutto o quasi, in maniera quasi inerziale, sostituito (nel migliore dei casi) da un’affettività più fraterna/amicale che erotico/coniugale.

E’ questo di gran lunga il modo più diffuso di rapportarsi al sesso e alla corporeità presente tra gli uomini.

Ne esiste però un quarto.

E’ quello di coloro che ambiscono a raggiungere le più alte vette dell’umanità: non solo non vogliono restare bruti, ma vogliono evolvere, crescere, sviluppando al massimo il loro potenziale umano (emotivo, affettivo, intellettuale, spirituale); e però non dimenticano, non rimuovono (e non hanno nessuna intenzione di farlo) la loro natura animale (come fanno, invece, coloro che appartengono al secondo gruppo di persone che sto provando a descrivere).

E’ il modo di coloro che vogliono trovare una sintesi, un’armonia (e non un compromesso al ribasso, come fanno coloro che appartengono al terzo gruppo) tra le esigenze della spiritualità e quelle della corporeità.

Una sintesi, un’armonia che non penalizzi né la spiritualità né la corporeità, ma (paradossalmente, però molto concretamente) le esalti entrambe.

Sono persone che (a voler usare ancora un paradosso) ambiscono a diventare angeli restando bestie e restare bestie diventando angeli.

Per queste persone la corporeità ha una grande importanza nella loro vita; come ce l’ha in modo particolare il sesso. Queste persone non solo non rifuggono dall’attività sessuale, né tanto meno la disprezzano, ma la praticano molto attivamente e con grande entusiasmo: vivono insomma un sesso hard.

Inoltre non si rassegnano all’idea che col tempo, con l’età che avanza, la loro vita sessuale debba inevitabilmente appassire, sfiorire, diradarsi, fin quasi a scomparire.

Questo non vuol dire che pratichino un sesso puramente bestiale e animale, come fanno le persone che appartengono al primo gruppo. Anzi per loro sessualità e spiritualità devono andare di pari passo: né la spiritualità deve essere una denegazione o una sublimazione della sessualità, né questa deve essere negazione e annullamento della spiritualità.

Per queste persone allora anche la sessualità non è la ripetizione meccanica di gesti sempre uguali (come per gli animali), ma è un terreno, un ambito di ricerca e di sperimentazione, come del resto tutte le altre dimensioni della loro vita.

La stessa morale, in questo ambito, non viene vissuta come un insieme di norme imposte dai costumi sociali vigenti e introiettate, accettate in modo quasi automatico e senza nessuna valutazione critica. Ma un terreno su cui fare ricerca, da mettere costantemente in discussione, in qualche modo da “trasgredire” (nel senso letterale dell’andare oltre), avendo come unica stella polare il rispetto di sé e (in un certo senso ancora di più) degli altri.

Per queste persone, insomma, in campo sessuale vale alla lettera la massima di S. Agostino “ama e fa ciò che vuoi!”. Nel senso che la morale comune in campo sessuale non vale, può essere e va trasgredita, se la sua trasgressione è dettata dall’amore.

Un esempio sublime di questo tipo di approccio è dato dalle pratiche tantriche, che sono allo stesso tempo una forma di spiritualità (quasi di religiosità) e un modo di teorizzare e vivere la sessualità (ben oltre i confini ristretti della morale comune).

Ricco di indicazioni, a tale proposito, è il bel libro dei maestri di Tantra Elmar e Michaela Zadra “Trasgredire con amore”, edizioni Mediterranee.

Il Tantra a mio modo di vedere è la più alta realizzazione della sintesi , dell’armonia tra sessualità/corporeità e spiritualità/religiosità finora raggiunta nell’esperienza storica degli umani.

Ben diversa dal compromesso mediocre di cui si accontenta il perbenismo borghese, che caratterizza il modo di vivere la spiritualità e la sessualità della maggior parte degli uomini e delle donne. Almeno lo ha caratterizzato finora nella storia.

Giovanni Lamagna