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La scelta della castità.
La scelta della castità da parte dei preti e dei religiosi è motivata – tra l’altro – dall’idea che nell’altra vita, dopo la morte, non esisterà più il sesso, saremo tutti esseri angelicati, quindi asessuati.
La castità vorrebbe essere quindi un’anticipazione di quella che sarà la vita ultraterrena, un’anticipazione della “beatitudine” di cui godremo in Paradiso, nel contatto, nell’unione con Dio.
Se ne deduce che, anche in questa vita, si dovrebbe vivere meglio essendo casti che non essendolo.
Ma quelli che hanno fatto una tale scelta possono davvero affermare una cosa simile: di essere più felici di coloro che hanno una normale vita sessuale?
Ho i miei dubbi.
Quindi che senso ha fare una simile scelta, fosse anche per amore di Dio?
© Giovanni Lamagna
Sentimento oceanico o sentimento cosmico?
Il problema è posto da Jeannie Carlier a Pierre Hadot, ad un certo punto del loro dialogo pubblicato nel libro “La filosofia come modo di vivere” (Einaudi, 2008).
Carlier riferisce di privilegiare la seconda espressione, meglio confacente a suo avviso a descrivere l’esperienza del sentimento di unità del tutto, che è propria dell’esperienza mistica.
Pierre Hadot, invece, difende la prima espressione, quella del “sentimento oceanico”, in quanto a suo avviso rende meglio l’esperienza del sentirsi “un’onda in un oceano sconfinato”, “l’impressione di immersione, di dilatazione dell’io in un Altro al quale l’io non è estraneo, poiché ne costituisce una parte”.
Su questa distinzione (e per quello che può valere o interessare) io mi sento più vicino a Carlier che ad Hadot.
Perché il Cosmo è qualcosa di più esteso e complessivo dell’oceano; l’oceano è solo una parte, anzi una piccola parte del Cosmo.
Ed io nell’esperienza mistica mi sento parte/immerso non solo de/nell’Oceano, ma de/nell’intero Cosmo.
Non a caso lo stesso Hadot racconta che egli ha cominciato a provare il sentimento oceanico in età molto prematura, appena pubere, di notte, di fronte alle stelle che “brillavano in un cielo immenso”.
Hadot così racconta: “… fui invaso da un’angoscia insieme terrificante e soave, provocata dal sentimento della presenza del mondo, o del tutto, e di me in questo mondo. In realtà ero incapace di esprimere la mia esperienza, ma in seguito sentii che poteva corrispondere a domande come “Chi sono?”, “Perché sono qui?”. Provavo un sentimento di estraneità, lo stupore e la meraviglia di esserci. Nello stesso tempo, percepivo di essere immerso nel mondo, di farne parte e che il mondo si estendeva dal più piccolo filo d’erba fino alle stelle. Il mondo mi era presente, intensamente presente. Molto più tardi avrei scoperto che questa presa di coscienza del mio essere immerso nel mondo, questa impressione di appartenenza al tutto, era ciò che Romain Rolland ha chiamato il “sentimento oceanico”. Credo di essere filosofo a partire da quel momento, se per filosofia si intende la coscienza dell’esistenza, dell’essere al mondo. A quell’epoca non sapevo come esprimere ciò che provavo, ma sentivo il bisogno di scrivere… A partire da quel momento ho sentito di essere distante dagli altri, poiché non potevo concepire che i miei compagni o addirittura i miei genitori e i miei fratelli potessero immaginare cose simili. Solo molto più tardi ho scoperto che molte persone hanno esperienze analoghe, ma non ne parlano.
Ho cominciato a percepire il mondo in modo nuovo. Il cielo, le nuvole, le stelle, le “sere del mondo”, come dicevo a me stesso, mi affascinavano. Sporgendomi dalla finestra a testa in su, guardavo il cielo notturno, con l’impressione di immergermi nell’immensità stellata. Questa esperienza ha dominato tutta la mia vita. L’ho provata di nuovo, molte altre volte… Questa esperienza è stata anzitutto per me la scoperta di qualcosa di emozionante e affascinante che non era assolutamente legato alla fede cristiana. Ha dunque avuto un ruolo importante nella mia evoluzione interiore. Per altro verso ha fortemente influenzato la mia concezione della filosofia, ho sempre considerato la filosofia come una trasformazione della percezione del mondo.
Da allora ho percepito molto fortemente l’opposizione radicale che esiste tra la vita quotidiana, che viene vissuta in una semincoscienza, in cui siamo guidati dagli automatismi e dalle abitudini, senza essere consapevoli della nostra esistenza nel mondo, e quegli strati privilegiati nei quali viviamo intensamente e abbiamo coscienza del nostro essere al mondo…
Da quel momento, dato che non osavo rivelare a nessuno ciò che avevo provato, ho sempre sentito che esistono cose indicibili. Avrei potuto dire solo banalità. E mi accorgevo anche che quando i preti parlavano di Dio e della morte, realtà enormi e terrificanti, formulavano frasi belle e fatte, che mi sembravano convenzionali e artificiali. Quanto vi era di più essenziale per noi non si poteva esprimere. (pag. 9-10).
Dopo aver letto questo passaggio del discorso di Hadot, mi stupisco che egli contesti a Carlier l’espressione “sentimento cosmico” e continui a privilegiare quella di “sentimento oceanico”.
Infatti, molte delle realtà da lui citate (le stelle, il mondo, il cielo, il filo d’erba…) sono/sarebbero rese meglio dall’espressione “sentimento cosmico” che dall’espressione “sentimento oceanico”.
Una sola espressione da lui adoperata è resa meglio dal “sentimento oceanico”: “Mi sentivo immerso nel mondo”. Perché il verbo “immerso” è effettivamente ben associabile all’idea del mare e dell’oceano.
Ma, in realtà, Hadot è “immerso nel mondo”, nell’intero Universo, e non solo nell’oceano.
In questo senso, perciò, anche per me (come per la Carlier) l’esperienza da lui raccontata è resa meglio dall’espressione “sentimento cosmico” che da quella di “sentimento oceanico”.
In quanto questa seconda sta a indicare solo una parte (l’oceano) rispetto al tutto (il mondo) nel quale Hadot si sente immerso, di cui Hadot si sente particella.
Anche se ovviamente queste distinzioni sono solo di dettaglio, rappresentano solo una questione linguistica, nominalistica.
Le due espressioni in realtà sono solo metafore che tendono a rendere con parole diverse una esperienza che è comunque chiara: è la stessa esperienza, non si tratta di due esperienze diverse.
© Giovanni Lamagna
Alcune considerazioni sul Cristianesimo
Un amico mi scrive: “Secondo me, amare i propri nemici è una follia contro natura e uno dei motivi per cui il cristianesimo è in via di estinzione. Anzi il vero cristianesimo è già estinto da secoli. Quello che sopravvive è un cristianesimo fai-da-te e ipocrita.”
Qui di seguito la mia risposta.
Caro B., amare i propri nemici sarebbe contro natura, se nell’uomo ci fossero solo pulsioni che tendono alla competizione e alla sopraffazione, per cui all’invidia, all’aggressività, all’odio non si può che rispondere con altrettanto odio e aggressività; in altre parole se fosse vero che “occhio per occhio, dente per dente”.
Come forse ritieni tu. Ma – devo riconoscere – non sei certo il solo: nella storia ti hanno preceduto caterve di uomini di pensiero illustri, quali – per fare solo quattro nomi – Machiavelli, Hobbes e, per molti aspetti, Nietzsche e Freud.
Io, invece, penso (ma mi sento, a mia volta, in buona compagnia, con fior di altri illustri pensatori) che nell’uomo esistano indubbiamente le pulsioni (negative e distruttive) di cui sopra, ma esistano anche quelle (positive e costruttive) che tendono alla compassione, alla cooperazione e persino all’amore.
Il “vero cristianesimo” (come lo definisci tu) mirava a che le seconde superassero, annullassero o, quantomeno, integrassero le prime in ogni singolo uomo; perciò invitava, sollecitava, ad una vera e propria conversione del cuore.
E questo non è, certo, facile da realizzarsi, ma, almeno a mio avviso, non è neanche del tutto impossibile o, addirittura, una follia, perché radicalmente “contro natura”, come invece sostieni tu.
Il Cristianesimo, il vero Cristianesimo, si è estinto da tempo?
Questo è forse il tuo auspicio, ma a me (e, a dire il vero, non solo a me) non sembra affatto; del resto, quando sembra morto, il Cristianesimo rinasce dalle sue ceneri.
Intanto sono vive e ancora abbastanza vegete le Chiese, che, pur con tutte le loro infinite contraddizioni (e, in certi casi, persino misfatti; pensiamo agli ultimi, recenti, episodi venuti alla luce di pedofilia tra i preti), al Cristianesimo si richiamano.
Questo è, che ci piaccia o no, un dato storico inoppugnabile; ora, mi sai dire quali altre istituzioni, che abbiamo conosciuto nella Storia, sono state in grado di durare così a lungo nel tempo?
Ma soprattutto il Cristianesimo ha gettato un seme profondo, ritengo oramai indelebile, che vive nella coscienza morale di tanti, tantissimi, uomini di spirito, che ne hanno colto e si sforzano di praticare il suo messaggio essenziale.
Perfino uomini che non si sono riconosciuti ieri e non si riconoscono oggi nelle Chiese che al Cristianesimo facevano e fanno riferimento; perfino uomini (tra i quali metto immodestamente il sottoscritto) che si dichiarano non credenti, che non si riconoscono in nessuna fede religiosa.
Basti pensare a uno per tutti, a Benedetto Croce, che su questo argomento scrisse un piccolo saggio diventato poi famoso e spesso citato: “Non possiamo non dirci cristiani”; e lui non era certo un “uomo di fede”, almeno nel senso classico e tradizionale che ha assunto questa espressione.
© Giovanni Lamagna
Mistica e religione
L’essenza dell’esperienza mistica per me è del tutto laica: non ha affatto bisogno di un riferimento alla divinità e alla religione, se non in senso lato.
Anzi, per me, quanto più essa è un’esperienza laica, lontana dai templi e dai preti, tanto più è un’esperienza autentica e, quindi, credibile.
Giovanni Lamagna