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Lutto e nostalgia.
Giustamente Massimo Recalcati, nel suo “La luce delle stelle morte” (Feltrinelli, 2022) distingue il sentimento del lutto da quello della nostalgia; anche se questi due sentimenti hanno molte cose in comune.
Entrambi si riferiscono ad una perdita; il sentimento del lutto, però, ad una perdita recente, quello della nostalgia ad una perdita (più o meno) lontana nel tempo.
Il lutto ad una perdita che non è stata (appunto perché troppo recente) ancora elaborata.
La nostalgia ad una perdita che è stata oramai elaborata, assorbita, accettata, anche se non del tutto superata; come non lo sono mai del tutto le perdite, secondo Recalcati.
Il lutto, infatti, si riferisce ad una ferita ancora aperta, che sanguina ancora.
La nostalgia ad una ferita che oramai si è chiusa, cicatrizzata, ma che comunque ha lasciato un segno indelebile sulla pelle.
Il lutto vive di un dolore atroce, in certi casi disperato; nel lutto ci si sente mancare la terra sotto ai piedi; si può arrivare a provare la sensazione che niente abbia più senso, addirittura che non abbia più senso continuare a vivere.
La nostalgia è anch’essa accompagnata comunque da un dolore, ma un dolore che si è addolcito, che ha trovato consolazione, al termine di un tempo, di un processo, più o meno lungo, mai comunque troppo breve (dice sempre Recalcati), di elaborazione del lutto.
Con la nostalgia la perdita è vissuta ancora indubbiamente come una mancanza, ma una mancanza che il ricordo rende in qualche modo ancora – anzi di nuovo – presenza.
Il dolore della nostalgia non è più, dunque, un dolore disperato, ma è un dolore che ha ritrovato il senso e la voglia, nonostante tutto, di vivere.
Nel momento del lutto la vita di chi ha subito la perdita in qualche modo si blocca, si ripiega su stessa, ha lo sguardo tutto rivolto al passato, un passato estinto, che non tornerà mai più; il lutto è segnato dal pianto, dalle lacrime, spesso disperate.
Il sentimento della nostalgia, invece, è compatibile con la ripresa del fluire della vita, con la capacità di guardare in avanti, di sorridere al futuro, sia pure con lo sguardo velato dalla tristezza di chi – al pensiero della perdita della persona cara – continua (ancora e, forse, per sempre) a sentirne la mancanza.
© Giovanni Lamagna
Stagnazione melanconica del lutto versus elaborazione simbolica della perdita.
“Il dolore del lutto è sempre statico, esclude il movimento e la trasformazione proprio perché rifiuta di riconoscere pienamente la separazione dall’oggetto perduto.” (Massimo Recalcati; “La luce delle stelle morte”; 2022 Feltrinelli; pag. 46).
Aggiungo che quando il dolore del lutto si prolunga oltre un certo limite questo è il segno che è sopraggiunta una depressione; o, meglio, che il lutto ha “risvegliato” ed attivato una depressione che era già potenziale, latente.
Significa che il soggetto depresso è stato risucchiato in un gorgo mortifero, che è attratto più dalla presenza di chi e di ciò che è morto che da quella di chi e di ciò è ancora vivo; in altre parole è attirato più dalla morte che dalla vita.
Ma non è il prolungamento anomalo del lutto, la cronicizzazione del lutto, l’incapacità di elaborare simbolicamente la perdita della persona defunta, che attivano la melanconia, la depressione, quella che Recalcati definisce “la stagnazione melanconica del lutto” (ibidem; pag. 46).
E’ – a mio avviso – piuttosto il carattere (potenzialmente, latentemente o manifestamente) depresso del soggetto che vive un lutto a prolungare questo lutto oltre limiti anomali, a renderlo cronico, incapace di una sua elaborazione simbolica.
Nella persona sana il lutto, prima o poi, viene elaborato e superato; la persona sana prima o poi simbolizza la separazione e la supera; nella persona sana l’istinto di vita prevale prima o poi sull’istinto di morte.
La persona sana prima o poi riprende in mano la sua vita, ricomincia a guardare al futuro; la persona insana rimane, invece, bloccata sul passato, prigioniera della nostalgia, anzi del rimpianto, incapace di guardare in avanti, alle persone e alle cose che sono rimaste in vita.
A questo punto però mi chiedo: che vuol dire “simbolizzare una separazione”, “elaborare un lutto”?
A mio avviso, vuol dire fare un percorso interiore (Recalcati lo chiama un “lavoro”), tale che la persona perduta entri simbolicamente, cioè psicologicamente, (potrei dire anche spiritualmente, se non temessi il fraintendimento del termine) a far parte di noi.
Che non la viviamo più come separata, altro da noi (come in un certo senso – per certi aspetti addirittura paradossali – era quando stava con noi), ma l’abbiamo come interiorizzata, fatta diventare oramai una parte stabile di noi.
Quando la separazione e il lutto sono stati elaborati, il ricordo della persona perduta (e di tutto ciò che ad essa si riferisce) è dolce, ci fa teneramente compagnia, ci aiuta addirittura a vivere e a progettare il futuro, per certi aspetti ce la rende ancora più presente di quando stava fisicamente con noi.
Ricordo qui (quasi per inciso) una frase alquanto oscura di Gesù (riportata dal Vangelo di Giovanni 16,7-15), ma che, alla luce della riflessione che sto in questo momento svolgendo, può risultare meno oscura o addirittura trasparente: “E’ bene per voi che io me ne vada perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paràclito; se invece me ne vado, lo manderò a voi”.
Il Paràclito è qui da intendersi come lo Spirito Santo, cioè Gesù stesso in forma spirituale, interiorizzata.
Ricordo che Gesù rivolge queste parole ai suoi discepoli, poco prima del suo arresto e della sua crocifissione, per consolarli ed aiutarli ad accettare la sua morte, la sua perdita, il suo allontanamento fisico (ma non certo spirituale; anzi!) dalle loro vite.
Secondo questa profezia e questo auspicio di Gesù la sua morte avrebbe addirittura giovato ai suoi discepoli, nel senso che li avrebbe costretti – in mancanza della sua presenza fisica – ad interiorizzare la sua realtà spirituale, a farla diventare carne della loro carne, fino a poter dire (come dirà effettivamente un giorno Paolo di Tarso): “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (Lettera ai Galati; 2, 20).
In questo caso la morte è vissuta come separazione fisica, indubbiamente dolorosa, perfino lacerante, straziante, almeno inizialmente, ma infine, prima o poi, come ricongiungimento spirituale, resurrezione in qualche modo della persona morta, addirittura più presente spiritualmente di quando essa era ancora fisicamente viva, generatrice di linfa ed energia vitale in chi le è sopravvissuta.
Al contrario nella “stagnazione melanconica del lutto” il morto prende il posto dei vivi, li sopravanza e quasi li oscura con la sua presenza fantasmatica, quasi li caccia fuori dalla scena dell’esistenza, il passato si sostituisce al presente e nientifica ogni prospettiva di futuro, la nostalgia e il rimpianto impediscono il godimento di chi (e anche di ciò che) è rimasto vivo.
Nella “stagnazione melanconica del lutto” il ricordo della persona perduta è ossessivo, amaro, persecutorio, colpevolizzante, onnipresente.
Lungi dall’aiutare la persona sopravvissuta (come nella profezia e nell’auspicio evangelici) a vivere, a continuare a vivere, anzi (in quel caso) a nascere addirittura a nuova vita, le rovina e intossica l’esistenza.
La morte – quando il lutto ristagna melanconicamente – attrae e risucchia nel suo gorgo depressivo e distruttivo la vita, il freudiano istinto di morte prevale sull’istinto di vita, la necrofilia (cito qui Erich Fromm) vince sulla biofilia.
© Giovanni Lamagna
Ancora attorno al concetto e all’esperienza di felicità.
Tutti noi abbiamo vissuto un momento in cui eravamo pienamente felici, in cui non desideravamo altro che di “essere”, di “restare”.
In cui non c’era distanza tra “l’essere” e “il voler essere”, in cui non c’era altro da desiderare oltre la condizione che già si viveva.
E quindi manco sapevamo cosa significasse desiderare; in quanto desiderare significa aspirare ad altro da quello che si ha e si è.
Questo momento, questa condizione corrispondono ai nove mesi che abbiamo vissuto all’interno dell’utero di nostra madre, in perfetta e (per i più) felice simbiosi con lei.
Per questo il momento della nascita (di fuoriuscita dall’utero materno) corrisponde a quello che lo psicoanalista Otto Rank, in un libro pubblicato nel 1924, ha definito “un trauma”, il primo trauma che tocca ad ogni uomo vivere.
Se questo è vero (ed io ho una profonda, intima convinzione che sia vero), allora dobbiamo dedurne che la nostra idea di felicità, quella che ce ne siamo fatti dopo, una volta nati e cresciuti, è indissolubilmente, strutturalmente legata a quel periodo; è lì, è allora che essa ha ricevuto il suo imprinting.
E’, dunque, legata al ricordo, anzi al rimpianto o, nel più fortunato dei casi, alla nostalgia di quella condizione e di quel periodo di vita.
La stessa mitologia, presente in molte civiltà (se non in tutte), che ha immaginato un “Eden” o “un’Età dell’oro”, cioè una condizione umana ideale, perfetta, tutta felicità, senza ombre di sofferenza alcuna, che avrebbe preceduto l’avvento della storia, ovverossia una condizione umana, al contrario di quella mitologica, piena di oscurità, conflitti, sofferenze e spesso atrocità, ha, a mio avviso, a che fare (trova lì le sue radici e le sue fondamenta) con questa nostalgia, con questo rimpianto, della vita intrauterina, che ogni uomo ha avuto modo di sperimentare.
Ecco perché il nostro primario, istintivo e ancora non consapevole bisogno/desiderio di felicità si associa, quasi per un riflesso automatico, in primo luogo ad un bisogno/desiderio di fusione perfetta, totale ed assoluta, con un oggetto amato; come a voler recuperare l’antica, primigenia condizione intrauterina.
Fatta questa premessa, credo occorra mettere subito in evidenza che tale associazione/proiezione è però del tutto fantasmatica, illusoria e, pertanto, fallace, fuorviante, perché nessun rapporto d’amore, per quanto profondo e intimo, potrà mai ricostituire l’unità primordiale intrauterina tra madre e figlio.
Non solo; ma ciò che non è più possibile sarebbe addirittura dannoso se, in maniera del tutto ipotetica, cioè contravvenendo alle leggi di natura, si verificasse, si realizzasse.
Perché darebbe origine ad un rapporto asfissiante, predatorio, cannibalico, dove ciò che nei nove mesi di vita intrauterina ha assicurato il maggior benessere possibile alla nuova creatura concepita, toglierebbe invece ai soggetti implicati aria e respiro, ovverossia le condizioni primarie per vivere una vita autenticamente felice.
Dove, allora, cercare la vera, autentica felicità (ammesso che questa esista da qualche parte), al posto di una simile a quella (intrauterina) persa una volta e per sempre?
Qui dico subito in premessa che stiamo parlando della felicità possibile agli esseri umani, della felicità alla loro portata, dunque di una felicità sempre parziale, limitata nel tempo, instabile e precaria, non certo di una felicità totale ed assoluta, che non è destinata ad alcun essere umano, anche il più baciato dalla fortuna.
Questo premesso, allora dico che la felicità possibile agli umani sta, a mio avviso, nella ricerca di una molteplicità di esperienze, anche relazionali, l’una il più possibile diversa dalle altre, da realizzare senza affanni, senza bulimie, senza ingordigie, ma anche senza pigrizie, senza ignavie, senza accidia.
Laddove, infatti, la felicità intrauterina era assicurata, garantita, dall’unità e dalla chiusura, dal rifugio in un nido sicuro e protettivo, l’unica felicità possibile – una volta nati – può essere trovata, invece, solo imboccando la strada esattamente contraria, quella della molteplicità e dell’apertura, da percorrere in campo aperto.
Che, certo, non garantisce, non rassicura, non protegge, come faceva il guscio uterino; ma implica, invece, i rischi dell’ignoto, dell’avventura, e la fatica della ricerca. Ma non ha vere e concrete alternative.
Certo, possiamo illuderci di ritrovare nella nostra vita adulta una nuova figura materna; qui la figura materna è da intendersi come archetipo, non come persona reale: può essere quindi costituita anche da un maschio, non necessariamente da una femmina.
E possiamo illuderci che questa “seconda madre” ci dia lo stesso confort, le stesse rassicurazioni, la stessa protezione, la stessa cura, che ci aveva assicurato la nostra prima madre nei nove mesi della nostra vita intrauterina!
Ma prima o poi saremo costretti a svegliarci (e sarà un amaro, doloroso risveglio) da questo sogno e a prendere consapevolezza della fatua illusione che avevamo coltivato.
© Giovanni Lamagna
Mistico e contemplazione
Il “mistico” è ciò che sta al di là dell’evidenza dei fatti e degli oggetti che compongono il mondo.
La contemplazione è l’atto, l’esperienza, che ci permette di entrare in qualche modo in contatto con il mistero che avvolge l’universo e, quindi, anche la nostra vita; di coglierne almeno l’esistenza, sia pure in un modo vago ed indistinto.
Non è certo un contemplativo chi si ferma alla pura immagine sensibile delle cose, chi non ne coglie, non ne avverte il mistero, non ne ha alcuna esigenza o nostalgia interiore.
Il mistico è tutto ciò (potremmo dire anche “la dimensione esistenziale”) che ha a che fare con la realtà del mistero e con l’atto della contemplazione.
© Giovanni Lamagna
Sulla verità
Una delle domande fondamentali, che si sono posti nel corso dei secoli un po’ tutti i filosofi, è: “esiste la verità”?
Laddove per “verità” si intende una realtà oggettiva, assoluta, valida, universalmente, per tutti e senza possibilità di dubbi e di negazioni da parte di alcuno.
Il mio pensiero è che questa domanda sia mal posta.
In realtà non bisognerebbe chiedersi se esista la verità o, meglio, la verità come l’ho appena definita poco sopra; bensì se sia possibile all’uomo conoscere questa verità, venirne a contatto, possederla.
Perché non ci sono dubbi che LA VERITA’ (come l’ho definita sopra) esista; che la Realtà in sé (non quella che riusciamo a cogliere noi) da qualche parte esista.
Perfino la verità ultima: quella sull’esistenza o meno di Dio o di una realtà di vita dopo la nostra morte.
Ad esempio, questa la scopriremo (in un senso o nell’altro) appunto dopo la nostra morte e, a quel punto, non ci potranno essere più dubbi per nessuno di noi.
Sia per quelli che oggi affermano l’esistenza di Dio e quella di un proseguimento (anche se in forme diverse) della nostra vita dopo la nostra morte; sia per quelli che oggi la negano.
Sicuramente quelli che sono morti di questa verità sono venuti già in possesso, che sia l’una o l’altra.
Il problema, dunque, non è l’esistenza di una Realtà in sé, a cui corrisponda una verità, cioè una conoscenza indubitabile e assoluta, ovverossia uguale per tutti.
Il problema è se l’uomo, cioè ciascuno di noi, possa venirne in possesso mentre è ancora in vita, cioè fin quando può esercitare le sue comuni facoltà intellettuali di essere destinato alla morte (almeno quella fisica).
E qui la risposta si fa incerta, dubbiosa, anzi per me impossibile: l’uomo (almeno mentre è in vita, che poi a quanto mi consta al momento è l’unica vita che ci è concessa) non può venire in contatto con questa Realtà in sé (quella che Kant avrebbe definito “noumeno”), ma di questa Realtà in sé egli può cogliere solo ciò che a lui appare (cioè quella che sempre Kant definiva come realtà “fenomenica”).
Quindi non la “aletheia”, come la definivano gli antichi Greci, ovverossia la Realtà “disvelata, senza veli”, ma, al contrario, la realtà velata, la realtà come appare all’uomo attraverso i filtri dei suoi cinque sensi.
E perciò una realtà “relativa”, diversa da uomo a uomo (diversa in misura piccola in certi casi, grande o, addirittura, molto grande in altri), da ricostruire, provare a ricomporre attraverso il dialogo e il confronto delle posizioni dei singoli, come quando si prova a mettere insieme i tasselli di un puzzle, senza mai però la possibilità definitiva, totale ed assoluta, di far corrispondere la “verità” trovata alla REALTA’ in sé, cioè alla VERITA’ assoluta, totale, immutabile, definitiva, eterna.
In definitiva e per concludere questo mio piccolo ragionamento: LA VERITA’ in sé (forse o potremmo dire anche senza forse) esiste da qualche parte; tanto è vero che noi ne andiamo in cerca, come qualcosa che un tempo abbiamo conosciuto, che poi abbiamo perso e di cui abbiamo insaziabile nostalgia (per riecheggiare l’idea platonica).
Ma l’uomo è “condannato” a cercarla, direi a inseguirla, senza poterla mai raggiungere; l’uomo è destinato ad accontentarsi della “sua verità”, piccola, relativa, parziale, sempre provvisoria, sempre sfuggente.
Ed è già molto se – in alcuni momenti almeno – questa gli potrà apparire (bellissimo miraggio, ma, in realtà solo miraggio!)) addirittura come LA VERITA’, la Verità in sé e per sé, la verità assoluta.
© Giovanni Lamagna
Il desiderio dei desideri
Qual è il cuore di tutti i nostri desideri, quello che potremmo chiamare “il desiderio dei desideri”?
A me sembra che il primo desiderio, la pulsione fondamentale (quella che vive, ad esempio, il bambino appena nato), siano quelli di ritornare nell’utero materno, di recuperare cioè la condizione di fusione totale (ed evidentemente di benessere e piacere assoluti) che era la vita intrauterina.
Questo desiderio naturalmente è del tutto impossibile da realizzare, innanzitutto per ovvie ragioni fisiche; e poi per ragioni di ordine psichico, di cui parlerò in seguito.
E allora il neonato lo soddisfa (anche se in maniera del tutto surrogatoria; o sublimatoria, per usare un aggettivo più vicino alla terminologia freudiana) ricercando un persistente contatto fisico con la mamma (vuole essere preso continuamente in braccio, carezzato, baciato…), ma soprattutto attraverso la suzione, l’atto cioè che continua a tenerlo legato alla madre, un po’ come il cordone ombelicale lo teneva legato alla madre durante i nove mesi di gravidanza.
Il desiderio fondamentale, quindi, è innanzitutto un desiderio di fusione; o, meglio, di recupero della primitiva fusione, quella intrauterina.
E’ un desiderio, perciò, destinato a rimanere definitivamente e, quindi, strutturalmente frustato: potrà essere soddisfatto solo attraverso atti e modalità surrogatori o di sublimazione pura.
La “Cosa” (per usare un termine lacaniano), cioè il ritorno nell’utero materno, sarà per sempre preclusa al bambino oramai nato; il suo godimento, quindi, non potrà mai più essere perfetto ed assoluto, soffrirà sempre, per una quota parte, di insoddisfazione, di frustrazione, di mancanza.
Qualche anno dopo (tra i tre e i sette anni) il bambino tornerà alla carica: il suo desiderio fondamentale questa volta si appunterà, focalizzerà sul genitore di sesso opposto, per conquistarlo come proprio partner privilegiato e toglierlo, strapparlo al genitore del suo stesso sesso.
Questo desiderio acquisterà connotazioni, sensazioni, vagamente sessuali, erotiche: il bambino comincerà ad avere una prima percezione di che cosa è il sesso.
Ovviamente molto vaga e generica, perché gli mancano ancora gli stimoli ormonali (che matureranno parecchio più tardi, durante la fase puberale) per poterlo sperimentare appieno, nella forma che Freud definirà “genitale”.
Ma anche in questa fase (la famosa “fase edipica”) tale desiderio sarà frustrato, gli sarà impedito, da quella che ancora Lacan chiama “la legge della castrazione”; ovviamente una castrazione del tutto simbolica, tanto è vero che coglie non solo il desiderio del bambino nei confronti della madre, ma anche il desiderio della bambina nei confronti del padre.
Il(la) bambino(a) sarà allora costretto(a) a comprendere (salvo insane eccezioni) che il suo desiderio è impossibile da realizzare, perché il genitore che egli (ella) desidera è già legato all’altro genitore e non ha nessuna intenzione di tradirlo per lui/lei.
Il genitore di sesso opposto diventerà, quindi, per lui/lei un vero e proprio rivale, verso il quale proverà (e spesso manifesterà) la tipica aggressività di chi si sente in competizione: una vera competizione erotica, per l’amore esclusivo dell’oggetto desiderato.
In entrambe le situazioni (quella immediatamente post natale e quella edipica), il(la) bambino(a) sperimenterà una frustrazione, cioè una limitazione, una impossibilità, che si porterà appresso (come una sorta di nostalgia e rimpianto) per tutto il resto della sua vita, anche da adulto.
Ma queste saranno anche le condizioni, i passaggi ineludibili, perché egli (ella) possa aprirsi al mondo, attraverso il contatto con altri oggetti di soddisfazione libidica (che non siano il corpo della madre) e attraverso l’incontro con altri soggetti d’amore (in questo caso altre persone, che non siano il genitore di sesso opposto).
L’atto fisico della nascita con il taglio del cordone ombelicale e l’atto di castrazione simbolica della fase edipica costituiscono, dunque, come delle potature che consentono alla pianta di crescere.
Essi procurano vere e proprie ferite, da cui l’adulto non guarirà mai del tutto, ma sono ferite necessarie, potremmo dire chirurgiche, terapeutiche, perché il(la) bambino(a) non vada incontro ad un male peggiore: il ripiegamento narcisistico all’indietro verso l’utero materno, il sogno incestuoso e allucinatorio dell’amore esclusivo per la madre.
In questo modo quello che il(la) bambino(a) perde in intensità di sensazioni, emozioni e sentimenti (perché tutti concentrati su un’unica figura: quella materna) lo guadagna in estensione e varietà.
Il fanciullo – non più bambino – e poi l’adolescente e poi l’adulto diventeranno, via, via, sempre più capaci (se il loro processo di crescita affettiva e psicologica seguirà un iter naturale, normale) di stabilire una pluralità di relazioni: prima solo familiari, poi amicali, quindi anche erotiche e sessuali.
E, tuttavia, non possiamo dimenticare, non lo dobbiamo rimuovere, che questa pulsione socializzante è pur sempre nient’altro che la trasformazione/sublimazione della prima/primitiva/originaria pulsione.
Tutti i desideri, che ciascuno di noi proverà prima da fanciullo e poi da adolescente e poi da adulto, sono figli e frutti evoluti del primo desiderio: quello di ritornare nell’utero materno.
Da questo punto di vista Freud ebbe un’intuizione giusta quando paragonò la cosiddetta esperienza mistica all’esperienza che il bambino prova nell’utero materno.
Gli sfuggì però che l’esperienza mistica non è pura nostalgia di quella e, meno che mai, semplice (anche se solo metaforico) ritorno ad essa.
Perché tutte le esperienze di socializzazione, non solo l’esperienza mistica, anche quelle che non sfociano nella mistica, nascono in fondo pur sempre da quella nostalgia, sono sue figlie naturali.
Eppure Freud (giustamente) non solo non le critica, ma, anzi, le ritiene l’esito di un percorso del tutto naturale e, quindi, sano e, perciò, auspicabile.
L’esperienza mistica è un’esperienza di apertura al mondo e agli altri non molto diversa, in senso qualitativo e strutturale, dalle altre esperienze di socializzazione; le porta solo alle loro estreme conseguenze: ne è quindi diversa solo sotto l’aspetto quantitativo.
Porta alle estreme conseguenze quella che è una naturale e comune esigenza, presente in tutti gli esseri umani sani, non pervertiti da qualche insana tendenza regressiva: l’esigenza di conoscere ed esplorare il mondo e quella di fraternizzare, sperimentare cioè sentimenti di amicizia e di amore con i propri simili.
L’esperienza mistica nasce da un’esigenza di apertura al mondo, che arriva a diventare esigenza, desiderio di fusione con il “Tutto” (uomini e cose), di sperimentare il cosiddetto “sentimento panico” o il “sentimento oceanico” di cui lo stesso Freud ebbe modo di discutere in un interessantissimo scambio epistolare con lo scrittore francese, di cui divenne amico, Romain Rolland.
Sentimento panico (od oceanico), che avrà pure delle analogie (come del resto, lo ripeto ancora, tutte le esperienze di socializzazione) con il desiderio di ritornare nell’utero materno, ma ne differisce profondamente per un dato fondamentale e sostanziale.
Il desiderio di tornare nell’utero materno si rivolge all’indietro, il sentimento panico si proietta in avanti, il primo fa regredire, involvere, impigrire, rattrappire la personalità di colui (colei) che ne resti preda/vittima, il secondo, invece, la fa progredire, evolvere, la attivizza, la espande.
In altre parole l’esperienza mistica, lungi dall’essere (così come la vedeva Freud), un‘esperienza di regressione alla vita infantile, è (almeno a mio avviso) la possibilità estrema, massima che viene offerta agli esseri umani di realizzare pienamente se stessi, entrando il più possibile in sintonia con l’Universo mondo, nei suoi molteplici aspetti: fisico-materiali, emotivo-affettivi, intellettuali; spirituali, a voler usare un termine che per me li sintetizza tutti.
© Giovanni Lamagna
Due tipi di anziani
La terza età non è la stessa, inesorabilmente uguale per tutti: vi si può arrivare in due modi molto diversi e distanti tra di loro. Per cui possiamo parlare a buon ragione di due tipi di anziani.
L’uomo o la donna giunti alla terza età (una volta per terza età si intendeva quella che incominciava dopo la soglia dei 50 anni; oggi questa soglia – considerate le migliorate condizioni di vita e, quindi, di salute della popolazione e il conseguente allungamento della vita media – la si può situare anche dopo i 60 anni) tendono a irrigidirsi non solo nel corpo e quindi nei movimenti, come è fisiologico che accada, ma anche nei modi di sentire, di pensare e nei comportamenti, nei modi di essere, che ne conseguono.
L’uomo anziano, in genere, è schiavo delle sue abitudini; poco aperto alle novità, anzi tendenzialmente chiuso, giudicante: non solo verso le nuove mode (cosa che per certi aspetti sarebbe addirittura un dato positivo), ma anche nei confronti delle ovvie e naturali evoluzioni scientifiche, tecniche, economiche, sociali, culturali, politiche (e questo non sempre è positivo, anzi – a dire il vero – non lo è quasi mai).
Non a caso frasi tipiche pronunciate dagli anziani sono: “Ai miei tempi queste cose non si vedevano, non succedevano…”, “bei tempi andati!”.
Insomma, l’uomo anziano nella maggioranza dei casi ha lo sguardo rivolto all’indietro, verso il passato, e il sentimento che lo domina è quello della nostalgia, accompagnata spesso da un cinico disincanto, se non da una vera e propria mancanza di fiducia verso il futuro e verso le generazioni che vengono dopo di lui.
E tuttavia questo, anche se molto frequente, non è affatto l’esito scontato e inevitabile della evoluzione (o, meglio, involuzione) psicologica dell’uomo anziano.
Ci sono, infatti, uomini anziani (anche molto anziani) che restano vigili e aperti di fronte alle novità, che ancora si incuriosiscono e vogliono apprendere e imparare. Che non disprezzano i giovani e meno che mai le persone di mezza età, ma amano confrontarsi con loro, non per sposarne acriticamente i modi di pensare e i comportamenti, ma per in alcuni casi continuare a testimoniare i propri, in altri arrivare invece a metterli in discussione e, perfino, rivederli.
Questi anziani, proprio perché ben consapevoli della fragilità fisica ma anche emotiva e psicologica in senso lato della loro età, anziché difendersi, irrigidendosi nella nostalgia del tempo che fu, nella difesa di idee e scelte passate, con l’avanzare dell’età, si ammorbidiscono e sono aperti a mediazioni e compromessi ai quali da giovani non erano neanche lontanamente disponibili.
Sono capaci pertanto di aprirsi a visioni del mondo che sarebbero state inconcepibili per loro quando erano giovani e che in alcuni casi lo sono perfino per quelli molto più giovani di loro.
Ad esempio, divengono molto più tolleranti ed aperti sulle questioni dell’amore e, perfino, del sesso. Sono ben consapevoli che per loro si è esaurita la stagione dell’amore romantico, unico ed eterno, ed in fondo non ne hanno manco così tanta nostalgia, perché sono adesso in grado di vederne tutti i limiti, le ingenuità, gli aspetti perfino un po’ patetici e ridicoli.
Si aprono allora magari ad una visione più promiscua e comunitaria dei rapporti tra i sessi, in cui prevale meno il senso del possesso e più quello della condivisione, dell’amicizia più che della sessualità in senso stretto, anche se questi rapporti non escludono né la sessualità né, tantomeno, l’erotismo.
Insomma questi anziani sono capaci, forse ancora più di quando erano giovani e perfino più di tanti giovani di oggi, di aprirsi ad una visione giocosa e allegra dell’esistenza, ben lontana da quella cupa e a volte addirittura lugubre che spesso affligge la vita degli anziani del primo tipo, quelli che ho provato a descrivere all’inizio.
Anziani che sono restati o tornano ad essere, con l’avanzare degli anni, un po’ bambini o fanciulli, ma nel senso positivo e non regressivo del termine: capaci di stupirsi, gioire e divertirsi ancora, senza per questo scadere nell’incoscienza, nell’imprudenza, nella impulsività o mancanza di discernimento che caratterizza i bambini e i fanciulli.
Passato, presente e futuro
Ci sono uomini e donne che preferiscono guardare prevalentemente all’indietro, al loro passato.
I loro stati d’animo prevalenti sono la nostalgia o il rimpianto.
Ce ne sono altri che vivono del tutto proiettati in avanti, nel futuro.
I loro stati d’animo prevalenti sono l’ottimismo (a volte addirittura fanatico) o l’attesa messianica (spesso inerte e passiva).
L’ideale per me è stare ben piantati nel presente, con un occhio rivolto al passato, per trarne eventualmente lezioni, e con l’altro rivolto al futuro, per provare in qualche modo a prevederlo e progettarlo per quanto possibile.
I sentimenti che mi animano sono quindi: piacere di vivere il presente, nella consapevolezza che è l’unico momento che ci appartiene veramente; fiducia nel futuro, ma senza nessun futile ottimismo; senso della storia e del passato, ma senza alcuna nostalgia.
© Giovanni Lamagna
Passato, presente e futuro
Ci sono uomini e donne che preferiscono guardare prevalentemente all’indietro, al loro passato.
I loro stati d’animo prevalenti sono la nostalgia, intrisa di malinconia, e il rimpianto, il più delle volte sterile e paralizzante.
Ce ne sono altri, invece, che vivono tutti proiettati in avanti, nel futuro, quasi dimentichi del presente e, ancora più, del passato.
I loro stati d’animo prevalenti sono l’ottimismo e l’attivismo esagerati (a volte addirittura fanatici) o l’attesa messianica (spesso inerte e passiva).
Non vorrei assomigliare né agli uni né agli altri.
© Giovanni Lamagna