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Potere di seduzione.

Le donne hanno un grande potere di seduzione sugli uomini.

Per carità, anche gli uomini lo hanno sulle donne.

Ma il potere di seduzione delle donne risalta di più rispetto a quello dell’uomo.

Perché è un potere tutto e solo psicologico, anche quando si avvale del corpo (ad esempio, della bellezza del corpo), perché non può, anche se volesse, fondarsi sulla forza, predominanza fisica.

Mentre il potere dell’uomo si fonda da sempre, storicamente, innanzitutto, sulla forza, si avvale anche (e, in certi casi, soprattutto) di un’oggettiva maggiore forza fisica rispetto a quella della donna.

© Giovanni Lamagna

Le ragioni del poli-amore contro quelle della monogamia.

Io credo che ogni donna (come del resto ogni uomo) abbia un suo carisma, cioè delle qualità potenziali, dalla cui esplicitazione dipenda la sua realizzazione di persona, cioè di essere umano.

Ci sono donne che hanno una marcata femminilità, che spesso si traduce in una spiccata e naturale, istintiva, innata capacità di attrazione erotica e sessuale.

Ce ne sono altre che hanno una forte propensione verso la maternità e la donazione agli altri.

Altre che brillano soprattutto per le loro capacità intellettuali e di raziocinio.

Altre ancora che hanno un forte senso operativo: sanno organizzare e risolvere problemi di ordine pratico.

Altre ancora che hanno un naturale e spiccato senso estetico: sono attratte dalla bellezza e sanno produrre bellezza.

Ognuno di questo tipo di donna potrà quindi attrarre un uomo per un motivo e per motivi di carattere diverso dalle altre.

E’ molto difficile, estremamente raro, se non del tutto impossibile, che tali caratteristiche diverse si ritrovino raggruppate, tutte allo stesso livello, nella stessa donna.

Ecco perché un uomo si può sentire attratto (e in maniera ugualmente importante e significativa) da più tipi di donne contemporaneamente.

Ovviamente quello che vale per un uomo nei confronti delle donne vale uguale, pari-pari, anche per una donna nei confronti dei maschi.

Se qui ho fatto riferimento alle donne è solo perché io sono un maschio che è attratto dalle donne.

Ma lo stesso ragionamento si può fare, a mio avviso, anche per le femmine che sono attratte dai maschi.

Anche una donna potrà sentire attrazione per più maschi contemporaneamente; uno lo attrarrà soprattutto per certe caratteristiche, altri l’attrarranno per altre caratteristiche.

Ecco perché è difficile, a mio avviso, molto difficile, sostenere le ragioni della monogamia contro quelle del poli-amore.

© Giovanni Lamagna

Inferno dentro e paradiso fuori.

Si può avere l’inferno dentro e comunicare il paradiso fuori?

Sì che si può!

Lo testimoniano, ad esempio, gli artisti.

Che, spesso, sono capaci di trasformare la loro “notte oscura” (vedi van Gogh) in splendore di bellezza.

Anche in questo (come in molte altre cose) gli artisti mi ricordano i mistici.

Anche per questo la creazione artistica mi appare come una sorta di miracolo.

© Giovanni Lamagna

L’artista e l’opera d’arte.

Io penso che, quando un artista realizza un’opera d’arte (una vera, riuscita, opera d’arte, quella che fa sgranare i sensi di noi spettatori di fronte all’epifania della bellezza) è perché essa, in un certo senso, gli si impone.

Nel momento in cui un artista si accinge a realizzare la sua opera è mosso da una forza alla quale non può resistere: in quel dato momento egli non può non farla, anzi non può fare altro.

L’opera d’arte viene realizzata, quindi, in uno stato di necessità, sotto la spinta di una forza interiore alla quale l’artista non può opporsi.

Pertanto l’opera d’arte, in un certo senso, si fa da sola; l’artista ne è “soltanto” il veicolo, lo strumento, l’esecutore materiale.

Ovviamente indispensabile, insostituibile, perché permette all’ispirazione (tutta interiore) di farsi opera, cioè realtà anche esteriore.

Senza il suo lavoro, infatti, – è del tutto ovvio – l’opera resterebbe un’idea, un conato, un soffio dello spirito, soffocato ancor prima di nascere.

Ma, ripeto, a mio avviso, l’artista è “solo” lo strumento, un semplice strumento, di esecuzione di un’idea, di un’ispirazione.

Quasi come quello che egli usa per renderla realtà: il pennello (nel caso del pittore), lo scalpello (nel caso dello scultore), la penna o il computer (nel caso dello scrittore), il violino, il pianoforte, la tromba… (nel caso del musicista).

© Giovanni Lamagna

Amore genitoriale, amore erotico e amore fraterno universale.

L’amore che un figlio riceve (o dovrebbe ricevere) dai propri genitori (specie quello della madre) è, in genere, un amore incondizionato; non condizionato da alcunché; un amore – potremmo dire – addirittura “immotivato”, un amore a prescindere, inscritto nella natura, nei cromosomi.

I genitori, infatti, tranne rari casi degeneri, amano i loro figli non per le loro qualità, ma perché sono “i loro figli”.

Un proverbio napoletano rende molto bene questo sentimento, questa realtà relazionale: “ogni scarrafone è bell’ ‘a mamma soja” (ogni scarafaggio è bello per la sua mamma).

L’amore che un uomo e una donna ricevono in età adulta dal loro amante è, invece, un amore per sua natura condizionato, quindi non scontato, come lo è al contrario, in genere, quello dei genitori nei confronti dei “loro” figli.

Condizionato ad alcune caratteristiche: la bellezza, la simpatia, l’intelligenza, le qualità morali e chi più ne ha più ne metta.

L’amore – dice Lacan, che in questo caso, a mio avviso, si riferisce chiaramente e direi esclusivamente all’amore erotico – è sempre “amore per un nome proprio”, cioè per certe caratteristiche particolari che sono di una persona e non di altre.

Senza queste caratteristiche, che attraggono e provocano il desiderio che si prova per l’altro, l’amore erotico manco nascerebbe.

E’ quindi un amore allo stesso tempo più fragile e più forte di quello che danno (in genere) i genitori ai loro figli; più motivato e, quindi, più narcisisticamente ambito.

E’ più fragile perché può venire meno in qualsiasi momento, se vengono meno le qualità che hanno spinto il nostro amante a innamorarsi di noi, a provare attrazione per noi.

O se nel tempo cambiano i suoi gusti, per cui quelle che una volta erano delle qualità ad un certo momento diventano per lui oggetto di indifferenza o, addirittura, di repulsione e rifiuto.

E’, però, allo stesso tempo un amore più forte e narcisisticamente più ambito perché – come nessun altro – rinforza la nostra fiducia in noi stessi, ci fa sentire speciali, meritevoli di amore per delle ragioni particolari, singolari, e non semplicemente per il fatto di essere venuti al mondo.

E’ questa d’altronde la caratteristica principale che contraddistingue questo amore, l’amore erotico, dall’amore universale, il cosiddetto amore fraterno, che predicano alcune religioni, specie quella cristiana.

L’amore universale fraterno si riferisce e indirizza ad ogni uomo, a prescindere dal sesso, dal colore della pelle, dell’etnia, del carattere, del modo di pensare e comportarsi dell’individuo a cui viene indirizzato.

E’ un amore motivato dal “semplice” fatto che l’altro è un uomo come me, è un mio simile, non dal fatto che ha determinate caratteristiche e qualità particolari.

L’amore erotico è, invece, come (l’ho già ricordato) ha detto Lacan, “amore per il nome proprio”, per quello che l’altro è nella sua singolarità, anzi nella sua unicità.

E’ un amore che posso provare solo per lui/lei, per come è fatto lui/lei, e non posso provare per altri.

Per questo è un amore così ambito da ciascuno di noi, che rinforza come nessun altro il nostro Io.

Anche se è un amore così fragile e precario, a rischio incombente di logoramento e, persino, di esaurimento.

© Giovanni Lamagna

Gli uomini e il sesso.

Krishnamurti (ne “La quiete della mente”; Ubaldini Editore; pag. 152) si chiede: “… perché la società ha attribuito al sesso questa straordinaria importanza?”.

E subito dopo si interroga sulle “sanzioni religiose che ne derivano”, che tendono a porre degli argini all’esperienza di “piacere” e di “bellezza” che gli uomini collegano al sesso.

Voglio pormi queste stesse domande e provare a dare le mie risposte.

Quanto alla prima domanda la mia risposta è molto semplice, anche se duplice: 1) nel sesso gli uomini sperimentano forse il massimo del piacere fisico, emotivo e mentale, in certi casi anche spirituale, che è dato loro provare nella vita; 2) al sesso è collegata la sopravvivenza della specie, quindi la continuazione della vita stessa.

Ci può essere, dunque, un interesse superiore a quello che gli uomini provano normalmente per il sesso? Ci può essere, quindi, nella vita una realtà superiore al sesso, che sia più importante del sesso?

Sì, ci può essere; ma in qualche modo essa sarà sempre e comunque gemmazione della pulsione sessuale, una forma di filiazione da quella primaria, primordiale, che è il sesso; ne sarà, come ci hanno insegnato Freud e la psicoanalisi, una sua sublimazione.

In molti casi positiva, utile, necessaria, senza alternative: non si può certo passare tutto il proprio tempo a fare sesso; come minimo, oltre a fare sesso, bisognerà lavorare per procurarsi quanto è necessario a sopravvivere.

In altri casi negativa, inutile, addirittura dannosa, produttiva di malattie fisiche e mentali, nevrosi e in alcuni casi persino psicosi: quando si fa poco sesso o addirittura vi si rinuncia, perché si è incapaci – per timori inconsci, ma ben reali – di goderne.

Anche alla seconda domanda di Krishnamurti la mia risposta è semplice: gli uomini hanno sentito il bisogno (soprattutto attraverso le religioni) di imporsi delle sanzioni che limitassero la loro naturale e tendenzialmente sconfinata propensione verso il sesso, per il timore, la paura (che, ricordiamolo, non sono mai del tutto separabili dal piacere e dal desiderio) di esserne travolti, di non riuscire più ad occuparsi anche di altre cose nella vita, pur esse necessarie, anzi senz’altro più necessarie del sesso.

Pensiamo, ad esempio, alle necessità – anche solo quelle primarie, cui ho già fatto riferimento in precedenza – di procurarsi del cibo, una casa, degli abiti e, inoltre, di occuparsi dell’allevamento della prole, incapace da sola, nei primi anni di vita, di badare alla propria sopravvivenza.

C’era il rischio, dunque, per l’uomo che il sesso con la sua fortissima carica attrattiva, potesse essere vissuto come una sorta di canto delle sirene, di droga, che avrebbe potuto distrarlo da altre incombenze, indubbiamente meno o, in certi casi, per nulla seducenti, legate alla fatica del vivere; o, meglio, innanzitutto del sopravvivere.

Di qui la necessità di crearsi degli argini, persino degli ostacoli, di imporre dei limiti alla fortissima pulsione del sesso, di non farlo diventare una sorta di ossessione, come invece rischiava di diventare, se gli uomini non si fossero dati delle norme e non avessero previsto delle sanzioni collegate alla mancata osservanza di queste norme.

Come possiamo verificare in alcuni casi patologici, anche oggi, perfino nelle nostre odierne società, ipermoderne ed evolute, molto razionali e culturalmente avanzate, addestrate ormai a controllare (forse addirittura fin troppo!) gli istinti primari e persino le emozioni e i sentimenti.

Accade anche oggi, infatti, che il sesso in alcuni individui (nevrotici o, addirittura psicotici) diventi una pulsione maniacale, che norme e sanzioni sociali, tuttora vigenti, non riescono ad arginare, generando quindi disagi, più o meno acuti; nel soggetto malato innanzitutto, ma anche nel contesto ambientale in cui egli vive ed opera.

© Giovanni Lamagna

Ci sono diversità e diversità.

C’è la diversità della rosa, del garofano, del giglio, del girasole…

E c’è la diversità della rosa in fiore e della rosa appassita.

C’è la diversità che esprime la varietà e la bellezza della natura.

E c’è la diversità del progresso e del regresso, dell’evoluzione e dell’involuzione, della salute e della malattia, della vita e della morte.

Non tutte le diversità sono… eguali.

Non tutte le diversità sono positive.

© Giovanni Lamagna

L’esistenza che si apre all’Essere: la via estetica, la via filosofica e la via mistica.

La via estetica.

Se l’esistenza umana è pura contingenza e precarietà senza senso, perché senza alcun fondamento che la trascenda, in altre parole senza alcun fondamento metafisico, non per questo l’esistenza umana è condannata irrimediabilmente e fatalmente a restare prigioniera di questa pura contingenza e, quindi, dell’assenza di ogni senso.

L’essere umano ha, infatti, la capacità/possibilità di trovare “dei varchi, degli spiragli” nella “fatticità irrimediabile dell’esistenza”. Ciò accade per Sartre – secondo la lettura che ne dà Recalcati, nel suo “Ritorno a Jean-Paul Sartre”; 2021; pag. 24-26 – principalmente attraverso l’esperienza estetica.

Attraverso l’immaginazione, l’uomo ha la possibilità di trascendere la pura e opprimente fatticità dell’esistenza, di darle respiro, di aprirla all’Essere, come “ciò che può sottrarre l’esistenza dal peso dell’esistenza”. Un Essere che “non ha però nulla di metafisico, non è al di là del mondo poiché non appare se non nel mezzo del mondo.”

Nel suo studio sull’immaginario (“L’immaginario. Psicologia fenomenologica dell’immaginazione”)Sartre riconosce all’immaginazione il potere di annullare, come scrive Recalcati, “l’orrore del reale catapultandoci in un altro mondo”: il mondo della bellezza, della pura “Forma dell’Essere”.

“Il reale – infatti, come scrive Sartre – non è mai bello. La bellezza è un valore che possiamo riferire solo all’immaginario e che implica l’annullamento (néantisation) del mondo nella sua struttura essenziale”. La Forma estetica ci libera (almeno per un momento: quello del godimento dell’opera d’arte) dal peso assurdo dell’esistenza.

Non ho obiezioni da muovere a Recalcati e Sartre: la Forma estetica, attraverso l’opera d’arte (sia nella dimensione della fruizione, sia soprattutto nella dimensione della produzione), è senz’altro una via privilegiata per sfuggire alla trappola oppressiva dell’esistenza, per – in qualche modo – trascenderla e per cogliere l’Essere, sia pure l’Essere come viene inteso da Sartre e da Recalcati.

Penso, però, che la “via estetica” non sia l’unica via, l’unico varco, l’unico spiraglio che l’uomo possa aprirsi nella “massa informe dell’esistenza” per accedere alla Forma dell’Essere. Credo che ce ne siano almeno altre due: proverò a indicarle.

La via filosofica.

La prima di queste altre due vie è, a mio avviso, quella filosofica.

La filosofia nasce, infatti, dalla stessa condizione esistenziale da cui nasce l’opera d’arte: dall’ “incontro traumatico del soggetto con un pieno (quello dell’esistenza) che non necessita di altro se non di sé stesso, di un assoluto privo di significato” (Recalcati; ibidem; pag. 19).

La filosofia nasce “dall’urto sconcertante con la pura contingenza dell’esistenza” (ibidem; pag.19), dalla constatazione che “l’esistenza non ha senso, non porta con sé alcun significato a priori, nessuna essenza…”; che l’esistenza “è, in sé, assurda” (ibidem; pag. 23).

Ma (aggiungo io) la filosofia nasce anche dall’esigenza, che è quasi un bisogno impellente, di trascendere questa contingenza e di trovarle un qualche senso.

Un senso che (come la Forma dell’Essere a cui aspira l’opera d’arte) “non ha però nulla di metafisico, non è al di là del mondo poiché non appare se non nel mezzo del mondo” (ibidem; pag.25).

Un senso che “ci libera dall’eccesso assurdo dell’esistenza”, ma allo stesso tempo “… non è rivolto a una trascendenza metafisica” (ibidem; pag.26).

E’ quel quid che può aiutarci a vivere, a sopra-vivere, a restare in vita, anche dopo che abbiamo preso coscienza che il vivere è orientato alla morte e che non ha nessun fondamento; così come il galleggiare sull’acqua “facendo il morto” ci consente di non sprofondare pur senza avere uno scoglio, una boa, una zattera, su cui trovare appiglio.

In altre parole con la via filosofica – come già con la via estetica, tracciata da Sartre ne “La nausea” – “non si tratta di ricostruire alcun senso metafisico del mondo di cui la Nausea ha svelato impietosamente e irreversibilmente l’assenza, ma di dare all’esistenza, che resta ontologicamente priva di senso, la possibilità di avere un senso singolare sullo sfondo di questo non senso.” (ibidem; pag. 31).

La via mistica.

Una terza via, oltre a quella estetica e a quella filosofica, per non sprofondare nel vuoto, anzi negli abissi senza fondo del non senso, è, a mio avviso, quella mistica.

Non certo la mistica come viene comunemente intesa, la mistica delle religioni tradizionali, ovverossia l’affidarsi cieco, infantile e perciò nevrotico all’Altro, capace di dare “un fondamento ontologico” alla nostra esistenza.

Sia chiaro – anche per me come per Recalcati – la vita umana non ha nessun fondamento, è “priva di ogni possibile giustificazione, di ogni possibile garanzia” (ibidem; pag. 11).

La ricerca, anzi la “passione umana per la propria giustificazione” è per Lacan “il perno del fantasma del desiderio nevrotico… E’ il tratto infantile che contrassegna il nevrotico soprattutto nel suo rapporto con l’Altro materno.” (ibidem; pag. 11).

In cosa consiste allora la via mistica come fuoriuscita dalla gabbia del puro esistere e apertura (mi verrebbe di dire “trascendimento”) verso la forma dell’Essere?

Non certo nella regressione verso l’ “illusione nevrotica dell’Altro come luogo della giustificazione della propria esistenza” (ibidem; pag. 12).

Non certo nell’esperienza religiosa che sta alla base “della passione umana per “essere”, per farsi essere”, che “rivela il fantasma fondamentale del … desiderio” degli uomini: vivere rassicurati all’ombra dell’esistenza del grande Altro” (ibidem; pg. 12) cioè di un Dio trascendente.

Non certo nella credenza “che l’esistenza possa avere un suo senso a priori, che il suo essere trovi fondamento nel grande Altro della garanzia”, che l’esistenza sia un “dono di Dio, giustificata alla sua origine” (ibidem, pg 13).

Non certo nella vocazione ad una vita ordinata, stabile e pianificata.

Non certo nella “idealizzazione retorica” di un “uomo che ha un Mandato, un Compito, che ha, appunto, Diritto ad esistere…” e si sente inoltre il “centro del mondo”. (ibidem; pg.13).

Ma al contrario nella presa d’atto radicale (non solo intellettuale, ma soprattutto emotivo-affettiva) della propria mancanza d’essere, nello scontro scabroso e scandaloso del non senso dell’esistenza e allo stesso tempo nella possibilità di non rimanere impantanati in questo non senso, ma di generare dalla ferita dell’esistenza una chance altra.

Come?

Attraverso l’esperienza da parte dell’uomo della condivisione intima, profonda, della stessa ferita esistenziale con gli altri suoi simili, addirittura con tutti gli altri viventi, perfino con l’Universo mondo, attraversato spesso da disastri e cataclismi che alludono alla stessa sofferenza radicale, ontologica, dell’essere umano.

In altre parole attraverso l’esperienza della com-passione, di quello che il letterato francese Romain Rolland, amico di Sigmund Freud, definì il “sentimento oceanico”.

Anche questa esperienza, come quella che facciamo quando godiamo di un’opera d’arte o quando la nostra mente si illumina per un’intuizione filosofica, ha nell’uomo l’effetto di “attenuare analgesicamente il dolore della ferita che lo attraversa” (ibidem; pag. 33), di trasmettere “un po’ di calore per attenuare il gelo del nostro comune viaggio nella neve” (ibidem; pag. 31).

© Giovanni Lamagna

Amore e amicizia

E’ sempre duro, difficile, anzi terribile, per me constatare, ogni volta, come gli uomini (e per uomini qui intendo ovviamente sia i maschi che le femmine) diano molto più valore all’amore che all’amicizia; o, meglio, a quello che io preferisco definire “il cosiddetto amore”, cioè una certa idea dell’amore, non certo il “vero amore”.

Nella persuasione assurda, che io reputo addirittura stupida, che l’amicizia non sia fatta della stessa sostanza dell’amore, che l’amicizia sia altra cosa dall’amore, che l’amore sia una cosa e l’amicizia un’altra.

Chi la pensa così, a mio avviso, non ha mai sperimentato e quindi non ha mai compreso cosa siano né l’amore né l’amicizia.

Confonde l’amore con quel sentimento possessivo ed esclusivo che ci fa sentire una sola cosa con l’altro/a, pappa e ciccia, quel legame simbiotico che ci chiude (beninteso, ci auto-rinchiude) in un rapporto con una persona e (quasi) ci impedisce di vedere tutte le altre, quella relazione che Erich Fromm giustamente e opportunamente, nel suo “L’arte di amare” (1956), definisce di “egotismo a due”.

Quel rapporto che in nome della sicurezza (della reciproca protezione; da che, da chi, poi? dal resto del mondo?) rinuncia alla libertà; che, per guardarsi in continuazione negli occhi, rinuncia a guardare in avanti e attorno a sé; e che quindi rinuncia a godere della bellezza del mondo intero, nella falsa prospettiva che questa si riassuma in una sola persona, si racchiuda in un unico sguardo.

Come è diversa l’amicizia da questo (pseudo) amore! Ne è anzi l’opposto.

Due amici non si guardano solo negli occhi. Certo, ogni tanto lo fanno anche! Due amici si riconoscono innanzitutto dal fatto che non devono mai abbassare gli occhi l’uno di fronte all’altro. Perché essi non hanno mai da nascondersi nulla: sono due libri aperti, due case di vetro, l’uno per l’altro.

Ma due amici sono tali soprattutto perché guardano nella stessa direzione, guardano al mondo con gli stessi occhi. E, spesso, non hanno nemmeno bisogno di dirselo, di parlarne, perché si intendono al volo, senza neanche aver bisogno di fare ricorso alle parole o a tante parole.

E per questo gli amici, i veri amici, non hanno bisogno di chiudersi, di chiudere la loro amicizia in un hortus conclusus, di chiudersi in un rapporto prigione, per quanto dorata essa possa essere. L’amicizia, la vera amicizia, è sempre aperta ad altre relazioni, ad altre e nuove amicizie.

Perché la vera amicizia, per sua natura, per definizione, al contrario di tanti (pseudo) amori, non è gelosa, non è possessiva, non considera l’altro come una sua proprietà esclusiva. Non sacrifica mai la libertà per la sicurezza, ma nutre la sicurezza con la libertà e la libertà con la sicurezza.

Certo, l’amicizia (di solito) non prevede il sesso. Almeno così pensa, ritiene il comune (ma banale) immaginario. E, forse, questo, anzi sicuramente questo, fa ritenere l’amore superiore all’amicizia. Come se il sesso fosse un’esperienza superiore alla condivisione di una comune visione del mondo, dell’unum sentire, che è tipico delle vere e profonde amicizie.

Ma è poi vero anche questo? O non è anche questo uno dei tanti luoghi comuni del pensare piccolo borghese, cioè del pensare convenzionale che ha fatto della “proprietà privata” il valore sommo e di riferimento di ogni altro, il modello paradigmatico di ogni altra relazione tra soggetti, comprese quelle emotive, sentimentali, erotiche?

Perché, infatti, l’amicizia, laddove due amici ne provassero l’impulso e il desiderio, non dovrebbe poter sfociare anche nel sesso, dovrebbe escludere l’esperienza dell’incontro e della fusione dei sensi e dei corpi? Cosa lo vieta in linea di principio?

Obiezione: perché allora sarebbe amore!

Come se ciò che due amici provano normalmente, quando sentono le loro anime (cioè emozioni, sentimenti, idee, pensieri, valori, ideali…) muoversi all’unisono, non fosse già amore.

Come se l’amore (il vero amore, non il sentimento zuccheroso, mieloso, da “baci perugina”, che normalmente chiamiamo “amore”) non dovesse già comprendere l’amicizia.

E come se il rapporto che si fonda essenzialmente (se non esclusivamente) sull’attrazione sessuale, sui rapporti sessuali e su sentimenti esclusivi e possessivi di appartenenza reciproca, più che su una reale, forte, profonda, condivisione di pensieri, interessi, valori, ideali, in altre parole di visioni del mondo, potesse essere definito realmente “amore”.

Quanta confusione regna (da quando l’uomo ha potuto cominciare a definirsi tale, da quando esiste cioè l’homo sapiens) su questi due territori: quello dell’amicizia e quello dell’amore!

E quanta strada deve ancora compiere l’uomo per pervenire ad una più corretta conoscenza e consapevolezza dell’una e dell’altro e raggiungere in questo modo la sua piena e compiuta umanità!

© Giovanni Lamagna

Riposo e fatica

C’è indubbiamente bellezza, piacere, godimento nel riposo, nel relax, nella calma, nella pace del corpo e dell’anima.

Ma c’è bellezza, piacere, godimento anche nella fatica, nello sforzo a cui sottoponiamo il nostro corpo e la nostra mente per raggiungere un obiettivo.

L’uomo è fatto per trascendersi, per raggiungere uno scopo, per realizzare dei compiti; il riposo eterno non gli si addice.

Quello verrà prima poi: verrà il momento di “sciogliere le vele”; ma solo dopo “aver combattuto la buona battaglia”, dopo aver fatto la propria corsa, come dice san Paolo.

© Giovanni Lamagna