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Perdere chi dava senso alla nostra vita significa perdersi?

Davvero “Perdere chi dava senso alla nostra vita significa perdersi”, come afferma Massimo Recalcati a pag. 27 del suo “La luce delle stelle morte” (2022 Feltrinelli)?

No, non lo penso.

Certo, non ci sono dubbi manco per me, che la perdita di un’amicizia e, ancora più, di un amore (di un genitore, di un amante, di un figlio…) comporti un dolore, più o meno grande, più o meno lacerante, a seconda del significato e del valore che il legame con loro aveva per noi.

E’ innegabile – non c’è dubbio manco per me – che la perdita di un legame significativo crei in noi un vuoto, una mancanza, uno smarrimento esistenziale, un appannamento, se non un vero e proprio obnubilamento, del senso del vivere.

Ma di qui a “perdersi”, come sostiene Recalcati, ce ne corre; o, perlomeno, ce ne dovrebbe correre.

Il “perdersi” (dopo la perdita di un legame importante) può essere anche molto grave, può durare anche un tempo molto lungo, ma non può essere (o, almeno, non dovrebbe essere) totale e, soprattutto, non può essere (o, almeno, non dovrebbe essere) definitivo.

Prima o poi, anche dopo la perdita più grave e significativa, la natura ha previsto (e per fortuna!) l’elaborazione e la fine del “lutto” legato alla perdita.

E questo per una ragione fondamentale, che si oppone allo stesso assunto iniziale di Recalcati; e cioè che nessuno, in fondo, costituisce (o, meglio, dovrebbe costituire) “il senso” della nostra vita; a nessuno dovremmo attribuire un tale valore e un tale significato, potremmo dire anche un tale potere.

Nel senso che (ed è questo l’assunto fondamentale dal quale io parto e che – almeno per me -sostituisce quello da cui è partito Recalcati) il significato profondo della nostra vita deve (o, meglio, dovrebbe) poggiare su altro: non le singole persone e, meno che mai, le singole cose; manco le persone alle quali siamo legati dagli affetti più grandi e profondi.

Dovrebbe, in altre parole, poggiare su un’accettazione della vita nel suo complesso, nella sua totalità, con le sue luci e con le sue ombre, e non su suoi singoli aspetti (situazioni, oggetti, persone… per quanto importanti, preziosi) isolati dal resto.

Singoli aspetti che sono tutti inevitabilmente soggetti a caducità e possono tutti, quindi, sfuggirci, venirci a mancare da un momento all’altro.

Mentre il resto della vita bene o male perdura, perdura oltre ogni morte, ha un che di immortale, di solido, di eterno.

E’ dunque l’amore della vita in sé – un sentimento che ha a che fare con le pascaliane ragioni del cuore più che con quelle della mente (quindi o c’è non c’è), un sentimento quasi religioso di fede o, meglio, fiducia di base – che (almeno a mio avviso) dà (o, meglio, può dare) un senso alla nostra vita e fonda poi tutti gli altri amori.

Compresi, quindi, quelli la cui perdita, quando ci colpisce, ci fa un male da morire.

Non viceversa.

Ecco perché, quando perdiamo un’amicizia o un amore, staremo male, per un tempo anche molto lungo; avremo persino la (momentanea) sensazione di morirne, di non poter sopravvivere alla perdita, perlomeno psicologicamente, se non fisicamente.

Ma, prima o poi, la persona sana, solida, strutturata psicologicamente, ne uscirà: questo ci insegna l’esperienza dei più; anche quella di coloro che nel momento in cui subiscono una perdita ci appaiono disperati, distrutti, devastati dal dolore.

Corre il rischio, invece, di perdersi definitivamente (o si perde effettivamente) la persona che aveva con la persona “amata” una relazione di attaccamento simbiotico, di dipendenza patologica, più che di vero amore.

Il vero amore, infatti, prevede e richiede indubbiamente intimità, interdipendenza, vicinanza, legame, perfino attaccamento, ma anche confini, autonomia, giusta distanza e libertà, finanche un certo distacco.

Non è (o, meglio, ripeto, non dovrebbe essere) la ragione stessa della nostra vita, quella senza la quale viene meno il senso stesso della nostra esistenza, che si ridurrebbe pertanto ad un mero e depresso sopravvivere.

© Giovanni Lamagna

Noi, l’Altro e gli altri.

Se non ci apriamo all’Altro, non ritroveremo mai davvero noi stessi, il nostro vero Sé.

Il nostro vero Sé, infatti, è intrinsecamente duale: è fatto non solo di un Io, come si è naturalmente portati a pensare, ma di un Io e di un Tu; dunque di un Sé e di un Altro da sé.

E tuttavia – sia chiaro – l’Altro da sé non è l’altro, non sono gli altri.

Ma è l’Altro dentro di sé, con il quale l’Io si relaziona, prima di instaurare qualsiasi altra relazione fuori di sé.

Ricercare, dunque, gli altri fuori di sé senza aver prima ricercato e trovato l’Altro dentro di sé, è fuorviante, rappresenta una scorciatoia.

In questo caso gli altri sono, finiscono per essere, un surrogato inadeguato dell’Altro.

Se non troveremo prima l’Altro (dentro di noi), non saremo manco capaci di instaurare veri, sani, positivi rapporti con gli altri (fuori di noi).

Tutt’al più ci aggrapperemo agli altri, ne diventeremo dipendenti, se non succubi.

O ne diventeremo padroni, proprietari, tiranni, che è poi un altro modo (anche se paradossale) di essere dipendenti dagli altri.

L’Altro non è l’altro, ma è la pienezza dell’Io, che è (o, meglio, dovrebbe essere) già una relazione in sé: l’Io che si rapporta al Tu.

Senza l’Altro l’Io è monco, mancante, lobotomizzato.

Occorre, dunque, prima trovare l’Altro (dentro di sé), stabilire con l’Altro un colloquio interiore stabile, costante, profondo, e poi si possono cercare e trovare davvero gli altri (fuori di sé).

In questo caso non ci si aggrapperà agli altri, non si dipenderà da loro, ma ci si relazionerà a loro, in un rapporto, in un incontro, di interdipendenza (che è altra cosa dalla dipendenza) reciproca.

Un incontro che avverrà grazie a un movimento dell’uno verso l’altro, sullo stesso piano, cioè su un piano di parità, sincronicità, senza asimmetrie.

Ovverossia non dall’alto verso il basso o, viceversa, dal basso verso l’alto, come invece, purtroppo, accade spesso, se non nella maggior parte dei rapporti umani.

© Giovanni Lamagna

Sui concetti di comunità democratica, reciprocità, eguaglianza, condivisione, comune, comunione, identità, setta, raggruppamento

Nel libro “Critica della ragione psicoanalitica” (Ponte alle Grazie, 2020), tra pag. 34 e pag. 35, Massimo Recalcati così scrive: “La condizione per una comunità democratica di eguali non è la reciprocità (mito incestuoso di una società dove “uno vale uno”; secondo Lacan luogo della rivalità immaginaria più oscena), ma l’assenza di reciprocità, ovvero, quello che Facchinelli qui definisce come l’eguaglianza tra i non eguali. In altre parole, seguendo Jean-Luc-Nancy, la condizione della condivisione che rende possibile la vita della comunità come vita aperta è il riconoscimento dell’esistenza dell’incondivisibile; la condizione del “comune” è il riconoscimento dell’assenza del comune, dell’impossibilità di ridurre la comunità a comunione. Nel lessico di Facchinelli si tratta, come vedremo tra poco, del rapporto sempre conflittuale tra tendenza alla settarizzazione e la spinta all’accomunamento che caratterizza la vita di ogni insieme umano.

Ci sono alcuni passaggi in questo testo che non condivido (almeno nella loro formulazione letterale), anche se metto in conto che forse non li ho capiti.

Non capisco, per incominciare, perché una comunità democratica non dovrebbe basarsi sulla “reciprocità”, ma dovrebbe invece fondarsi addirittura sulla “non reciprocità”.

A me (che sono cresciuto da ragazzo in ambito cristiano-cattolico) è stato insegnato “l’amore reciproco” ed io ho sempre pensato che era questo a fondare una qualsiasi forma di raggruppamento comunitario: da quello “di sangue” della famiglia a quello scelto e informale del gruppo di amici, fino a quello (più o meno istituzionale) di una comunità unita da ideali e forme di impegno di vario tipo: umanitario, sociale, intellettuale…

Non capisco, dunque, perché la “reciprocità” sarebbe, invece, inevitabilmente un “mito incestuoso… luogo della rivalità immaginaria più oscena”, come sostiene Lacan.

Certo, non mi sfugge che una comunità possa essere o diventare quello che denuncia Lacan. Non capisco, però, perché lo debba essere necessariamente, inevitabilmente, fatalmente, per sua struttura intrinseca, come mi sembra di leggere nel passo su citato.

Per me la comunità può essere benissimo allo stesso tempo un luogo di legami forti, stretti, di interdipendenza, ed il luogo della distinzione, della individuazione, dei confini netti e ben distinti tra le persone che la compongono, dotate ciascuna di una sua peculiare identità e autonomia.

Sono d’accordo che in una comunità le persone che la compongono non sono (e non debbono essere) uguali, cioè omologate, in quanto ognuna di esse è e deve restare diversa, con sue caratteristiche (e competenze) proprie e specifiche.

Il che non impedisce (o, meglio, non dovrebbe impedire) che esse siano eguali, nel senso profondo, valoriale, assiologico, della parità dei diritti e dei doveri, della “uguale” dignità umana.

Da questo punto di vista l’espressione “uno vale uno” torna ad avere allora un senso e un suo pieno e alto valore sul piano della democrazia (livello istituzionale) oltre che su quello della fraternità (livello dei rapporti interpersonali).

Non capisco inoltre (per continuare il mio commento) espressioni come “la condizione che rende possibile la vita della comunità come vita aperta è il riconoscimento dell’esistenza dell’’incondivisibile” o “la condizione del comune è il riconoscimento dell’assenza del comune, dell’impossibilità di ridurre la comunità a comunione”.

Certo, se esse vogliono dire che in una qualsiasi comunità c’è sempre un quid che non sarà mai del tutto e pienamente condiviso e condivisibile da tutti, se esse vogliono dire che una comunione totale (che poi vorrebbe dire la fusione, la simbiosi totale) è impossibile (e manco auspicabile), sono d’accordo.

Ma allora vanno dette in maniera diversa, meno apodittica e più articolata.

Cosa sarebbe, infatti, una comunità, per quanto aperta e non chiusa essa voglia essere e rimanere nel tempo, se non avesse delle cose (anzi molte cose) da condividere, se non ci fosse un “comune” che la tiene unita, se “comunità” non significasse anche “comunione” di anime e perfino di corpi, di beni spirituali e persino (in alcuni casi) materiali?

Concordo, infine, nel segnalare il rischio che una comunità diventi una setta e nell’indicare l’opportunità che essa rimanga invece sempre aperta e in dialogo con l’esterno, con i diversi e con le diversità.

Ma questo non mi porta a pensare che una comunità possa costituirsi e durare senza una sua identità ben precisa e autonoma, che la distingua da altre comunità.

In altre parole, il termine “identità”, per me, non è sinonimo (ovviamente negativo) di separatismo o, addirittura, di settarismo e di chiusura.

Esistono indubbiamente le identità chiuse, integraliste e intolleranti verso le diversità, ma esistono anche le identità aperte e disponibili al dialogo e al confronto con l’altro da sè.

Di questa “verità”, d’altra parte, ci dà conferma utile anche ciò che accade a livello intrapsichico.

Come ci ha insegnato Erich Erikson, nella vita affettiva di una persona adulta non è possibile l’esperienza dell’intimità, cioè di relazioni salde, calde e significative (quindi potremmo dire – anche e per estensione – l’esperienza della comunità), se la persona non ha raggiunto, al termine della sua adolescenza, una forte e salda identità individuale, se non ha completato il suo percorso di “individuazione”, come avrebbe detto Jung.

© Giovanni Lamagna

Sui concetti di “individuo”, “massa”, “società”, “persona” e “comunità”

Una delle differenze principali tra la coppia di concetti/categorie di “individuo” e di “massa” e quella di “persona” e “comunità” sta nel fatto che all’interno della prima (individuo/massa) esiste un contrasto netto, una conflittualità strutturale, mentre all’interno della seconda (persona/comunità) le due componenti convivono (o possono convivere) in (relativa) pace ed armonia.

Tra la massa e l’individuo sussiste una conflittualità strutturale, più o meno latente e implicita, più o meno manifesta ed esplicita: la massa tende a prevalere sull’individuo, ad assorbirlo, a soffocarlo; per converso l’individuo deve odiare la massa o, quantomeno, disprezzarla ed opporsi ad essa, se non vuole esserne annullato.

Laddove prevale la dimensione di massa l’individuo viene penalizzato, sacrificato, se non oscurato del tutto: nella massa l’individuo diventa un numero, un frammento, il cui valore è (quasi) del tutto insignificante.

Laddove, invece, prevale (o dovesse prevalere) la componente “individuo” (il cosiddetto individualismo) le aggregazioni sociali risultano essere estremamente frammentate, atomizzate, instabili, erose, lacerate dai conflitti.

Ma – a dire il vero – questo fenomeno (la prevalenza degli individui sulla massa) a me pare si verifichi molto di rado, per non dire mai: è molto più frequente che gruppi (per quanto ristretti) di individui (élites, lobbies, multinazionali…) si impongano sulla massa.

L’affermazione famosa dell’ex primo ministro inglese Margaret Thatcher, “non esiste la società, esistono solo gli individui”, si riferiva ad una realtà sociale (come quella inglese agli inizi degli anni ’80) in cui determinati gruppi si erano affermati su altri (come è del resto sempre avvenuto nella storia) piuttosto che una reale e piena affermazione dell’individuo (degli individui) sulla massa, sul resto della società.

Il fatto che i gruppi sociali vincenti fossero anche fortemente conflittuali e competitivi al loro interno non cancella né oscura il fattore di patto e alleanza (se non altro impliciti) che ne aveva favorito (se non determinato) la vittoria contro i gruppi sociali perdenti.

Nel rapporto tra la persona e la comunità non esiste, invece, nessuna conflittualità strutturale, neanche latente, ma sussiste una stretta connessione, interdipendenza.

La persona si realizza pienamente solo nella comunità. E la comunità per realizzarsi ha bisogno che ogni singola persona che la compone si realizzi nella sua singolarità.

Mai una comunità potrebbe chiedere ad un suo singolo membro di sacrificare se stesso in nome del vantaggio collettivo e “superiore” della comunità.

Semmai potrà essere il singolo membro della comunità a decidere autonomamente, liberamente e solo in casi estremi, di sacrificare se stesso, per il bene superiore della comunità.

Nella massa il singolo individuo rinuncia alla sua identità personale, si spersonalizza, appunto.

Nella massa è l’insieme, anzi l’insieme indistinto, ciò che conta. Nella massa l’individuo scompare, conta poco o nulla.

Nella comunità, invece, l’identità di ciascuna persona non solo non viene annullata, ma viene esaltata.

La comunità abbisogna dell’apporto attivo, protagonista, di ciascuna persona che la compone: la comunità non è fatta di comparse e manco di comprimari.

In una comunità ci possono essere dei leader o un leader, ma tutti hanno un loro ruolo e svolgono una loro funzione importante.

Alla massa si appartiene in modo irriflesso, alla comunità, invece, si decide di partecipare. E sempre in maniera attiva, libera, con una scelta pienamente consapevole, da rinnovare anzi ogni momento.

© Giovanni Lamagna

Dipendenza, indipendenza e interdipendenza in amore

L’amore (parlo qui dell’amore, in cui c’è un coinvolgimento sessuale, ma anche dell’amore in cui questo coinvolgimento non c’è, quello che comunemente viene definito “amicizia”) vive sempre su un doppio registro, cammina su due binari, oscilla tra due poli contrapposti: quello della dipendenza e quello della indipendenza.

Per poter dire che io amo una persona, financo se la considero “solo” amica, devo sentire che ho bisogno o, quantomeno, desiderio della sua presenza.

Se una persona mi è indifferente, se posso fare tranquillamente a meno di lei, non posso certo affermare di amarla o di sentirla amica.

In questo senso l’amore denota sempre una certa qual dipendenza: io dipendo dalla persona che amo; ne sento la mancanza quando essa non c’è; la sua presenza riempie un vuoto che c’è in me e che, senza di lei, torna a manifestarsi come vuoto, come “mancanza di”.

Allo stesso tempo un eccesso di dipendenza non fa bene all’amore. Quando la dipendenza dalla persona amata diventa assoluta, non possiamo più parlare di amore, perlomeno non possiamo più parlare di amore sano: ci troviamo in presenza – diciamolo pure – di un “amore” guasto, malato, che tende a succhiare il sangue alla persona “amata”.

Se, infatti, io dipendo in maniera assoluta dalla persona che dico di amare, se non sono dotato di un minimo di autonomia e di indipendenza, cosa posso darle? In linea teorica, ma anche nella pratica, non posso darle nulla! Posso darle tutt’al più la mia ammissione, il mio riconoscimento, di aver un assoluto bisogno di lei.

Ma questo è amore? Basta questo perché si possa parlare di amore o anche di “semplice” amicizia tra due persone?

Se io dipendo in maniera assoluta da una persona, se non riesco a stare da solo e senza di lei, vuol dire che non ho nulla in me, che tutto quello che ho sta nella persona che dico di amare.

Quindi non sono in grado di darle nulla di mio, di me, di quello che sta in me, perché questo qualcosa semplicemente non esiste, non c’è.

E, se in un rapporto non sono in grado di dare qualcosa, anche poche cose, posso definire questo rapporto un rapporto d’amore o di amicizia? Con tutta evidenza no!

Ecco perché un amore (quello che possiamo definire davvero amore, in altre parole un amore sano) ha bisogno sia della dipendenza che della indipendenza.

Se io fossi già completo in me stesso, privo di ogni mancanza, hortus conclusus, del tutto autosufficiente, perché mai dovrei aver bisogno di una persona da amare? Basterei già a me stesso e non dovrei andare, quindi, in cerca di qualcuno/a con cui costruire una relazione di amore.

E, quand’anche lo facessi, forse riuscirei a dare alla persona amata molte cose, le cose che già ho, ma non riuscirei a donarle il sentimento – unico – di quello che lei è per me, di quello che lei può donare a me. Sentimento che in amore è fondamentale, costitutivo dell’amore stesso.

Se, all’opposto, sono del tutto dipendente dall’altro/a, incapace di stare da solo, senza una mia vita e – diciamolo pure – una mia solidità autonoma, se, senza l’altro, non riesco a vivere (come spesso si dicono romanticamente gli innamorati) cosa posso riuscire a dare all’altro? La mia dipendenza, il mio bisogno di lui/lei?

L’altro allora mi vivrà – fatalmente, inevitabilmente – come una specie di sanguisuga. Potrà anche darsi che all’inizio il suo narcisismo ne risulti lusingato. Ma, alla lunga, egli si sentirà oppresso e svuotato dalla mia presenza e reagirà con uno speculare e fisiologico sentimento di rifiuto e di allontanamento-distanziamento.

Per concludere dico che, forse, né il termine “dipendenza” ne quello di “indipendenza” sono adeguati a definire compiutamente lo stato d’animo di chi ama ed è riamato, in modo sufficientemente sano e corretto. Il termine più adatto (come del resto già altri hanno detto prima di me) è forse quello di “interdipendenza”.

In amore non si è (o, meglio, non si dovrebbe essere) né assolutamente dipendenti né assolutamente indipendenti. Entrambi questi due atteggiamenti sono sbagliati e, quindi, insani. In amore si è (o, meglio, si dovrebbe essere) inter-dipendenti.

Dipendenti l’uno dall’altro, desiderosi di stare insieme all’altro, di godere della sua presenza, consapevoli della propria strutturale incompletezza. Ma senza che questa dipendenza diventi esagerata, cioè morbosa ed ossessiva.

Ciascun amante dovrebbe coltivare la propria autonomia e indipendenza e allo stesso tempo essere rispettoso/a dell’autonomia e della indipendenza dell’altro/a.

Senza, però, che questa autonomia e indipendenza arrivino al punto di trasformarsi in frigidità affettiva o, addirittura, indifferenza, distacco e, financo, misantropia.

© Giovanni Lamagna

Soggetto, oggetto, desiderio, feticismo, isteria, perversione.

2 gennaio 2015

Soggetto, oggetto, desiderio, feticismo, isteria, perversione.

Brevi appunti (in grassetto e corsivo) da una conferenza di Massimo Recalcati, tenuta a Napoli il 22 novembre 2014, liberamente rielaborati e, in qualche caso, commentati (grafia normale) da Giovanni Lamagna.

“Il soggetto è essenzialmente desiderio di essere desiderato dal desiderio dell’altro.”

Spero di non tradire il pensiero di Recalcati, se dico che:

non esiste soggetto senza l’altro, senza la relazione con l’altro;

il soggetto si costituisce essenzialmente nella relazione;

in questo senso nessun soggetto è assolutamente e del tutto autonomo;

esiste una interdipendenza (se non proprio una dipendenza) tra i soggetti, che ne rende possibile la sussistenza individuale;

la pretesa all’autonomia e indipendenza assolute è di natura nevrotica, non sana;

il soggetto per vivere, per sopra-vivere appena venuto al mondo (ma anche in seguito, una volta che la sua esistenza si è fisicamente consolidata) ha bisogno, oltre che del cibo, del riconoscimento che gli viene dato dall’altro;

il bambino per crescere bene ha bisogno non solo del seno della madre, ma dell’amore della madre, cioè del desiderio della madre;

e questa dinamica persiste in forme e misure diverse anche nella vita adulta.

“In questo senso, non ci sono dubbi, il soggetto è essenzialmente desiderio di essere desiderato dal desiderio dell’altro.”

Il soggetto, in quanto entità fisica, ha bisogno essenzialmente di cibo. Ma, in quanto entità psichica, ha bisogno essenzialmente di riconoscimento; ed il primo riconoscimento è quello di “essere desiderato dall’altro”.

In entrambi i casi, almeno nelle prime fasi della vita, essenziale è il ruolo svolto dalla madre nei confronti del soggetto ancora bambino.

Quindi nel rapporto con la madre e nei primi (tre) anni di vita si gioca gran parte del destino (fisico e psichico) del soggetto.

Il soggetto, che non ha ricevuto cibo (materiale ed affettivo) a sufficienza nei suoi primi anni di vita, cresce malato fisicamente e psicologicamente e difficilmente si riprenderà in seguito. A meno di non trovare in età adulta quello che non ha trovato in età infantile.

Cosa questa estremamente improbabile, perché in questo caso si applica perfettamente la parola evangelica: “A chi ha sarà dato e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”.

Il desiderio non si rivolge solo ad un altro soggetto, ma può essere causato anche da un oggetto, che non ha una natura umana: un piede, una calza, un tacco a spillo…

La soggettività si esprime nel rapporto con l’altro sempre come oggetto e, spesso, come “oggetto piccolo”, cioè come particolare del soggetto, quindi come oggetto parziale.

C’è un che nel soggetto che lo rende particolare oggetto di attrazione: unico. E a volte è un particolare “oggetto piccolo” (un piede, una bocca, un orecchio, un abito, un indumento, …) che lo rende particolare oggetto di attrazione e, quindi, di desiderio.

Qui si ha una rifondazione del concetto di soggetto. Il soggetto è al mondo innanzitutto come oggetto.

In questo senso il soggetto, nella relazione, è sempre oggetto. Anche nella relazione con se stesso. Il soggetto è oggetto dello sguardo, del sentimento, dell’affettività, del pensiero dell’altro. Ma anche di se stesso: nell’esperienza dell’auto-coscienza.

Non c’è assolutamente niente di degradante in questo. Perché trattasi di fenomeno intrinseco alla struttura della relazione, quindi inevitabile, ineliminabile, necessario, perché si strutturi il nostro rapporto con l’altro e perfino con noi stessi.

Poi il rapporto con l’altro-oggetto può essere di rispetto, di riconoscimento, di delicatezza, di amore; e allora è positivo, è realizzante.

Oppure di misconoscimento, sfruttamento, violenza; e allora è negativo, degradante (non solo per l’oggetto, ma anche per il soggetto).

Ma in entrambi i casi (sia in quello positivo che in quello negativo) l’altro è “oggetto” (e non soggetto) della relazione.

C’è dunque un feticismo strutturale (intrinseco al rapporto del soggetto con l’oggetto), che è diverso da quello patologico.

In questo senso tutti i rapporti umani hanno un che di feticistico. Un certo grado di feticismo è strutturale (e, quindi, non necessariamente patologico) nei rapporti umani.

In quanto i rapporti umani, al contrario di quelli puramente animali, sono selettivi e non indifferenziati.

La pulsione animale all’accoppiamento è determinata dal puro istinto biologico della riproduzione ed è quindi indifferente alle caratteristiche particolari, uniche, dell’altro/a con cui si accoppia.

Nessun animale è attirato da un particolare zoccolo o da una particolare bocca o da un particolare colore del pelo o della criniera. Per un animale uno zoccolo, una bocca, una criniera vale l’altro/a.

E, infatti, per l’animale, nel rapporto con l’altro/a, non c’è nessun elemento culturale che lo distingue, caratterizza, che lo rende “unico”. Negli animali tutti i rapporti sono sostanzialmente ripetitivi e indifferenziati.

Nell’uomo, invece, ogni rapporto è “unico”, in quanto caratterizzato dall’attrazione, dal desiderio di un “particolare”: di un gesto, di un tono della voce, di uno sguardo, di una movenza, di un piede, di una caviglia, di una gamba, di un culo, di un seno, di una bocca, di un orecchio, di una capigliatura…

Quindi, in qualche modo, di un “feticcio”, cioè di un “particolare”, in un certo senso staccato dal “complessivo”, che scatena, concentra il desiderio e lo rende particolarmente forte ed avvertito.

Non c’è niente di insano in questa forma di feticismo. Esso è parte intrinseca della natura “perversa e polimorfa” della sessualità umana.

Il feticismo diventa insano quando il “particolare” oggetto del desiderio diventa unico, ripetitivo, ossessivo. Quando va in contraddizione con la natura polimorfa della sessualità umana, quando diventa monotematico, mania.

L’attrazione per il particolare, l’unico, per il “feticcio” rende anzi l’accoppiamento umano una forma di linguaggio articolato, allo stesso livello di quello delle parole. E perciò la sessualità umana è un fatto culturale e non solo biologico.

Negli animali, invece, il linguaggio non è articolato, è povero e, quindi, scarso, anzi incapace di produzioni culturali. Le diverse specie animali si accoppiano allo stesso modo al polo sud e al polo nord, ai tropici e all’equatore. E lo fanno allo stesso modo da migliaia, anzi milioni di anni.

Gli uomini, invece, hanno diverse forme di corteggiamento e di accoppiamento da paese a paese. Oltre che da continente a continente. E ogni individuo, pur all’interno della sua cultura condivisa di riferimento, ha il suo modo specifico e del tutto unico di rapportarsi all’altro/a.

Inoltre, questo non si ripete mai uguale, sempre lo stesso nel tempo, ma ha una sua storia, una sua evoluzione. Proprio perché è un fatto culturale e non semplicemente biologico.

Per Lacan, anzi, non esiste una pulsione genitale allo stato puro, cioè priva di residui pregenitali e, quindi, feticisti; e questo non solo nella nevrosi o nella perversione, ma anche nella sessualità cosiddetta “normale”.

La teoria che afferma la possibilità di una genitalità allo stato puro esprime in realtà una difesa nei confronti della sessualità umana, che per sua natura è strutturalmente perversa e polimorfa.

Nel nostro desiderio c’è un oggetto feticistico inconscio (una specie di fantasma).

Lacan (mi sembra di capire) rivede in parti significative la teoria tradizionale delle perversioni. Questa riteneva che ogni manifestazione della sessualità legata alla fase pregenitale fosse da considerare una perversione. Lacan addirittura rovescia questa teoria ed afferma che non esiste nell’uomo una sessualità genitale allo stato puro. Ma, coerente con la lezione di Freud (la sessualità umana è “perversa e polimorfa”, con fini e natura quindi diversi da quelli puramente ed esclusivamente genitali), sostiene che la sessualità umana, anche quella sana, è strutturalmente feticista. Adopera cioè un alfabeto, una grammatica e una sintassi che non sono solo genitali ma anche pregenitali.

E’, anzi, la pretesa della genitalità allo stato puro ad essere (se proprio vogliamo dirla tutta) insana, in quanto rinuncia all’uso di un linguaggio (fatto di un alfabeto, una grammatica e una sintassi) tipicamente umano. L’uomo o la donna che rinuncia al linguaggio feticista nell’esprimere la propria sessualità non afferma affatto una presunta purezza e sanità genitali, ma riduce la propria sessualità ad un linguaggio povero ed elementare.

Esprime in questo modo le sue paure e le sue difese nei confronti della sessualità.

In ogni desiderio umano c’è un fantasma feticista inconscio. Legato alla scena primaria? Probabilmente sì. E’ attorno a questo fantasma, per sua natura feticista, in quanto originatosi in un’epoca ben antecedente a quella genitale, che si struttura il linguaggio (del tutto individuale, specifico e personalizzato) della sessualità umana.

Potremmo dire, per concludere su questo aspetto, che, mentre gli animali fanno sesso tutti allo stesso modo (non c’è un solo animale che lo faccia in modo diverso rispetto agli omologhi della sua specie), tra gli umani non c’è un solo individuo che lo faccia allo stesso modo degli altri. C’è sempre un qualcosa, una qualche caratteristica specifica che lo differenzia in qualche modo dagli altri suoi simili. E questo specifico è appunto collegato al suo fantasma feticistico inconscio originario.

L’isterico/a è colui/colei che attira il desiderio dell’altro/a e poi vi si nega, vi si sottrae.

L’isterico/a ha una rapporto ambivalente con la sessualità: da un lato ne è fortemente attirato/a, da un altro ne ha grande paura e repulsione.

Da questo punto di vista potremmo dire che ogni individuo ha tratti di isteria, perché è propria della sessualità umana questa ambivalenza, questa mistura di attrazione e paura.

Solo che nella persona sana l’attrazione prevale sulla paura, nella persona nevrotica/isterica la paura prevale sull’attrazione.

L’isterico/a può essere pertanto molto bravo/a a sedurre l’altro/a, ma è incapace di portare a termine l’atto seduttivo, che spesso interrompe sul più bello, prima che esso arrivi al suo compimento soddisfacente.

Il concetto di “perversione” non definisce tanto l’aberrazione sessuale, le pratiche sessuali. Perché la sessualità (almeno quella umana) è strutturalmente e intrinsecamente perversa e polimorfa.

La “perversione” è piuttosto una forma di negazione della funzione limitatrice del linguaggio. Il linguaggio della perversione è, infatti, quello di un godimento assoluto, senza limiti.

La pedofilia è la forma pura e perfetta della perversione, perché ricerca un godimento senza consenso.

La perversione non definisce la varietà (ovverossia la natura polimorfa) delle pratiche sessuali. Perché la sessualità, secondo la definizione che ne ha dato Freud, è intrinsecamente e strutturalmente polimorfa.

La perversione è piuttosto la tendenza ad un godimento senza limiti, l’affermazione della propria libertà come assoluta, il non riconoscere la libertà dell’altro.

La perversione, quindi, non sta tanto nel desiderio di certe pratiche sessuali, che di per sé non è indice di perversione, ma nel voler imporre all’altro il proprio desiderio, con una violenza più o meno manifesta, esplicita, acclarata.

In questo senso la pedofilia è il prototipo delle perversioni.

La perversione è l’affermazione di un Ego spropositato che non riconosce l’ego dell’altro. In questo senso si potrebbe dire che è una forma di narcisismo. Anzi è l’altra faccia del narcisismo, la sua versione sessuale.

appunti raccolti, elaborati liberamente e commentati da Giovanni Lamagna