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Sui concetti di comunità democratica, reciprocità, eguaglianza, condivisione, comune, comunione, identità, setta, raggruppamento

Nel libro “Critica della ragione psicoanalitica” (Ponte alle Grazie, 2020), tra pag. 34 e pag. 35, Massimo Recalcati così scrive: “La condizione per una comunità democratica di eguali non è la reciprocità (mito incestuoso di una società dove “uno vale uno”; secondo Lacan luogo della rivalità immaginaria più oscena), ma l’assenza di reciprocità, ovvero, quello che Facchinelli qui definisce come l’eguaglianza tra i non eguali. In altre parole, seguendo Jean-Luc-Nancy, la condizione della condivisione che rende possibile la vita della comunità come vita aperta è il riconoscimento dell’esistenza dell’incondivisibile; la condizione del “comune” è il riconoscimento dell’assenza del comune, dell’impossibilità di ridurre la comunità a comunione. Nel lessico di Facchinelli si tratta, come vedremo tra poco, del rapporto sempre conflittuale tra tendenza alla settarizzazione e la spinta all’accomunamento che caratterizza la vita di ogni insieme umano.

Ci sono alcuni passaggi in questo testo che non condivido (almeno nella loro formulazione letterale), anche se metto in conto che forse non li ho capiti.

Non capisco, per incominciare, perché una comunità democratica non dovrebbe basarsi sulla “reciprocità”, ma dovrebbe invece fondarsi addirittura sulla “non reciprocità”.

A me (che sono cresciuto da ragazzo in ambito cristiano-cattolico) è stato insegnato “l’amore reciproco” ed io ho sempre pensato che era questo a fondare una qualsiasi forma di raggruppamento comunitario: da quello “di sangue” della famiglia a quello scelto e informale del gruppo di amici, fino a quello (più o meno istituzionale) di una comunità unita da ideali e forme di impegno di vario tipo: umanitario, sociale, intellettuale…

Non capisco, dunque, perché la “reciprocità” sarebbe, invece, inevitabilmente un “mito incestuoso… luogo della rivalità immaginaria più oscena”, come sostiene Lacan.

Certo, non mi sfugge che una comunità possa essere o diventare quello che denuncia Lacan. Non capisco, però, perché lo debba essere necessariamente, inevitabilmente, fatalmente, per sua struttura intrinseca, come mi sembra di leggere nel passo su citato.

Per me la comunità può essere benissimo allo stesso tempo un luogo di legami forti, stretti, di interdipendenza, ed il luogo della distinzione, della individuazione, dei confini netti e ben distinti tra le persone che la compongono, dotate ciascuna di una sua peculiare identità e autonomia.

Sono d’accordo che in una comunità le persone che la compongono non sono (e non debbono essere) uguali, cioè omologate, in quanto ognuna di esse è e deve restare diversa, con sue caratteristiche (e competenze) proprie e specifiche.

Il che non impedisce (o, meglio, non dovrebbe impedire) che esse siano eguali, nel senso profondo, valoriale, assiologico, della parità dei diritti e dei doveri, della “uguale” dignità umana.

Da questo punto di vista l’espressione “uno vale uno” torna ad avere allora un senso e un suo pieno e alto valore sul piano della democrazia (livello istituzionale) oltre che su quello della fraternità (livello dei rapporti interpersonali).

Non capisco inoltre (per continuare il mio commento) espressioni come “la condizione che rende possibile la vita della comunità come vita aperta è il riconoscimento dell’esistenza dell’’incondivisibile” o “la condizione del comune è il riconoscimento dell’assenza del comune, dell’impossibilità di ridurre la comunità a comunione”.

Certo, se esse vogliono dire che in una qualsiasi comunità c’è sempre un quid che non sarà mai del tutto e pienamente condiviso e condivisibile da tutti, se esse vogliono dire che una comunione totale (che poi vorrebbe dire la fusione, la simbiosi totale) è impossibile (e manco auspicabile), sono d’accordo.

Ma allora vanno dette in maniera diversa, meno apodittica e più articolata.

Cosa sarebbe, infatti, una comunità, per quanto aperta e non chiusa essa voglia essere e rimanere nel tempo, se non avesse delle cose (anzi molte cose) da condividere, se non ci fosse un “comune” che la tiene unita, se “comunità” non significasse anche “comunione” di anime e perfino di corpi, di beni spirituali e persino (in alcuni casi) materiali?

Concordo, infine, nel segnalare il rischio che una comunità diventi una setta e nell’indicare l’opportunità che essa rimanga invece sempre aperta e in dialogo con l’esterno, con i diversi e con le diversità.

Ma questo non mi porta a pensare che una comunità possa costituirsi e durare senza una sua identità ben precisa e autonoma, che la distingua da altre comunità.

In altre parole, il termine “identità”, per me, non è sinonimo (ovviamente negativo) di separatismo o, addirittura, di settarismo e di chiusura.

Esistono indubbiamente le identità chiuse, integraliste e intolleranti verso le diversità, ma esistono anche le identità aperte e disponibili al dialogo e al confronto con l’altro da sè.

Di questa “verità”, d’altra parte, ci dà conferma utile anche ciò che accade a livello intrapsichico.

Come ci ha insegnato Erich Erikson, nella vita affettiva di una persona adulta non è possibile l’esperienza dell’intimità, cioè di relazioni salde, calde e significative (quindi potremmo dire – anche e per estensione – l’esperienza della comunità), se la persona non ha raggiunto, al termine della sua adolescenza, una forte e salda identità individuale, se non ha completato il suo percorso di “individuazione”, come avrebbe detto Jung.

© Giovanni Lamagna

Pulsioni libidiche e perversioni incestuose.

Accade talvolta che la nostra libido anziché orientarsi nella direzione che sarebbe per lei più naturale (cioè verso un partner che ci piace, che ci attira, diciamo pure che ci attizza, verso il quale cioè proviamo un forte desiderio sessuale), vada in tutt’altra direzione, si allontani dall’oggetto che l’ha provocata, eccitata.

In alcuni casi perché rimane fissata ad una figura genitoriale (poco importa se del nostro stesso sesso o del sesso opposto) o addirittura a entrambe le figure genitoriali.

In tali casi la nostra libido rimane psicologicamente (e diciamo pure patologicamente) bloccata in una specie di rapporto incestuoso, incapace di staccare il cordone ombelicale simbolico, che ancora ci tiene emotivamente legati ad uno dei nostri genitori o a entrambi per tutta l’infanzia e la fanciullezza.

Cordone che solitamente le persone (cosiddette) normali tagliano definitivamente al termine della loro adolescenza, quando prendono la “loro” strada per conquistare la (più o meno) piena libertà di esseri adulti: condizione prima per poter instaurare un nuovo rapporto amoroso, maturo, appunto adulto.

In altri casi può succedere che, dopo aver tagliato il cordone ombelicale simbolico, dopo aver costruito la nostra vita autonoma con un legame stabile di coppia, nel momento in cui arriva un figlio o dei figli, la nostra vita psicologica (soprattutto la sua dimensione libidica) subisca una specie di regressione.

E che la nostra pulsione libidica si sposti dall’oggetto partner all’oggetto figlio/a o figli. In questi casi il legame col nostro partner perde più o meno progressivamente (a volte addirittura improvvisamente) interesse, soprattutto l’interesse sessuale, e si sposta più o meno significativamente sul figlio/a o sui figli.

L’erotismo in questi casi acquista nuove forme, del tutto mascherate e metaforiche. Anche qui viene a crearsi una specie di legame incestuoso, dal quale il/i figlio/a/i faticherà/anno molto a liberarsi e forse (in alcune situazioni purtroppo accade anche questo) non si libererà/anno mai.

In tali casi può succedere che entrambi i coniugi siano collusi, che entrambi desiderino rinunciare all’investimento libidico reciproco che li aveva portati a incontrarsi prima e ad unirsi poi in coppia.

Il loro rapporto in questo caso procederà (apparentemente) tranquillo, perché nessuno di loro farà all’altro richieste divergenti (e “imbarazzanti”).

In realtà il rapporto ristagnerà e prima o poi si esaurirà, almeno dal punto di vista libidico. Diventerà cioè un rapporto di puro cameratismo e mutuo aiuto: insomma altro da ciò per cui era nato.

E’ del tutto ovvio che una tale evoluzione (o, per essere più esatti, involuzione) del rapporto porta alla luce, rende manifesta, una seria difficoltà di entrambi i coniugi (sussistente già ab origine) nei confronti della sessualità, un rapporto mai risolto, quindi non sereno e meno che mai felice con il sesso.

Il prevalere di un’istanza censoria e superegoica, probabilmente mascherata nelle prime fasi del rapporto, quando essa era sopraffatta dalla tempesta ormonale e le istanze sociali invitavano, spingevano decisamente nella direzione dell’accoppiamento sessuale.

Quando cioè – avrebbe detto Schopenhauer – l’istinto innato alla procreazione rendeva i due partner semplici funzionari della perpetuazione della specie, spingendoli all’accoppiamento sessuale e al superamento delle loro più o meno forti resistenze e paure nei confronti del sesso.

In altri casi succede che uno dei due partner si “salvi” da questa involuzione libidica, che non riversi cioè incestuosamente le sue pulsioni libidiche sui figli, che ricerchi ancora l’altro/a così come avveniva nei primi tempi del loro rapporto, che conservi cioè più o meno intatta la sua spinta sessuale iniziale.

Questo pone dei problemi al compagno/a, che – paradossalmente – se ne sente infastidito, che non vorrebbe essere messo in crisi nei nuovi equilibri emotivi ed erotici raggiunti. E però talvolta prova, magari con grande sforzo e fatica, a mettere in discussione se stesso/a per venire incontro alle richieste del/la partner.

O perché le richieste di questo/a si fanno pressanti, insistenti, fino in alcuni casi ad arrivare all’estremo limite di minacciare la rottura del rapporto: quindi per la paura di subire un allontanamento, una separazione più o meno reali, cioè fisici, in ogni caso emotivi, del partner.

O per un sentimento di reale e sincera empatia nei confronti del partner, col quale vorrebbe provare e trovare (l’antica) sintonia ed evitare o ridurre il più possibile il sopraggiunto conflitto.

Anche in questi casi, però, succede piuttosto spesso che il partner riottoso viva i suoi tentativi di riavvicinamento e riconciliazione con il/la compagno/a in maniera ambivalente.

Da una parte è mosso/a da un sincero sentimento di recupero del primitivo rapporto.

Dall’altra è bloccato e tirato in direzione opposta dai sensi di colpa nei confronti del/i figli/o, ai quali si è oramai legato /a in un rapporto di natura pseudo-incestuosa, che mal sopporta “rivalità”.

Il risultato è che il tentativo di ritrovare (ammesso che ci sia mai stata) l’antica passione e il primitivo desiderio abortisce sul nascere, perché privo di quella gioia autentica e di quell’entusiasmo spontaneo che dovrebbe caratterizzare una gratificante relazione sessuale.

E’ un tentativo, insomma, mosso più dalla ragione o dalle richieste esterne (più o meno esplicite) che da reali e spontanee forze pulsionali.

Perché alle residue pulsioni libidiche di natura sessuale (di tanto in tanto magari ancora sperimentate) si oppongono pulsioni (che io non esito a definire anch’esse libidiche, per quanto stravolte nella loro natura sessuale) che vanno in direzione uguale e contraria.

Per cui le prime risultano totalmente inquinate e intossicate. E quindi vengono vissute male, risultando perciò del tutto insoddisfacenti, frustranti e, per conseguenza, incapaci di determinare una significativa inversione di rotta nella dinamica relazionale venutasi a determinare gradualmente nel tempo e, ad un certo momento, consolidatasi.

© Giovanni Lamagna