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Terapia psicoanalitica e cammino interiore.

Nel corso di una terapia psicoanalitica il paziente cosiddetto “nevrotico”, sotto la guida di un esperto delle “cose dell’anima” (ovverossia della psiche), fa un cammino interiore che tutti (anche le persone cosiddette “sane”, anche coloro che non sentono il bisogno di ricorrere ad una cura psicoanalitica) dovrebbero fare.

Quello di scoprire il proprio desiderio (Jacques Lacan), il proprio daimon (Carl Gustav Jung), il proprio compito nella vita (Victor Frankl), metterlo sempre più a fuoco, entrarci sempre più in confidenza e liberarsi il più possibile degli inciampi, interiori ed esteriori, consci ed inconsci, che si oppongono alla loro realizzazione.

© Giovanni Lamagna

Capriccio e desiderio.

Il desiderio è un’esperienza umana ben diversa dal capriccio.

Il capriccio è un’esperienza del tutto narcisistica, incapace di confrontarsi con l’esistenza dell’Altro e con la durezza della Realtà.

Prescinde, quindi, dal freudiano “principio di realtà”, mira a forzare, se non a rimuovere del tutto, la realtà.

Il desiderio, invece, è un’esperienza dell’anima che, a partire da un moto fisico, emotivo o intellettuale del singolo individuo, si accorda però con i moti degli altri singoli individui e, soprattutto, con la realtà.

Dalla quale non sempre riceve accoglienza immediata; e, infatti, alle volte il desiderio deve fare piccole o grandi forzature sulla realtà, per potersi realizzare.

Ma non è mai totalmente sganciato dalla realtà, totalmente estraneo ed ostile ad essa, come lo è invece il capriccio.

Il desiderio è sempre parte della Realtà, non è mai fuori della realtà, con i suoi limiti, i suoi divieti e le sue imposizioni; è sempre realistico, anche quando tende a forzare consuetudini e status quo.

In questo senso il desiderio non è mai solo la realizzazione di un moto che nasce all’interno del nostro animo.

Ma è anche in qualche modo la risposta ad una chiamata che ci viene dall’esterno, la realizzazione di un compito, come lo intendeva Victor Frankl.

O addirittura la realizzazione di un dovere, come la pensava Jacques Lacan.

© Giovanni Lamagna

Super-io e Ideale dell’Io.

L’Ideale dell’Io non ha nulla a che fare – almeno per come lo intendo io – con il Super-io.

Perché l’Ideale dell’Io è il frutto, il risultato di una scelta consapevole (per quanto le nostre scelte possano essere consapevoli) dell’Io, del mio essere individuale nel pieno e libero (per quanto è possibile) possesso delle sue facoltà, emotive ed intellettuali.

E’ ciò che voglio, aspiro a diventare rispetto a ciò che sono; è il mio desiderio (per dirla con Jacques Lacan), è il mio daimon e la mia vocazione (per dirla con Carl Gustav Jung), è il compito che ho assegnato a me stesso nella vita (per dirla con Victor Frankl).

Mentre il Super-io è un modo di essere che viene imposto (“imposto” è il termine giusto) all’Io dell’individuo dall’esterno, in primis dalla sua famiglia di origine, poi dal contesto ambientale in cui è cresciuto ed ha vissuto i suoi primi anni di vita (decisivi per la formazione del Super-io), infine dal contesto sociale in cui vive da adulto.

E’ vero che i due (Ideale dell’Io e Super-io) si possono confondere; nel senso che noi possiamo ritenere come nostro Ideale dell’Io quello che è in realtà Super-io.

Però, se analizziamo bene le loro due strutture, esse hanno origini e conformazioni molto diverse.

L’Ideale dell’Io (ripeto, almeno per come lo considero io) esprime la nostra volontà e libertà, quel poco o molto di libera volontà che ci è consentita; è – come direbbe Sartre – “ciò che facciamo e vogliamo fare con quello che gli altri hanno fatto di noi”.

Il Super-io, invece, è la negazione della nostra libera e autonoma volontà; esprime i nostri condizionamenti psicologici, soprattutto quelli che abbiamo ricevuto nell’infanzia; è semplicemente “ciò che gli altri hanno fatto di noi”.

© Giovanni Lamagna

Tre modi di vivere l’atto sessuale.

Le persone che stanno in amore, che fanno l’amore, che si congiungono sessualmente, si dividono, a mio avviso, in tre categorie principali.

Quelle che, pur desiderandolo fortemente, a causa dei problemi più vari, fisici e/o psicologici, non riescono a raggiungere l’orgasmo.

Godono, quindi, seppure godono, in maniera solo molto limitata e parziale; sono perciò amanti impotenti, almeno dal punto di vista sessuale.

Ci sono poi le persone che nell’atto sessuale riescono ad abbandonarsi al piacere e lo raggiungono a volte in maniera anche molto abbondante e profonda.

Ma questo piacere è “solo” il loro piacere, il piacere del loro corpo e della loro psiche, non è “anche” il piacere dell’altro, non è il piacere condiviso di due corpi e due anime in cerca l’uno/a dell’altro/a.

E’ un piacere questo non molto diverso dal, non molto superiore per qualità al piacere che raggiungerebbero da soli, se si masturbassero.

In questo caso l’altro/a con cui si condivide l’atto sessuale è unicamente il pretesto, direi addirittura solo lo strumento, per il raggiungimento di questo tipo di piacere.

Tanto è vero che le persone che fanno sesso in questo modo molto spesso amano farlo a occhi chiusi o a luci spente, nel buio, come se si racchiudessero in sé stesse, nel proprio godimento autistico.

Anziché aprirsi all’altro/a e godere contemporaneamente anche della presenza, della vista, del piacere, della gioia dell’altro/a, con il quale si sta vivendo un momento di incontro, che dovrebbe essere molto intenso e intimo, anzi il più intenso e intimo degli incontri possibili tra due umani.

Ci sono, infine, le persone (a mio avviso poche, se non addirittura rarissime) che, nel fare l’amore, si compenetrano talmente nel piacere dell’altro/a, da condividere il piacere dell’altro/a come se fosse il loro stesso piacere.

Anzi antepongono il piacere dell’altro/a al proprio, non ne possono prescindere; senza condividere il piacere dell’altro/a sarebbero incapaci di godere pienamente anche del proprio.

Godono del piacere dell’altro/a esattamente come del loro; il piacere dell’altro aggiunge ulteriore piacere al proprio, lo amplifica in maniera addirittura esponenziale.

In quest’ultimo caso il rapporto sessuale, se è vissuto da entrambi i partner con questo stesso atteggiamento e disposizione d’animo, arriva ad avere addirittura i connotati di una vera e propria esperienza mistica.

Nella quale ciascuno dei due perde (almeno per qualche istante) i propri confini e si congiunge, fonde, con l’altro non solo fisicamente, ma soprattutto emotivamente, sentimentalmente, affettivamente, intellettualmente; in una sola parola: spiritualmente.

Altro che “inesistenza del rapporto sessuale”, come sosteneva a suo tempo Jacques Lacan e come spesso oggi ribadisce uno dei suoi principali seguaci, Massimo Recalcati!

© Giovanni Lamagna

Il rapporto sessuale non esiste? (2)

Non condivido assolutamente l’affermazione di Lacan “il rapporto sessuale non esiste”, perché mi sembra la classica affermazione paradossale, ad effetto, che mira a far colpo, sbalordire, disorientare il lettore o l’ascoltatore, più che sostenere un’autentica verità.

Certo, se l’affermazione vuole dire che nessun rapporto sessuale riuscirà mai a fare di due “uno”, essa è senza alcun dubbio vera; ma in questo caso sostiene semplicemente una ovvietà, anzi una banalità.

D’altra parte manco l’amore riesce ad ottenere un tale miracolo.

Manco l’amore, che al contrario del sesso, coinvolge le anime prima che i corpi, riuscirà a fare di due persone un’unica persona.

Manco l’amore, che è il tipo di relazione più alta che può intercorrere tra due persone, per quanto assoluto, profondissimo, intimissimo esso possa essere, riuscirà mai ad eliminare la radicale solitudine che separa due individui.

E però questo cosa vuol dire: che non ha senso fare sesso?

In base a quello che sostiene Lacan, se volessimo prendere alla lettera la sua affermazione e trarne le estreme conseguenze, sì, non avrebbe senso.

Anzi, dirò di più, non avrebbe senso neanche l’amore stesso, perché ogni relazione d’amore, anche la più intima, profonda ed assoluta, è costretta a prendere atto dell’insuperabile confine che separa e separerà sempre le due persone che si amano.

E, invece, e giustamente, gli uomini, nonostante i limiti, i confini insuperabili, che li separano, continuano a fare sesso e continuano (per fortuna!) ad amarsi.

Non possono fare a meno di farlo; ne va della loro felicità; o, meglio, di quel poco di felicità che è data loro di godere.

D’altra parte lo stesso Freud (che non possiamo certo annoverare nella categoria dei pensatori ottimisti) – ne “Il disagio della civiltà” – sostiene, in buona sintesi, che lo scopo della vita umana è la ricerca della felicità; e che, anche se l’uomo non potrà mai essere (del tutto) felice, anche se (forse) l’infelicità nella vita prevale (in genere e complessivamente) sulla felicità, egli (cioè l’uomo) non potrà fare a meno di perseguire la felicità nel corso della sua vita.

E perché accade questo?

Semplicemente perché l’uomo è un folle, è un inguaribile illuso, perché è un bambino mai cresciuto che continua a credere alle favole, perché è un malato nevrotico che scambia le sue fantasie con la realtà?

A mio avviso, no! Nonostante tutto, no, non lo penso.

Perché penso che l’uomo che ama, perfino l’uomo che fa sesso senza amare, dopo aver amato e perfino dopo aver fatto sesso senza amore non sarà più lo stesso uomo che era prima di amare e prima di fare sesso.

In qualche modo sarà un uomo che avrà trasceso sé stesso, sarà diventato altro da sé.

E questo trascendimento non sarà sicuramente la felicità assoluta, senza ombre e senza limiti, che l’uomo (spesso) si illude di poter trovare quando ama o fa sesso; ma certo le allude, ha qualcosa a che fare con la felicità.

Indubbiamente, quando ama e perfino quando fa sesso, l’uomo rimane separato, irrimediabilmente diviso da colui o da colei che ama o con cui fa sesso.

Ma, allo stesso tempo, in qualche modo, si è avvicinato, si è reso, sia pure per un breve istante, intimo alla persona che ama e con cui ha fatto sesso.

E ciò fa esistere (altro che non esistere!), li rende una realtà ben concreta e sperimentabile e pertanto entrambi estremamente desiderabili, anzi le cose più desiderabili al mondo, sia la relazione d’amore che l’atto sessuale.

Alla faccia (mi sia perdonata questa piccola volgarità) di quanto pensava e sosteneva Jacques Lacan!

© Giovanni Lamagna

Due questioni a proposito del libro “Il gesto di Caino” di Massimo Recalcati

La lettura del recente saggio di Massimo Recalcati “Il gesto di Caino” (Einaudi editore) offre, come sempre quando si legge un libro di questo psicoanalista/filosofo (o filosofo/psicoanalista?), numerosi e importanti spunti di riflessione e di meditazione, anche quando non si è del tutto d’accordo con il suo autore.

Qui in particolare vorrei approfondire due questioni, che a partire dalle analisi sempre stimolanti e interessanti di Recalcati, mi hanno impegnato in una specie di colloquio virtuale con lui, anche perché questa volta (e di solito non è così) mi hanno visto su posizioni (parecchio) diverse dalle sue.

1 La prima questione inerisce un tema enorme, uno di quelli centrali della riflessione filosofica e insieme psicoanalitica.

La definisco così, in termini molto sommari e anche un po’ rozzi: l’uomo nasce fondamentalmente cattivo, aggressivo, distruttivo, addirittura crudele? o, al contrario, è fondamentalmente buono, cooperante, costruttivo, compassionevole e amorevole.

Mi pare che la posizione di Recalcati in proposito venga fuori chiara, netta (tra l’altro non è la prima volta che la dichiara, l’ha già fatto numerose altre volte nei suoi precedenti saggi): l’uomo è animato in prima battuta da una spinta distruttrice.

In questo saggio emerge subito già dall’esergo del primo capitolo, costituito da una frase de “Il disagio della civiltà” di Sigmund Freud: “E’ vero che coloro che preferiscono le fiabe sono sordi quando si parla della tendenza dell’uomo alla “cattiveria”, all’aggressione, alla distruzione, e quindi alla crudeltà”.

Ora io questa posizione teorica, che per Recalcati trova ispirazione e validazione non solo nel pensiero del fondatore della psicoanalisi, ma anche in quella del suo principale maestro Jacques Lacan, non la condivido.

E non perché sia portato a preferire le fiabe, come insinua sarcasticamente mastro Freud. Ma perché preferisco vedere l’uomo come un essere profondamente, radicalmente, strutturalmente ambivalente, contraddittorio e non definibile univocamente, in termini drastici e unilaterali, tipo bianco o nero.

Pertanto riconosco nell’uomo la tendenza che vede Freud, cioè la tendenza “alla “cattiveria”, all’aggressione, alla distruzione e, persino, alla crudeltà”.

Ma vedo in lui anche la tendenza opposta: quella verso la “bontà”, la cooperazione, la costruzione, la compassione, in certi momenti addirittura verso l’amore.

Per me, se è vero che ciascuno di noi porta in sé un Caino (come afferma Recalcati soprattutto nelle pagine centrali del saggio: 39-40), è pure vero che ciascuno di noi porta in sé anche un Abele.

Il che vuol dire – per uscire dalla metafora – che in ciascuno di noi è radicata la pianta del “male”, della cattiveria, ma è radicata anche la pianta del “bene”, della bontà.

E che le nostre azioni sono sempre il risultato di una dialettica, a volte di un vero e proprio conflitto, tra il “bene” e il “male”.

In alcuni casi prevale il “bene”, in altri il “male”. In alcuni uomini è prevalente il “bene”, in altri è prevalente il “male”. In nessun uomo, però, c’è o solo il male o solo il bene.

Non sono d’accordo in altre parole con la tesi che sia la violenza a “fondare” l’umano.

Ovverossia che – come dice Massimo Recalcati a pag. 40 – “il primo atto dell’uomo fuori dal giardino dell’Eden” sia “quello della violenza fratricida”; e “non l’amore per il prossimo, non la gratitudine verso Dio o per il creato, non la solidarietà e la fratellanza, non l’amicizia e l’amore”.

Perché, se è vero che all’origine della storia c’è Caino, è vero che c’è anche Abele; se è vero che esiste la violenza di Caino, è vero che esiste anche la mitezza di Abele.

Anzi questa, se proprio vogliamo estremizzare i giudizi e le valutazioni, viene prima di quella, se è vero che è proprio la mitezza di Abele (tanto apprezzata dal Creatore) a suscitare (come racconta il mito biblico) l’invidia di Caino e a provocare la sua violenza.

E non per questo mi riconosco in “una rappresentazione retorica e idealizzata dell’uomo” (pag. 40), come si dice oggi “buonista”, delle relazioni tra gli umani.

So benissimo, infatti, che all’amore si accompagna sempre una quota di odio più o meno grande, che alla benevolenza e alla simpatia si uniscono sempre quote parti di invidia e di gelosia; perfino nei rapporti umani più intimi e più armoniosi.

Ma questo, molto semplicemente, non mi porta a concludere che l’uomo sia fondamentalmente e originariamente cattivo, violento, “lupo” e che “la spinta alla distruzione” in lui preceda “ quella della dedizione amorosa” (pag. 42).

Per me nell’essere umano – lo ribadisco ancora una volta– c’è sia Abele che Caino, come figure quasi archetipe. Anzi, se proprio vogliamo dirla tutta, non ci sarebbe stato Caino (come archetipo della violenza e della cattiveria umane) se non ci fosse stato prima ancora Abele (come archetipo della mitezza e della bontà).

Per concludere, su questa prima questione posta da Massimo Recalcati, la mia opinione è che l’odio compare nell’uomo non come dato genetico, costitutivo cioè della sua stessa natura fondamentale, primigenia. L’odio sopravviene piuttosto come figlio/frutto di un amore sbagliato o mancato.

Nel caso specifico l’odio di Caino si comprende solo come esito di un rapporto fusionale, incestuoso, quindi sbagliato, che lo lega a sua madre Eva.

Se non ci fosse stato questo amore possessivo (da “madre coccodrillo”) di Eva nei confronti del figlio primogenito, probabilmente Caino non avrebbe vissuto la nascita e l’esistenza del fratello Abele come una intrusione e, quindi, non si sarebbe scatenato in lui l’impulso fratricida.

D’altra parte questo lo lascia intendere molto bene – e qui concordo pienamente – lo stesso Recalcati, quando a pag. 51 scrive: “Il carattere traumaticamente intrusivo della nascita di Abele si comprende solo sullo sfondo di questo legame fusionale che lega Caino a sua madre.”

O quando a pag. 55 Recalcati approfondisce ulteriormente questa analisi: “All’origine della violenza umana troviamo l’esperienza del non riconoscimento. La delusione della domanda di riconoscimento – il suo essere respinta – è spesso all’origine del ricorso umano alla violenza. Il suo divampare può facilmente scaturire dall’assenza di ascolto, di accoglimento e di riconoscimento. Se la dialettica del riconoscimento è ostruita, bloccata, distorta, la violenza può essere un suo esito possibile.

Queste parole mi sembra confermino la tesi che fin qui ho provato a sostenere: la violenza non è affatto un dato fondamentale, primario e originario, costituente della natura umana, ma è un dato secondo, conseguente ad un “torto” subito (vero o presunto, reale o fantasmatico: qui ha un’importanza secondaria).

La violenza è, in genere, quasi sempre, l’esito o di un “eccesso di riconoscimento” (amore sbagliato, perché incestuoso, fusionale, simbiotico, come era stato quello di Eva nei confronti del primogenito Caino) o di una “carenza di riconoscimento” (amore mancato, non ricevuto, come non fu il caso di Caino, ma è il caso di molti figli, che da adulti diventano poi quasi fatalmente soggetti borderline).

2. La seconda questione su cui vorrei riflettere qui è quella che Recalcati affronta a partire dal capitoletto intitolato “La trasgressione della Legge”(da pag. 15 a pag. 36) quando analizza il mito di Adamo ed Eva che mangiano il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male disobbedendo ad un’esplicita proibizione divina.

Qui non mi convince l’interpretazione che dà Massimo Recalcati del cosiddetto “peccato originale”. Io (mi scuso per l’immodesta citazione) ne ho data tutta un’altra, direi opposta, nel mio “Elogio della disobbedienza a Dio” (Guida Editori; 2015), dove la espongo in maniera diffusa: qui ne farò solo rapidi accenni.

Per Recalcati nel desiderio di Adamo ed Eva di mangiare il frutto dell’albero del Bene e del Male c’era non solo la spinta a voler sapere il sapere di Dio, ma addirittura l’hybris a voler essere come Dio, a diventare Dio. (pag. 21).

Per me, invece, ciò che domina nella disobbedienza di Adamo ed Eva è l’aspirazione del tutto legittima, tipicamente umana, a trascendersi, ad uscire da una condizione di inconsapevolezza (di chi, appunto, non conosce la differenza tra il Bene e il Male), tanto beata quanto beota, per acquisire piena coscienza e quindi vera possibilità di scelta.

Inoltre è vero ciò che dice Recalcati: l’uomo tende come “sua inclinazione fondamentale” (pag. 18) a trasgredire la Legge. Ma è anche vero che l’uomo (unico tra tutti gli animali) si è dato la Legge.

Non l’ha certo trovata fuori di sé, né Qualcuno gliel’ha imposta contro il suo volere. Questo è quello che racconta il mito della Genesi (Dio impone la Legge), ma non è certo una ricostruzione realistica di come sia nata la Legge.

In altre parole nell’uomo esiste certamente un’inclinazione fondamentale a fare il male (trasgredire la Legge). Ma esiste anche, allo stesso tempo, un’inclinazione a fare il bene (dandosi dei limiti, imponendosi da solo una Legge).

Anzi la seconda io la considero ancora più fondamentale della prima, perché, se l’uomo non si fosse dato una Legge, non avrebbe potuto poi neanche trasgredirla.

Chi non conosce la differenza tra il bene e il male (ad esempio, i bambini) non può neanche essere accusato (e, meno che mai, punito) per aver fatto del male.

D’altra parte Lacan non ha individuato due polarità all’interno delle quali si pone la vita di ogni essere umano: il Desiderio e la Legge?

E non è vero che privilegiare unilateralmente l’una o l’altra squilibra la vita, la sbilancia, perché la priva di una delle sue due dimensioni fondamentali, essenziali?

Qui, invece, mi pare che Recalcati faccia proprio questo: privilegiare la Legge a scapito del Desiderio; e che finisca, in qualche modo, quasi per contraddire il suo maestro Lacan.

Per concludere su questa seconda questione: per me Adamo ed Eva non avevano altra opzione, dovevano per forza disobbedire.

Se non avessero disobbedito avrebbero “scelto” unilateralmente la Legge a scapito del Desiderio; avrebbero quindi “tradito” il loro desiderio. Che è proprio quello che Lacan definisce (e Recalcati questo me lo ha insegnato) il più grande peccato che un uomo possa commettere.

Solo dopo aver scelto il loro desiderio hanno potuto prendere consapevolezza della necessità di darsi dei limiti, cioè della necessità della Legge. Della necessità di contemperare Desiderio e Legge.

Anche da questo punto di vista io ritengo che la loro fu una “felix culpa”. Sebbene il mio punto di vista – ne sono perfettamente consapevole – sia molto diverso da quello di s. Agostino, che per primo usò tale espressione a proposito del “peccato originale” dei nostri antichi progenitori.

© Giovanni Lamagna