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“Ripetizione” e “ritorno del rimosso”.

Molto importante e interessante la distinzione che fa Massimo Recalcati tra il concetto di “ripetizione” e quello di “ritorno del rimosso”. (da “Un cammino nella psicoanalisi”; Mimesis 2016 ; p. 84-86)

Il “ritorno del rimosso” è il riaffiorare del desiderio che è stato allontanato dalla coscienza.

Esso si manifesta attraverso gli atti mancati, il sintomo, i lapsus, il sogno, i motti di spirito.

È, quindi, in qualche modo un segnale di vitalità del soggetto, anche se confligge con la sua vita conscia.

È il desiderio inconscio che ribolle ed affiora – sia pure in forme improprie, deviate, potremmo anche dire “travestite” – dall’interno verso l’esterno.

La “ripetizione” è, invece, la tendenza a ripetere nella vita conscia le situazioni del passato, nelle quali il desiderio del soggetto si è bloccato ed ha assunto una forma perversa, regressiva: invece di aprirsi alla vita, si è chiuso, anestetizzato.

La “ripetizione”, dunque, sa totalmente di morte, laddove il “ritorno del rimosso” sa, invece, comunque e in qualche modo, di vita, è la vita che si apre un varco, prova a riaffiorare da una situazione mortifera.

© Giovanni Lamagna

Pulsione e istinto.

La pulsione è cosa molto diversa dall’istinto.

La pulsione è la trasformazione – più o meno varia e profonda – che dell’istinto fa la cultura.

L’istinto è dell’animale, la pulsione è dell’uomo.

Faccio solo due esempi di cosa significa questa distinzione.

L’animale – in base al suo istinto – si accontenta di ingurgitare cibo; quello che trova e dove lo trova.

L’uomo apparecchia la tavola e si inventa delle ricette per cucinare.

L’animale si accoppia sessualmente nell’unico modo che conosce; sempre lo stesso.

L’uomo lo fa in una varietà di modi e di forme; è “perverso e polimorfo”, per dirla con Freud.

© Giovanni Lamagna

Sul concetto di anima.

Non è vero, a mio avviso, che il concetto di “anima” sia “una costruzione teorica pleonastica”, come afferma lo psicoanalista Antonio Alberto Semi.

Il concetto di “anima” per me è l’equivalente del termine greco “ψυχή” e sta a indicare tutto ciò che non è “soma” (dal gr. σῶμα), cioè fisico, corporeo.

Ha, quindi, la sua utilità e funzionalità teorica.

Anche se mi è del tutto evidente che tra lo psichico e il corporeo la distinzione è solo concettuale e, quindi, convenzionale.

Perché in realtà “fisico” e “psichico” sono realtà profondamente interconnesse.

Come sa bene la psicosomatica.

© Giovanni Lamagna

A proposito di I. A. (Intelligenza Artificiale).

Ci è sufficientemente chiaro che “intelligenza” non è sinonimo di “sapienza” o “saggezza”?

Ho l’impressione di no.

Se ci fosse chiara questa (in fondo banale) distinzione, forse ci sarebbe ipso facto chiaro (e, invece, vedo che per molti non lo è) che l’I. A. potrà anche superare (e, forse, persino sostituire) l’I U. (Intelligenza Umana), ma non potrà mai sostituire la sapienza e la saggezza, che sono fenomeni tipicamente e solamente umani.

A meno che l’Umanità non decida (in una maniera che certamente non sarà consapevole, ma potrà essere solo l’esito di una deriva inconsapevole) di suicidarsi, scivolando verso un’era che (non a caso) alcuni già definiscono come “post-umana”.

Allo stesso modo di come potrebbe suicidarsi abbandonandosi ad un’escalation bellica sempre più accelerata (come purtroppo sembra stia avvenendo oggi in Ucraina), scivolando ineluttabilmente (e quasi senza accorgersene) verso un conflitto nucleare e mondiale.

© Giovanni Lamagna

Uniti e distinti.

In un rapporto è possibile essere perfettamente uniti e perfettamente distinti allo stesso tempo.

Anche se è una cosa molto difficile da realizzare.

In genere nei rapporti o si è separati di fatto, anche se si è fisicamente vicini, uniti.

O si è addirittura fusi, nel senso di uniti e confusi, senza confini, senza distinzione.

© Giovanni Lamagna

Unità e distinzione nel rapporto.

In un rapporto si può essere perfettamente uniti e allo stesso tempo perfettamente distinti.

Anche se è una cosa molto difficile da realizzare; e, infatti, di rado la si trova nei rapporti.

In genere incrociamo rapporti nei quali i due o sono (di fatto) totalmente separati o sono del tutto fusi.

“Fusi” significa che sono uniti, non possono fare a meno l’uno/a dell’altro/a, ma confusi: nella fusione si perde la propria identità; la relazione genera un tutto indistinto, nel quale le due persone coinvolte perdono i loro confini.

“Separati” significa che in realtà non c’è il rapporto; i due sono di fatto estranei l’uno/a all’altro/a; perché non hanno un rapporto spirituale (ciò che conta di più in un rapporto), pur essendo vicini fisicamente, pur vivendo molto tempo assieme.

© Giovanni Lamagna

Sui concetti di comunità democratica, reciprocità, eguaglianza, condivisione, comune, comunione, identità, setta, raggruppamento

Nel libro “Critica della ragione psicoanalitica” (Ponte alle Grazie, 2020), tra pag. 34 e pag. 35, Massimo Recalcati così scrive: “La condizione per una comunità democratica di eguali non è la reciprocità (mito incestuoso di una società dove “uno vale uno”; secondo Lacan luogo della rivalità immaginaria più oscena), ma l’assenza di reciprocità, ovvero, quello che Facchinelli qui definisce come l’eguaglianza tra i non eguali. In altre parole, seguendo Jean-Luc-Nancy, la condizione della condivisione che rende possibile la vita della comunità come vita aperta è il riconoscimento dell’esistenza dell’incondivisibile; la condizione del “comune” è il riconoscimento dell’assenza del comune, dell’impossibilità di ridurre la comunità a comunione. Nel lessico di Facchinelli si tratta, come vedremo tra poco, del rapporto sempre conflittuale tra tendenza alla settarizzazione e la spinta all’accomunamento che caratterizza la vita di ogni insieme umano.

Ci sono alcuni passaggi in questo testo che non condivido (almeno nella loro formulazione letterale), anche se metto in conto che forse non li ho capiti.

Non capisco, per incominciare, perché una comunità democratica non dovrebbe basarsi sulla “reciprocità”, ma dovrebbe invece fondarsi addirittura sulla “non reciprocità”.

A me (che sono cresciuto da ragazzo in ambito cristiano-cattolico) è stato insegnato “l’amore reciproco” ed io ho sempre pensato che era questo a fondare una qualsiasi forma di raggruppamento comunitario: da quello “di sangue” della famiglia a quello scelto e informale del gruppo di amici, fino a quello (più o meno istituzionale) di una comunità unita da ideali e forme di impegno di vario tipo: umanitario, sociale, intellettuale…

Non capisco, dunque, perché la “reciprocità” sarebbe, invece, inevitabilmente un “mito incestuoso… luogo della rivalità immaginaria più oscena”, come sostiene Lacan.

Certo, non mi sfugge che una comunità possa essere o diventare quello che denuncia Lacan. Non capisco, però, perché lo debba essere necessariamente, inevitabilmente, fatalmente, per sua struttura intrinseca, come mi sembra di leggere nel passo su citato.

Per me la comunità può essere benissimo allo stesso tempo un luogo di legami forti, stretti, di interdipendenza, ed il luogo della distinzione, della individuazione, dei confini netti e ben distinti tra le persone che la compongono, dotate ciascuna di una sua peculiare identità e autonomia.

Sono d’accordo che in una comunità le persone che la compongono non sono (e non debbono essere) uguali, cioè omologate, in quanto ognuna di esse è e deve restare diversa, con sue caratteristiche (e competenze) proprie e specifiche.

Il che non impedisce (o, meglio, non dovrebbe impedire) che esse siano eguali, nel senso profondo, valoriale, assiologico, della parità dei diritti e dei doveri, della “uguale” dignità umana.

Da questo punto di vista l’espressione “uno vale uno” torna ad avere allora un senso e un suo pieno e alto valore sul piano della democrazia (livello istituzionale) oltre che su quello della fraternità (livello dei rapporti interpersonali).

Non capisco inoltre (per continuare il mio commento) espressioni come “la condizione che rende possibile la vita della comunità come vita aperta è il riconoscimento dell’esistenza dell’’incondivisibile” o “la condizione del comune è il riconoscimento dell’assenza del comune, dell’impossibilità di ridurre la comunità a comunione”.

Certo, se esse vogliono dire che in una qualsiasi comunità c’è sempre un quid che non sarà mai del tutto e pienamente condiviso e condivisibile da tutti, se esse vogliono dire che una comunione totale (che poi vorrebbe dire la fusione, la simbiosi totale) è impossibile (e manco auspicabile), sono d’accordo.

Ma allora vanno dette in maniera diversa, meno apodittica e più articolata.

Cosa sarebbe, infatti, una comunità, per quanto aperta e non chiusa essa voglia essere e rimanere nel tempo, se non avesse delle cose (anzi molte cose) da condividere, se non ci fosse un “comune” che la tiene unita, se “comunità” non significasse anche “comunione” di anime e perfino di corpi, di beni spirituali e persino (in alcuni casi) materiali?

Concordo, infine, nel segnalare il rischio che una comunità diventi una setta e nell’indicare l’opportunità che essa rimanga invece sempre aperta e in dialogo con l’esterno, con i diversi e con le diversità.

Ma questo non mi porta a pensare che una comunità possa costituirsi e durare senza una sua identità ben precisa e autonoma, che la distingua da altre comunità.

In altre parole, il termine “identità”, per me, non è sinonimo (ovviamente negativo) di separatismo o, addirittura, di settarismo e di chiusura.

Esistono indubbiamente le identità chiuse, integraliste e intolleranti verso le diversità, ma esistono anche le identità aperte e disponibili al dialogo e al confronto con l’altro da sè.

Di questa “verità”, d’altra parte, ci dà conferma utile anche ciò che accade a livello intrapsichico.

Come ci ha insegnato Erich Erikson, nella vita affettiva di una persona adulta non è possibile l’esperienza dell’intimità, cioè di relazioni salde, calde e significative (quindi potremmo dire – anche e per estensione – l’esperienza della comunità), se la persona non ha raggiunto, al termine della sua adolescenza, una forte e salda identità individuale, se non ha completato il suo percorso di “individuazione”, come avrebbe detto Jung.

© Giovanni Lamagna