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Solitudine e libertà.

Noi esseri umani siamo marcati per sempre da una fondamentale, sostanziale, radicale solitudine.

Nel momento stesso in cui nasciamo, l’Altro – col quale ci siamo identificati durante i nove mesi della vita intrauterina e che quindi non era veramente Altro ma era noi stessi – diventa per noi veramente l’Altro e, quindi, assenza, o, quantomeno, distanza, separazione.

Questa fondamentale condizione di solitudine è però anche la condizione della nostra libertà.

Nella solitudine i nostri atti diventano veramente e solamente nostri; ne siamo noi gli unici autori.

Nella simbiosi con l’Altro non c’era possibilità per noi di compiere atti: i nostri atti li compiva per noi l’Altro.

© Giovanni Lamagna

Questo amore è una camera a gas…

La patologia che talvolta corrompe la coppia madre/bambino (di cui parla Massimo Recalcati in “Le mani della madre” a p.117) può affliggere anche la coppia moglie/marito, femmina/maschio amanti e (perché no?) le coppie omosessuali.

È la patologia della simbiosi, dell’egotismo a due, del legame privo di ogni confine, insofferente di ogni distanza, incapace di ogni separazione.

In questo caso le due individualità che formano la coppia vengono soffocate dalla prigione che si sono create con le loro stesse mani, impedite di crescere, di evolvere, di espandersi come singolarità autonome.

Il legame che unisce la coppia costituisce una sorta di “camera a gas”, come dice una famosa canzone di Gianna Nannini.

© Giovanni Lamagna

Ancora attorno al concetto e all’esperienza di felicità.

Tutti noi abbiamo vissuto un momento in cui eravamo pienamente felici, in cui non desideravamo altro che di “essere”, di “restare”.

In cui non c’era distanza tra “l’essere” e “il voler essere”, in cui non c’era altro da desiderare oltre la condizione che già si viveva.

E quindi manco sapevamo cosa significasse desiderare; in quanto desiderare significa aspirare ad altro da quello che si ha e si è.

Questo momento, questa condizione corrispondono ai nove mesi che abbiamo vissuto all’interno dell’utero di nostra madre, in perfetta e (per i più) felice simbiosi con lei.

Per questo il momento della nascita (di fuoriuscita dall’utero materno) corrisponde a quello che lo psicoanalista Otto Rank, in un libro pubblicato nel 1924, ha definito “un trauma”, il primo trauma che tocca ad ogni uomo vivere.

Se questo è vero (ed io ho una profonda, intima convinzione che sia vero), allora dobbiamo dedurne che la nostra idea di felicità, quella che ce ne siamo fatti dopo, una volta nati e cresciuti, è indissolubilmente, strutturalmente legata a quel periodo; è lì, è allora che essa ha ricevuto il suo imprinting.

E’, dunque, legata al ricordo, anzi al rimpianto o, nel più fortunato dei casi, alla nostalgia di quella condizione e di quel periodo di vita.

La stessa mitologia, presente in molte civiltà (se non in tutte), che ha immaginato un “Eden” o “un’Età dell’oro”, cioè una condizione umana ideale, perfetta, tutta felicità, senza ombre di sofferenza alcuna, che avrebbe preceduto l’avvento della storia, ovverossia una condizione umana, al contrario di quella mitologica, piena di oscurità, conflitti, sofferenze e spesso atrocità, ha, a mio avviso, a che fare (trova lì le sue radici e le sue fondamenta) con questa nostalgia, con questo rimpianto, della vita intrauterina, che ogni uomo ha avuto modo di sperimentare.

Ecco perché il nostro primario, istintivo e ancora non consapevole bisogno/desiderio di felicità si associa, quasi per un riflesso automatico, in primo luogo ad un bisogno/desiderio di fusione perfetta, totale ed assoluta, con un oggetto amato; come a voler recuperare l’antica, primigenia condizione intrauterina.

Fatta questa premessa, credo occorra mettere subito in evidenza che tale associazione/proiezione è però del tutto fantasmatica, illusoria e, pertanto, fallace, fuorviante, perché nessun rapporto d’amore, per quanto profondo e intimo, potrà mai ricostituire l’unità primordiale intrauterina tra madre e figlio.

Non solo; ma ciò che non è più possibile sarebbe addirittura dannoso se, in maniera del tutto ipotetica, cioè contravvenendo alle leggi di natura, si verificasse, si realizzasse.

Perché darebbe origine ad un rapporto asfissiante, predatorio, cannibalico, dove ciò che nei nove mesi di vita intrauterina ha assicurato il maggior benessere possibile alla nuova creatura concepita, toglierebbe invece ai soggetti implicati aria e respiro, ovverossia le condizioni primarie per vivere una vita autenticamente felice.

Dove, allora, cercare la vera, autentica felicità (ammesso che questa esista da qualche parte), al posto di una simile a quella (intrauterina) persa una volta e per sempre?

Qui dico subito in premessa che stiamo parlando della felicità possibile agli esseri umani, della felicità alla loro portata, dunque di una felicità sempre parziale, limitata nel tempo, instabile e precaria, non certo di una felicità totale ed assoluta, che non è destinata ad alcun essere umano, anche il più baciato dalla fortuna.

Questo premesso, allora dico che la felicità possibile agli umani sta, a mio avviso, nella ricerca di una molteplicità di esperienze, anche relazionali, l’una il più possibile diversa dalle altre, da realizzare senza affanni, senza bulimie, senza ingordigie, ma anche senza pigrizie, senza ignavie, senza accidia.

Laddove, infatti, la felicità intrauterina era assicurata, garantita, dall’unità e dalla chiusura, dal rifugio in un nido sicuro e protettivo, l’unica felicità possibile – una volta nati – può essere trovata, invece, solo imboccando la strada esattamente contraria, quella della molteplicità e dell’apertura, da percorrere in campo aperto.

Che, certo, non garantisce, non rassicura, non protegge, come faceva il guscio uterino; ma implica, invece, i rischi dell’ignoto, dell’avventura, e la fatica della ricerca. Ma non ha vere e concrete alternative.

Certo, possiamo illuderci di ritrovare nella nostra vita adulta una nuova figura materna; qui la figura materna è da intendersi come archetipo, non come persona reale: può essere quindi costituita anche da un maschio, non necessariamente da una femmina.

E possiamo illuderci che questa “seconda madre” ci dia lo stesso confort, le stesse rassicurazioni, la stessa protezione, la stessa cura, che ci aveva assicurato la nostra prima madre nei nove mesi della nostra vita intrauterina!

Ma prima o poi saremo costretti a svegliarci (e sarà un amaro, doloroso risveglio) da questo sogno e a prendere consapevolezza della fatua illusione che avevamo coltivato.

© Giovanni Lamagna

Sui concetti di comunità democratica, reciprocità, eguaglianza, condivisione, comune, comunione, identità, setta, raggruppamento

Nel libro “Critica della ragione psicoanalitica” (Ponte alle Grazie, 2020), tra pag. 34 e pag. 35, Massimo Recalcati così scrive: “La condizione per una comunità democratica di eguali non è la reciprocità (mito incestuoso di una società dove “uno vale uno”; secondo Lacan luogo della rivalità immaginaria più oscena), ma l’assenza di reciprocità, ovvero, quello che Facchinelli qui definisce come l’eguaglianza tra i non eguali. In altre parole, seguendo Jean-Luc-Nancy, la condizione della condivisione che rende possibile la vita della comunità come vita aperta è il riconoscimento dell’esistenza dell’incondivisibile; la condizione del “comune” è il riconoscimento dell’assenza del comune, dell’impossibilità di ridurre la comunità a comunione. Nel lessico di Facchinelli si tratta, come vedremo tra poco, del rapporto sempre conflittuale tra tendenza alla settarizzazione e la spinta all’accomunamento che caratterizza la vita di ogni insieme umano.

Ci sono alcuni passaggi in questo testo che non condivido (almeno nella loro formulazione letterale), anche se metto in conto che forse non li ho capiti.

Non capisco, per incominciare, perché una comunità democratica non dovrebbe basarsi sulla “reciprocità”, ma dovrebbe invece fondarsi addirittura sulla “non reciprocità”.

A me (che sono cresciuto da ragazzo in ambito cristiano-cattolico) è stato insegnato “l’amore reciproco” ed io ho sempre pensato che era questo a fondare una qualsiasi forma di raggruppamento comunitario: da quello “di sangue” della famiglia a quello scelto e informale del gruppo di amici, fino a quello (più o meno istituzionale) di una comunità unita da ideali e forme di impegno di vario tipo: umanitario, sociale, intellettuale…

Non capisco, dunque, perché la “reciprocità” sarebbe, invece, inevitabilmente un “mito incestuoso… luogo della rivalità immaginaria più oscena”, come sostiene Lacan.

Certo, non mi sfugge che una comunità possa essere o diventare quello che denuncia Lacan. Non capisco, però, perché lo debba essere necessariamente, inevitabilmente, fatalmente, per sua struttura intrinseca, come mi sembra di leggere nel passo su citato.

Per me la comunità può essere benissimo allo stesso tempo un luogo di legami forti, stretti, di interdipendenza, ed il luogo della distinzione, della individuazione, dei confini netti e ben distinti tra le persone che la compongono, dotate ciascuna di una sua peculiare identità e autonomia.

Sono d’accordo che in una comunità le persone che la compongono non sono (e non debbono essere) uguali, cioè omologate, in quanto ognuna di esse è e deve restare diversa, con sue caratteristiche (e competenze) proprie e specifiche.

Il che non impedisce (o, meglio, non dovrebbe impedire) che esse siano eguali, nel senso profondo, valoriale, assiologico, della parità dei diritti e dei doveri, della “uguale” dignità umana.

Da questo punto di vista l’espressione “uno vale uno” torna ad avere allora un senso e un suo pieno e alto valore sul piano della democrazia (livello istituzionale) oltre che su quello della fraternità (livello dei rapporti interpersonali).

Non capisco inoltre (per continuare il mio commento) espressioni come “la condizione che rende possibile la vita della comunità come vita aperta è il riconoscimento dell’esistenza dell’’incondivisibile” o “la condizione del comune è il riconoscimento dell’assenza del comune, dell’impossibilità di ridurre la comunità a comunione”.

Certo, se esse vogliono dire che in una qualsiasi comunità c’è sempre un quid che non sarà mai del tutto e pienamente condiviso e condivisibile da tutti, se esse vogliono dire che una comunione totale (che poi vorrebbe dire la fusione, la simbiosi totale) è impossibile (e manco auspicabile), sono d’accordo.

Ma allora vanno dette in maniera diversa, meno apodittica e più articolata.

Cosa sarebbe, infatti, una comunità, per quanto aperta e non chiusa essa voglia essere e rimanere nel tempo, se non avesse delle cose (anzi molte cose) da condividere, se non ci fosse un “comune” che la tiene unita, se “comunità” non significasse anche “comunione” di anime e perfino di corpi, di beni spirituali e persino (in alcuni casi) materiali?

Concordo, infine, nel segnalare il rischio che una comunità diventi una setta e nell’indicare l’opportunità che essa rimanga invece sempre aperta e in dialogo con l’esterno, con i diversi e con le diversità.

Ma questo non mi porta a pensare che una comunità possa costituirsi e durare senza una sua identità ben precisa e autonoma, che la distingua da altre comunità.

In altre parole, il termine “identità”, per me, non è sinonimo (ovviamente negativo) di separatismo o, addirittura, di settarismo e di chiusura.

Esistono indubbiamente le identità chiuse, integraliste e intolleranti verso le diversità, ma esistono anche le identità aperte e disponibili al dialogo e al confronto con l’altro da sè.

Di questa “verità”, d’altra parte, ci dà conferma utile anche ciò che accade a livello intrapsichico.

Come ci ha insegnato Erich Erikson, nella vita affettiva di una persona adulta non è possibile l’esperienza dell’intimità, cioè di relazioni salde, calde e significative (quindi potremmo dire – anche e per estensione – l’esperienza della comunità), se la persona non ha raggiunto, al termine della sua adolescenza, una forte e salda identità individuale, se non ha completato il suo percorso di “individuazione”, come avrebbe detto Jung.

© Giovanni Lamagna

Madre-coccodrillo e amanti-coccodrillo

Leggendo “Le mani della madre” di Massimo Recalcati

Nel libro “Le mani della madre”, Massimo Recalcati (pag. 116-117) così scrive:

Abbiamo già mostrato come l’Altro materno non sia affatto esente da profonde ambivalenze…

E’ stato in particolare Lacan – sulle orme di Melanie Klein – a inoltrarsi verso una rappresentazione più inquietante del desiderio materno proponendo di accostarlo alla bocca spalancata di uno spaventoso coccodrillo. In questa versione la madre, anziché fungere da riparo dell’angoscia, la provoca, la scatena, diventa un’incarnazione terrificante della minaccia che rende instabili sia il mondo esterno che quello interno.

La tesi di Lacan è che nell’inconscio di ogni madre – foss’anche di quella più amorevole e dedita sinceramente al bene dei propri figli – , nella struttura stessa del suo desiderio, risieda una spinta indomita a fagocitarli. Ecco l’immagine della bocca di coccodrillo spalancata che li vorrebbe divorare voracemente.

… In primo piano è ancora la tendenza incestuosa del desiderio materno: una madre vorrebbe divorare il proprio frutto, rimetterlo dentro di sé, incorporarlo, appropriarsene integralmente; vorrebbe conoscere tutto dei suoi figli, godere del loro corpo, rivendicare un diritto assoluto di proprietà, leggere nei loro pensieri…

… Si tratta di una forma chiaramente perversa del desiderio materno con la quale la clinica psicoanalitica spesso si confronta. In questo senso anche Franco Fornari, sulla scia di Lacan, riteneva che “quando il codice materno tende a perdurare al di là del periodo in cui è funzionale, allora mette in grave pericolo la femminilità” e, di conseguenza, il processo di differenziazione tra il bambino e la madre…

… Gli effetti sono quelli di una confusività che cancella ogni differenziazione simbolica…

… Quando l’amore materno può degradarsi in questo modo? Quando la madre si perde nei propri figli, vive solo per loro, vi si dedica senza limiti. Quando la responsabilità della maternità lascia il posto a una spinta alla divorazione, solitamente reciproca, di madre e figlio: la madre assorbe il bambino che assorbe la madre. L’amore materno sfocia allora in un’incorporazione che può raggiungere il suo punto più estremo nel passaggio all’atto omicida o in una presenza soffocante che non lascia alcuna libertà al soggetto. In diversi episodi di cronaca ci troviamo di fronte all’orrore di questa trasformazione dell’amore materno in violenza omicida. La clinica psicoanalitica mostra come il passaggio all’atto infanticida e, più in generale, i maltrattamenti infantili di ogni genere abbiano molto spesso come loro matrice una coppia madre-bambino che prescinde da ogni riferimento a un terzo capace di assicurare un limite al desiderio materno.

L’esistenza di questo limite dovrebbe essere stabilita innanzitutto dal legame amoroso da cui la vita del figlio scaturisce e che separa l’esistenza della donna da quella della madre. Senza una sufficiente distanza tra la madre e la donna, la madre e il bambino si confondono, si annullano reciprocamente, dando luogo a una simbiosi mortifera o a una conflittualità colma di odio e di violenza. In questi casi non è solo la madre che divora il bambino, ma – consacrando follemente la sua vita a quella del figlio – è la donna che viene divorata dalla madre. Se il bambino esaurisce l’orizzonte del mondo – se la madre cancella la donna – , il figlio diviene un oggetto che richiude il desiderio della donna sul desiderio della madre. Il mondo allora si contrae in un mondo chiuso e la diade madre-figlio diventa il modello di una relazione che non può sopportare alcuna forma di separazione. Ma un legame senza separazione viene privato di ogni forza espansiva e generativa ed è destinato fatalmente a scivolare in un incollamento reciproco privo di desiderio.

La riflessione, che vorrei introdurre a partire da questo testo e che mi è balzata alla consapevolezza quasi come una libera associazione mentre lo leggevo, è che la dinamica di cui parla Recalcati, sulla scorta dell’insegnamento di Lacan e, prima ancora, di Melanie Klein, la dinamica che talvolta corrompe la coppia madre-bambino, la dinamica della madre-coccodrillo, la si ritrova non poche volte – pari, pari – anche nelle coppie di amanti.

Anche gli amanti hanno talvolta la tendenza a fagocitarsi. A volte questa tendenza è presente in entrambi, altre volte è maggiormente presente in uno dei due e l’altro la subisce.

La mia tesi è che nell’inconscio di ogni amante, fosse anche il più rispettoso della libertà e dell’autonomia dell’altro/a, nella struttura stessa del suo desiderio, risieda una spinta (più o meno esplicita, più o meno latente) a fagocitare l’altro/a.

Non a caso un’espressione tipica e frequente tra gli amanti (che la rende benissimo) è la seguente: “Ti prenderei a morsi! Ti mangerei tutto/a!”.

Per cui l’immagine della bocca di coccodrillo spalancata, che vorrebbe divorare voracemente l’altro/a, si adatta non solo alla madre col bambino, ma talvolta anche agli amanti di una coppia o ad uno/a solo/a di essi.

Ci sono pagine e pagine della letteratura oltre che quelle della cronaca giornaliera che ci rendono conto e prova dell’esistenza di una tale dinamica, neanche poi tanto rara, anche se varia e diversificata nelle forme e nella intensità.

Nei casi estremi e più gravi di questa dinamica ciascun amante o anche uno solo dei due vorrebbe divorare l’altro/a, incorporarlo, appropriarsene integralmente; vorrebbe conoscere tutto di lui, non solo godere del suo corpo, ma rivendicare un diritto assoluto di proprietà su di esso, addirittura leggere nei suoi pensieri.

Anche qui, come nel caso del rapporto “bambino/madre-coccodrillo”, “gli effetti sono quelli di una confusività che cancella ogni differenziazione simbolica”.

Si tratta – a mio avviso – di una forma chiaramente perversa del modo di intendere e di vivere l’amore erotico, con la quale non saprei dire se tutti gli psicoanalisti si confrontano allo stesso modo e nella stessa misura con cui si confrontano con quella della “madre-coccodrillo”.

Perché c’è il rischio che questo modo divorante, incorporante, possessivo, proprietario, di vivere il sentimento erotico venga inteso come facente parte della natura stessa di questo sentimento, come un suo tratto distintivo e imprescindibile e non una sua perversione patologica.

Mentre è una evidente manifestazione patologica. In una tale situazione i confini tra i due amanti tendono ad annullarsi, viene a crearsi una simbiosi, quella che Eric Fromm definisce “egotismo a due”: l’uno/a non vive senza l’altro/a e viceversa.

La conseguenza è che un poco alla volta viene ad estinguersi anche la stessa creatività iniziale del rapporto e per conseguenza (paradossalmente) lo stesso erotismo, che progressivamente degrada in stanca routine e noiosa assuefazione reciproca.

Non è difficile andare a rintracciare le cause di tali comportamenti, che sicuramente risalgono all’infanzia delle persone che li mettono in atto.

La causa più comune (che in un certo senso le riassume tutte) è un mancato amore o un amore sbagliato ricevuto in età infantile, soprattutto dalle due figure genitoriali o anche da una sola di esse.

E’ probabile, per fare giusto l’esempio più direttamente connesso al discorso di Recalcati, che il figlio o la figlia di una madre-coccodrillo si comporterà in amore, nel suo rapporto di coppia, nei confronti del suo partner o della sua partner, con le stesse modalità fagocitanti e incorporanti che la madre aveva nei confronti del figlio o della figlia.

Molto semplicemente perché non ne conosce altre: per lui/lei “l’amore” è quello che gli/le ha dato la madre quando lo ha allattato e allevato.

Può succedere anche che chi ha “subito” questo tipo di amore da sua madre tenda a cercarlo uguale nel/la partner con il/la quale si accoppierà una volta diventato “adulto/a”.

A questo punto resta da chiedersi: quando l’amore erotico si degrada a tal punto da poter essere definito “amore coccodrillo”?

La mia risposta è: quando uno dei due partner si perde totalmente nell’altro, vive solo per lui/ei, vi si dedica senza limiti. Quando la responsabilità dell’amore erotico lascia il posto a una spinta alla divorazione, che, se non solitamente, spesso è reciproca. Quando l’amante assorbe l’amato che a sua volta assorbe l’amante.

L’amore erotico sfocia allora in un’incorporazione che può raggiungere il suo punto più estremo nel passaggio all’atto omicida o in una presenza soffocante che non lascia alcuna libertà al soggetto.

In diversi episodi di cronaca ci troviamo di fronte all’orrore di questa trasformazione dell’amore erotico in violenza omicida.

Anche qui, a mio avviso, come nel caso dell’infanticidio citato da Recalcati, la clinica psicoanalitica potrebbe mostrare come il passaggio all’atto omicida (più spesso, femminicida) e, più in generale, i maltrattamenti (anche fisici, oltre che psicologici) inflitti al coniuge abbiano molto spesso come loro matrice una coppia che prescinde da ogni riferimento a un “terzo” capace di assicurare un limite al loro desiderio reciproco (o a quello di uno solo dei due verso l’altro/a).

Solo che, mentre nel caso del rapporto madre-bambino, “l’esistenza di questo limite dovrebbe essere stabilita innanzitutto dal legame amoroso da cui la vita del figlio scaturisce e che separa l’esistenza della donna da quella della madre”, nel caso del rapporto di coppia erotica il limite dovrebbe essere costituito per ciascuno dei due partner dall’esistenza di un mondo di interessi e di affetti (oserei dire perfino erotici) che non si esaurisce nel loro rapporto di coppia.

Senza una sufficiente distanza tra la dimensione di “amante” e quella di “donna” o “uomo” complessivamente intesi, i due partner si confondono, si annullano reciprocamente, dando luogo a una simbiosi mortifera o a una conflittualità colma di odio e di violenza.

In questi casi non è solo “l’amante” che divora il compagno o la compagna, ma – quando si consacra follemente la propria vita a quella del partner – è “la dimensione donna” o “la dimensione uomo” che vengono divorati dalla “dimensione amante”.

Se “l’amante” esaurisce l’orizzonte del mondo – se “l’amante” cancella “l’uomo” o “la donna” – , “l’amante” diviene un oggetto che richiude il desiderio dell’”uomo” o della “donna” sul desiderio dell’”amante”.

Il mondo allora si contrae in un mondo chiuso e la diade erotica diventa il modello di una relazione che non può sopportare alcuna forma di separazione, diventa, come dice appunto Fromm, una diade egotica.

Ma un legame senza separazione viene privato di ogni forza espansiva e generativa ed è destinato fatalmente a scivolare in un incollamento reciproco privo di desiderio.

Come si vede, nell’argomentare la mia tesi iniziale, ho utilizzato (quasi) le stesse frasi adoperate da Recalcati per descrivere la dinamica madre-coccodrillo/bambino. Ho dovuto cambiare solo poche, pochissime parole.

Non ho voluto modificare (per scelta consapevole) non solo lo schema concettuale, ma neanche (se non in minima parte) lo stesso lessico, la stessa grammatica e la stessa sintassi del discorso fatto da Recalcati sulla madre-coccodrillo.

Quasi per dare l’idea plastica (e spero la dimostrazione) di come le due dinamiche siano molto simili. Ed anche perché (lo confesso) non avrei saputo descrivere meglio la seconda, senza ricorrere alla magistrale descrizione che Recalcati fa della prima.

Di questo ovviamente sono riconoscente a Massimo Recalcati, che spessissimo offre importanti, anzi decisivi, stimoli alle mie riflessioni.

© Giovanni Lamagna

L’amore sbagliato

L’amore è “sbagliato” quando, ad esempio, è incapace di pronunciare dei no al/lla figlio/a che si pensa di amare.

O di porre dei limiti alla persona che si dice di amare.

Di conservare la propria indipendenza e di preservare l’indipendenza della persona che si pensa di amare.

L’amore è “sbagliato” quando viene immaginato come fusione, come simbiosi con la persona “amata”.

© Giovanni Lamagna

Incontro andato a vuoto.

Incontro andato a vuoto.

 

Ti ho dato appuntamento

in un luogo

dove non mi hai mai raggiunto.

Hai preferito restartene lì

a coltivare vecchi rapporti

antiche amicizie

la simbiosi con tua figlia.

E il luogo dove io ti attendevo

è rimasto deserto.

Ora sono solo

mi sento solo.

La nostra coniunctio

è fallita.

Siamo rimasti separati

anzi lontani.

Tu dov’eri

prima di incontrarmi.

Io dove ti aspettavo

disperatamente solo.

 

Giovanni Lamagna

Le stagioni della vita.

Le stagioni della vita.

 

La vita è fatta, come sappiamo bene tutti, di stagioni.

Per la maggioranza degli uomini ci sono stagioni più belle ed altre più brutte.

La loro bellezza o bruttezza sarebbe congenita, segnata dalla biologia e fisiologia, in altre parole dalla natura.

Sempre per la maggioranza degli uomini, le stagioni più belle sarebbero l’infanzia, la fanciullezza e la giovinezza.

Quella indubitabilmente (?) più brutta la vecchiaia.

Per me, invece, che oramai le ho attraversate tutte e sono all’ultima tappa del mio viaggio, non c’è una stagione più bella e una più brutta. Ogni stagione della vita ha le sue bellezze e le sue pene, le sue gioie e i suoi dolori, le sue allegrie e le sue tristezze.

L’infanzia è, infatti, la stagione della “beata” incoscienza.

Ma anche della dipendenza dagli altri, anzi della simbiosi con le figure genitoriali, specie con la figura materna. Quindi dell’assenza totale di autonomia e libertà.

La fanciullezza è essenzialmente l’età della spensieratezza e del gioco, delle prime scoperte, quindi della meraviglia.

Ma il fanciullo è ancora fondamentalmente dipendente dagli altri, specie dai suoi genitori. Quindi è poco o per niente libero. Non può ancora godere, pertanto, se non in misura molto limitata, di beni preziosi come l’autonomia e la libertà che ne consegue.

L’adolescenza è l’età del distacco dalle figure genitoriali, quindi dell’inizio dell’indipendenza.

Ma, spesso, anche della frustrazione dei desideri, cui si collegano ribellione e rabbia.

E’ l’età della scoperta del sesso e dell’eros.

Ma anche dei turbamenti che tale scoperta comporta. Oltre che dell’inadeguatezza tra desiderio erotico/sessuale e possibilità concrete, pratiche di soddisfarlo.

La giovinezza è l’età della massima vitalità sessuale ed erotica, della fine degli studi e della ricerca del lavoro e, quindi, della piena autonomia psicologica, oltre che economica. E’, forse, l’età del massimo edonismo.

Ma anche delle ansie dovute alla propria inesperienza del mondo e alle incertezze sul proprio futuro.

La maturità è (o dovrebbe essere) l’età del pieno esercizio del sesso e dell’eros, della procreazione, del lavoro avviato e consolidato, dei riconoscimenti professionali, dell’impegno sociale e politico.

Ma è anche l’età in cui bisogna faticare di più e sperimentare, praticare il senso di responsabilità (che comporta oneri e inquietudini oltre che onori e gioie) verso di sé e,( forse, soprattutto) verso gli altri.

La vecchiaia è l’età dei bilanci, a volte tristi, a volte allegri, ma sempre in qualche modo melanconici.

E’, infine, l’età del distacco e delle separazioni, in preparazione (si spera non troppo angosciosa) del distacco e della separazione ultimi, definitivi.

Ma può essere anche (almeno per alcuni fortunati) l’età della meditazione e della contemplazione.

La vecchiaia, dunque, non è destinata ad essere fatalmente la stagione più brutta della vita. Perché può essere l’età della serenità massima o della depressione massima.

Il suo esito non è predestinato: dipende molto da come si sono vissute le stagioni della vita che la precedono.

Ognuno dunque si ritrova (si potrebbe dire un po’ cinicamente) la vecchiaia che si è meritato. O, meglio, forse, quella che è stato capace (in base al suo patrimonio genetico e al contesto familiare, sociale, ambientale in cui è vissuto) di costruirsi con gli anni dell’intera sua vita.

 

Giovanni Lamagna

Saggezza, solitudine, amicizia.

4 luglio 2015

Saggezza, solitudine, amicizia.

Quando un uomo sa più degli altri diventa solitario. Ma la solitudine non è necessariamente nemica dell’amicizia, perché nessuno è più sensibile alle relazioni che il solitario; e l’amicizia fiorisce soltanto quando ogni individuo è memore della propria individualità e non si identifica con gli altri.” (Carl Gustav Jung)

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Trovo molto giusto e profondo, quindi particolarmente condivisibile, questo pensiero di Jung. Provo a interpretarlo sulla base della mia esperienza.

Innanzitutto: che cosa dobbiamo intendere con l’espressione “quando l’uomo sa più degli altri”?

Non credo che Jung si riferisse all’uomo erudito, cioè all’uomo che possiede molte nozioni, molte conoscenze. E credo che non si riferisse manco all’uomo colto, che è persona diversa dall’erudito. Questi, infatti, è una persona che ha accumulato molti dati e conoscenze, ma è incapace di coglierne i nessi e di interpretarli. L’uomo di cultura è una persona che, oltre a possedere dati e conoscenze, è capace di coglierne i nessi e di interpretarli.

Ma “l’uomo che sa più degli altri”, a cui pensa Jung, è forse ancora un’altra cosa. Magari non è manco un uomo colto e neanche un erudito. E’ però un sapiente, un saggio, un uomo che non ha vissuto invano, perché ha saputo trarre tesoro dalle esperienze fatte, un uomo che vede le cose del mondo con grande partecipazione ed allo stesso tempo con distacco, un uomo che è entrato nelle cose e ne ha colto il senso misterioso, quel senso che sfugge finanche all’uomo colto, per non parlare di quello semplicemente erudito.

L’uomo che sa più degli altri” spesso è un po’ solitario – dice Jung.

Io aggiungo: non perché gli piaccia la solitudine, ma proprio perché vede cose che gli altri non vedono.

E vede cose che gli altri non vedono perché frequenta luoghi che gli altri non frequentano, luoghi insoliti, luoghi (appunto) solitari.

E perché questi luoghi sono solitari? Perché sono nascosti, perché per arrivarci ci vuole fatica, in certi casi coraggio, perché bisogna inerpicarsi, arrampicarsi, non li si raggiunge in discesa e manco in pianura.

Ma perché, se questi luoghi sono così impervi, attirano tanto l’uomo saggio? Semplice! Perché da questi posti (solitamente situati in alto) si gode di un panorama, che non si può ammirare quando si resta in pianura, e si respira un’aria incomparabile con quella che si respira in paese o in città, dove preferiscono fermarsi la maggior parte degli altri uomini.

L’uomo che sa più degli altri” è, dunque, un po’ solitario. Ma – dice Jung – “la solitudine non è necessariamente nemica dell’amicizia”.

L’uomo che sa più degli altri”, infatti, non è un misantropo. Anzi è profondamente innamorato dell’umanità e degli altri. Sa rapportarsi agli altri, solo che non lo fa secondo gli schemi comuni e convenzionali.

Chi è in grado di fare altrettanto troverà in lui un grande amico, un animo gentile, generoso, perfino un conversatore profondo e amabile.

Che cos’è, infatti, l’amicizia? Lo dice bene Jung: “l’amicizia fiorisce soltanto quando ogni individuo è memore della propria individualità e non si identifica con gli altri.

In altre parole: l’amicizia non è simbiosi, non è dipendenza, non è possesso, non è volontà di dominio.

Mentre, secondo il pensare e sentire comune, l’amicizia viene intesa proprio in questo modo: come simbiosi con l’altro/a, dipendenza dall’altro/a, possesso dell’altro/a, dominio sull’altro/a.

L’intimità con l’altro/a (cioè l’amicizia, ma potremmo dire anche l’amore, che per me, nella loro essenza, sono la stessa cosa), come mise ben in evidenza a suo tempo Erik Erikson, presuppone una identità integra, salda. Quindi la capacità di stare da soli.

Perciò chi è abituato alla solitudine, chi è un “solitario” (e “l’uomo che sa più degli altri” lo è) è anche l’individuo più idoneo, meglio capace di fare amicizia.

Giovanni Lamagna