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Le due donne fondamentali nella vita di Carl Gustav Jung.

Chi conosce la vita di Carl Gustav Jung sa bene che egli fu un bigamo dichiarato: ebbe contemporaneamente due relazioni amorose, potremmo dire entrambe pubbliche (anche la seconda per niente clandestina) con due donne.

Due relazioni entrambe molto intense e, quindi, importanti, anzi fondamentali nella sua vita.

La prima fu quella con Emma Rauschenbach (18821955), di sette anni più giovane di lui, con la quale contrasse matrimonio nel 1903, che gli diede cinque figli e che gli premorì, uccisa da un cancro, a 73 anni, nel 1955, quindi sei anni prima di lui.

Emma Rauschenbach era figlia di un ricco industriale svizzero, Johannes Rauschenbach, proprietario di una fabbrica di orologi di lusso.

Alla morte del padre avvenuta nel 1905, Emma e sua sorella, insieme ai loro mariti, divennero proprietari della fabbrica e questo assicurò alla famiglia Jung per decenni una notevole base sicura dal punto di vista economico.

Emma incontrò Carl Gustav nel 1896, quando aveva appena 14 anni ed era ancora una studentessa; lo sposò – come già detto – sette anni più tardi, il 14 febbraio 1903.

Emma si interessò molto al lavoro di suo marito (che supportò economicamente, grazie alla eredità ricevuta dal padre), divenne anche lei un importante psicoanalista, fu tra i fondatori del Club di psicologia analitica di Zurigo, di cui tenne la presidenza dal 1916 al 1920, curò la pubblicazione delle opere del marito per tutta la sua vita, svolse alcune ricerche intorno alla leggenda del sacro Graal, che furono pubblicate postume in due saggi, curati da Marie Louise von Franz.

La seconda relazione fu quella con Toni Wolf (1888-1953); Toni nacque a Zurigo, anche lei in una famiglia benestante, primogenita di tre figlie.

“Fu incoraggiata dai genitori a seguire i propri interessi intellettuali e di studio, dedicandosi a filosofia, mitologia e astrologia”, ma le fu poi impedito di iscriversi all’università, poiché il padre non trovava questo ambiente adatto a una ragazza; “tuttavia lei seguì lo stesso dei corsi pur senza iscriversi”.

“Nel dicembre del 1909 il padre morì e Toni, che aveva allora 21 anni, entrò in depressione; si recò allora in cura da Jung”, che apprezzò subito il “naturale acume della sua intelligenza” oltre alla sua “sensibilità psicologica davvero geniale” e la fece diventare una delle sue principali collaboratrici.

Ben presto, però, attorno al 1913, tra i due il rapporto da professionale divenne anche amoroso.

Sulle prime la moglie di Jung, Emma, ne fu profondamente ferita, col tempo però riuscì ad accettare la presenza importante di un’altra donna nella vita erotica e sessuale del marito, per cui venne a costituirsi un vero e proprio, perfino dichiarato e pubblico, menage a trois.

Toni Wolf morì improvvisamente il 21 marzo 1953, all’età di 64 anni; Jung gli sopravvivrà di otto anni.

Questa ricostruzione (fonte principale Wikipedia) della dimensione privata ed affettiva della vita di Jung avrebbe ben scarso interesse, se non le si accompagnasse l’analisi delle motivazioni e delle ragioni profonde su cui essa si poggiava; almeno dal punto di vista di Jung.

In questo senso ci aiutano molto tre pagine (185, 186 e 187) del libro uscito di recente a firma di Aniela Jaffé, la segretaria di Jung e una delle sue principali collaboratrici, intitolato “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023).

Qui Jung parla in maniera sufficientemente estesa del suo rapporto sia con l’una che l’altra donna della sua vita e ne descrive le rispettive psicologie; molto diverse, forse persino opposte; dato questo che spiega a mio avviso l’attrazione che Jung provava contemporaneamente sia per l’una che per l’altra.

Jung descrive Toni come una donna la cui “inclinazione era totalmente terrena”, che “era però diventata molto intellettuale”; per cui il “suo carattere era sovente forzato e innaturale”; voleva in altre parole, mi verrebbe di dire, essere quella che non era; Jung dice che “si opponeva al suo destino, al suo essere terrena, al suo essere di questo mondo.” (p. 185)

Secondo Jung, perciò “avrebbe dovuto dire a sé stessa: “Mi sono lasciata sfuggire un pezzo di vita”. Ma finché visse l’aveva a lungo negato. Solo gradualmente – ma troppo tardi – riuscì a riconoscerlo lei stessa.; e questo richiese un alto grado di onestà e coraggio. Però in quel momento lei non fu più in grado di raggiungere il pezzo mancante della sua vita. Fu questa la sua tragedia.” (p.185)

Se esistesse la reincarnazione, dice Jung “per Toni essa dovrebbe realizzarsi nella direzione di un’accresciuta appartenenza a questo mondo e di una vicinanza alla natura. E questo si è evidenziato anche nei sogni che ho avuto su di lei dopo la sua morte.” (p. 185)

Nei sogni che la riguardavano avevo sempre la sensazione di una realtà e di una vitalità impressionanti. Mia moglie appariva nei sogni molto più lontana. Toni appariva assolutamente viva e vicina alla realtà.

Una volta ebbi un sogno molto suggestivo: lei si trovava in Italia, in una campagna dell’Umbria, occupata a lavorare come contadina insieme ad altri agricoltori. Era proprio quello che le si sarebbe voluto augurare, perché ci si poteva immaginare che lì sarebbe guarita. (p.185)

Era abbronzata dal sole e straordinariamente vitale, come in realtà non era mai stata. Adesso veniva in primo piano tutto il suo lato ctonio-corporeo. Lei si sentiva naturale e semplice. Era interamente terra, totalmente ctonia, aveva persino i tratti pagani della contadina meridionale. In quei luoghi la gente è molto legata alla terra. (p. 186)

Del tutto diversa, anzi per molti versi opposta, la figura di Emma, la moglie di Jung, che egli descrive come una persona legata pienamente al “mondo spirituale”, destinata “a evolversi lungo la linea spirituale”.

Come evidenziato dai sogni che Jung ebbe dopo la sua morte e che lo svegliavano di soprassalto “sapendo che ero stato da lei e che avevamo trascorso l’intera giornata in Provenza, dove lei stava lavorando ai suoi studi sul Graal.

In conclusione e per segnare la netta differenza tra la personalità dell’una e dell’altra Jung afferma: “Sentivo che mia moglie si trovava nel mondo spirituale. Toni era invece in un mondo ctonio.” (p. 186); cioè non solo terreno, ma addirittura sotterraneo, infero.

Come risulta evidente da questi – brevi ma molto significativi – ricordi autobiografici, le due figure di Emma e di Toni corrispondevano, dunque, a due aspetti/bisogni/aspirazioni molto diversi dell’uomo Jung, che molto difficilmente avrebbero potuto trovare corrispondenza adeguata in una donna sola.

Come scrive Aniella Jaffé nel suo testo a chiosa delle parole che le aveva appena riferito Jung, Emma, la moglie, fu, per il fondatore della psicologia analitica, “il grande fondamento della casa e, come madre di cinque figli e nonna di una schiera di nipoti, anche il fondamento della sua famiglia.”; la base sicura non solo sul piano affettivo e spirituale, ma anche su quello materiale, come abbiamo già detto persino economico.

Grazie alla sua forza psichica e all’autonomia del suo spirito, lei gli offrì nei periodi più difficili “un punto d’appoggio in questo mondo”.”, pur avendo una psicologia –come l’ha descritta lo stesso Jung – fortemente incline alla spiritualità.

Gli fu talmente devota da riuscire a superare la sua iniziale gelosia nei confronti dell’amante del marito Toni Wolff e concedere al coniuge quello “spazio vitale” (p. 68) di libertà e di autonomia di cui egli aveva indispensabile bisogno per svolgere il suo lavoro.

Allo stesso tempo fu capace, con grande coraggio e intelligenza emotiva, di compiere un autonomo percorso evolutivo e di individuazione, che la portò ad un certo punto ad affermare, lucidamente e onestamente, del marito: “Lui mai ha portato via a me qualcosa per darla a Toni. Al contrario più dava a lei più sembrava in grado di dare a me.” (p. 187).

Toni Wolff, pur essendo una natura fondamentalmente terragna, più donna del Sud che del Nord (al contrario di Emma Rauschenbach, donna tipicamente nordica) fu per Jung la compagna privilegiata “nella sua indagine dell’inconscio e del mondo interiore”; svolse “un ruolo analogo a quello che la soror mistica svolge nell’Opus alchemicum.

Dalle cose che ho fin qui riportato credo che risulti evidente come entrambe queste due donne abbiano svolto un ruolo fondamentale nella vita privata (emotiva-affettiva-spirituale), e in quella pubblica (professionale- intellettuale-scientifica) di Jung; e credo si spieghi bene, quindi, come egli non potesse prescindere da nessuna delle due.

Per cui – mi viene da chiosare – sembra avere conferma, in questo singolare menage a trois, una riflessione, che ho trovato di recente in un romanzo che sto leggendo in questi giorni e che mi sembra perciò opportuno, significativo, citare a conclusione di questo mio articoletto:

… la persona giusta non esiste…

Non esiste né in terra né in cielo né da nessun’altra parte… Esistono soltanto le persone e in ognuna c’è un pizzico di quella giusta, ma in nessuna c’è tutto quello che ci aspettiamo e speriamo. Nessuna racchiude in sé tutto questo, e non esiste quella certa figura, l’unica, la meravigliosa, la sola che potrà darci la felicità. Esistono soltanto delle persone, e in ognuna ci sono scorie e raggi di luce, tutto…” (Sandor Marai; da “La donna giusta”; Adelphi edizioni 2017; p. 125)

© Giovanni Lamagna

Paura della morte.

Per mia esperienza personale posso dire che dopo i 70 anni si entra in una fase del tutto nuova della vita: si incomincia ad avere paura seriamente della morte.

Perché la si avverte non più come una realtà lontana, futura remota, che riguarda altri, ma come una realtà vicina, futura prossima, che ci riguarda direttamente.

Sarà perché siamo costretti a partecipare sempre più spesso ai funerali di nostri coetanei; e allora diventa naturale chiedersi: quando verrà anche il mio momento?

Si entra perciò in uno stato d’animo latente e diffuso di allarme: ogni più piccolo sintomo ci appare come anticipatore (possibile) di un qualche grave male.

Anche l’estrazione di un dente lo viviamo come il segnale di un tempo che si consuma irreversibilmente e sempre più velocemente; e che, soprattutto, non tornerà mai più.

© Giovanni Lamagna

La comunicazione epistolare ai tempi di Kafka e la comunicazione sui social oggi.

Leggo che Kafka odiava “le lettere, sosteneva che tutta l’infelicità della sua vita proveniva proprio dalla possibilità di scriverle”.

Era convinto che la felicità di intrattenere rapporti epistolari avesse portato “nel mondo uno spaventevole scompiglio delle anime.”

Parlava di contatto tra fantasmi, e non solo col fantasma del destinatario, ma anche col proprio, che si sviluppa tra le mani nella lettera che stiamo scrivendo, o magari in una successione di lettere, dove una conferma l’altra e ad essa può appellarsi per testimonianza.

Si domandava come fosse mai nata l’idea che gli uomini possano mettersi in contatto fra loro in questo strano modo, dal momento che “a una creatura umana distante si può pensare e si può afferrare una creatura umana vicina, tutto il resto sorpassa le forze umane.” (da Fabrizio Coscia; “Soli eravamo”; pag. 206).

Mi chiedo cosa avrebbe pensato (e scritto) Kafka oggi a proposito dei social, ad esempio di facebook.

Dove entrano in contatto persone che in moltissimi casi non si sono mai incontrati fisicamente, manco mezza volta, che il più delle volte non manifestano nessuna voglia di incontrarsi de visu, neppure in futuro, e che pure si scrivono spesso fittamente (elogiandosi, criticandosi, amandosi, innamorandosi, litigando ferocemente…), magari sapendo quasi nulla o ben poco l’uno/a dell’altro/a.

Mi dico e chiedo: se Kafka giudicava che fosse per gli uomini del suo tempo uno strano modo di mettersi in contatto tra di loro quello di scriversi lettere, come avrebbe giudicato quello degli uomini d’oggi di comunicare tra loro attraverso le email o facebook o istantgram o tweet?

© Giovanni Lamagna