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La vita: luci e ombre.

La vita è tutta bella?

Certo che no: non si può proprio dire!

Perché della vita fanno parte mille dolori.

Quelli delle malattie, innanzitutto, e poi quelli dei distacchi e delle separazioni; i dolori delle guerre, degli odi, delle maldicenze….

E, soprattutto, perché la vita si conclude con la morte, che è il massimo dei dolori e delle perdite.

Ma allora la vita è solo brutta?

E questo manco si può dire.

Perché la vita della maggior parte di noi è punteggiata di piaceri e di gioie, almeno quanto di dispiaceri e dolori.

Di amori ed amicizie, almeno quanto di odi e inimicizie.

Di incontri e di ritrovamenti, almeno quanto di distacchi e separazioni.

Di pace e di serenità, almeno quando di scontri e di conflitti.

La vita è fatta di stagioni; di stagioni “belle” e di stagioni “brutte”; di estati e primavere, come di autunni e inverni.

Si amano e si godono appieno quelle belle, sapendo che verranno, prima o poi, quelle brutte.

Così come ci si prepara a quelle brutte e ci si attrezza per affrontarle al meglio, quando si sta godendo di quelle belle.

© Giovanni Lamagna

Famiglia e comunità.

Più vado avanti e più prendo atto che la dimensione della famiglia borghese (sia nella sua versione più antica e tradizionale – quella patriarcale – sia in quella più moderna e recente – la famiglia nucleare) mi sta stretta, non corrisponde più alle mie aspirazioni più profonde, ammesso che vi abbia mai corrisposto.

La mia dimensione ideale, quella nella quale oggi mi riconosco di più e che mi esprimerebbe appieno, è la dimensione della comunità.

Un luogo (spirituale prima che materiale) nel quale più persone fanno vita comune, auspicabilmente anche di convivenza, non perché vincolate da un legame di sangue e meno che mai da un contratto giuridico, ma perché condividono valori, interessi, affetti, emozioni, sentimenti, amori, desideri, aspirazioni.

L’idea della “comune”, che affascinò i giovani del ’68, alcuni dei quali provarono anche a metterla in pratica, purtroppo con durate quasi sempre brevi e con esiti spesso fallimentari, continua ad affascinare ed attirare un uomo come me, che di quella generazione sono parte, anche ora che sono diventato anziano, per non dire vecchio.

So benissimo che, anche per la maggioranza di coloro (pochi) che mi stanno leggendo, questa è solo un’utopia, del tutto irrealizzabile.

Ma cosa saremmo noi umani senza utopie? Come faremmo a camminare, ad andare avanti, ad andare oltre il semplice “qui e ora”?

© Giovanni Lamagna

Il filosofo e il mistico nei confronti degli affetti familiari.

Nel suo libro “I quattro maestri” (Garzanti; 2020) Vito Mancuso illustra e valuta il rapporto che Socrate, Buddha, Confucio e Gesù avevano con i loro parenti e con l’istituzione “famiglia” in generale.

E, in estrema sintesi, afferma che l’unico ad avere un buon rapporto con i suoi parenti ed un’alta considerazione dell’istituto familiare era Confucio.

Per Confucio la costruzione di buoni rapporti sociali, la concretizzazione di quel “senso di umanità” che era il fine più alto e la sintesi del suo insegnamento, doveva cominciare dalla famiglia: il padre doveva essere un buon padre e i figli dei bravi figli.

Degli altri tre maestri il più vicino a Confucio – per Mancuso – può essere considerato Socrate, che ebbe una regolare famiglia, anche se un rapporto molto difficile e conflittuale con la moglie Santippe, e non parlò mai contro l’istituto familiare.

Bisogna però dire che per Socrate non era certo la famiglia il cuore dei suoi interessi e perfino dei suoi affetti.

Egli, infatti, trascorreva la maggior parte del suo tempo per le vie e le piazze della polis ateniese e probabilmente teneva, sul piano affettivo e, forse, perfino erotico, molto di più ai suoi allievi che ai suoi figli e a sua moglie.

Ancora più radicale e antistituzionale è il rapporto che ebbero Buddha e Gesù coi loro familiari e con l’idea stessa di parentela e di famiglia.

Buddha a circa 30 anni lasciò la moglie e il figlio e si dedicò ad una vita totalmente spirituale, mistica e contemplativa; radunando attorno a sé una comunità di discepoli decisi a seguire la sua stessa via, che costituirono a questo punto la sua nuova e vera famiglia.

Quello che Buddha e, per alcuni aspetti, anche Socrate fecero nei fatti, Gesù non solo lo praticò in modo molto radicale, ma lo teorizzò perfino.

Ci sono molte affermazioni di Gesù che ci descrivono il suo distacco/separazione dalla sua famiglia di origine e che di questo distacco/separazione indicano, professano, la necessità, come una delle condizioni base, per mettersi alla sua sequela, per dedicarsi cioè alla missione di annuncio dell’imminente avvento del regno di Dio.

Due affermazioni in modo particolare ci dicono di questa sorta di “disamore” di Gesù per i suoi familiari e di (quasi) disprezzo nei confronti dell’istituto familiare, in nome di un amore e di una comunità di intenti e di affetti più grandi.

La prima: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e persino la sua propria vita, non può essere mio discepolo.” (Luca, 14, 26).

La seconda: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”, riferendosi a Maria e ai suoi fratelli di sangue; che viene così completata da Gesù: “Ecco mia madre e i miei fratelli!” (Marco; 3; 33-34), riferendosi a coloro che ascoltavano la sua parola.

Vito Mancuso, tra i due atteggiamenti, quello di Confucio e (in parte) di Socrate e quello di Gesù e (in parte) di Buddha, propende per quello di Confucio e di Socrate, ritenendolo (lo dico a parole mie) più equilibrato, meno fanatico e, quindi, più sano.

Io, invece, pur respingendo ogni estremismo e (ancora di più) ogni fanatismo, per la mia formazione culturale ed umana, propendo di più per l’atteggiamento di Buddha e di Gesù.

Non perché ritenga che, per abbracciare una vita dedita alla filosofia e alla mistica, sia necessario rinunciare alla famiglia come anche agli amori ed agli affetti (in questo senso respingo ogni estremismo e fanatismo), ma perché pure io ritengo che prima degli affetti di sangue e di ogni altro amore debba venire l’amore per la Sapienza.

Perlomeno l’amore per la Sapienza deve venire prima di ogni altro amore in chi intenda abbracciare una vita dedita alla via filosofica o alla via mistica.; che, tra l’altro per me, sono due vie contigue, molto affini.

Contigue e affini non fosse altro che per la radicalità che deve (o, meglio, dovrebbe) a mio avviso caratterizzare il pensiero e la vita sia dei filosofi che dei mistici; se aspirano ad essere dei veri filosofi e dei veri mistici.

In altre parole sono memore e ben consapevole di quanto affermò Aristotele di se stesso: “Amicus Plato, sed magis amica veritas” (“Platone mi è amico, ma più amica mi è la verità”).

Consapevole, come lo fu Aristotele, che non si può davvero amare se non si è (almeno un po’) sapienti, non si possono amare gli uomini, se non si ama prima la Sapienza.

E Aristotele non era certo un estremista e, tantomeno, un fanatico; ma un uomo molto mite e saggio; per giunta un grande filosofo (“amante della Sapienza”); anzi sicuramente uno dei più grandi filosofi comparsi fino ad oggi sulla faccia della terra.

© Giovanni Lamagna

Recensione del film “Hammamet” di Gianni Amelio

Ieri pomeriggio sono stato a vedere “Hammamet”, l’ultimo film di Gianni Amelio. Esprimo subito e in maniera sintetica l’impressione fondamentale: è un bel film, che si lascia vedere bene, che intriga e, a tratti, perfino commuove.

Lo confesso, sono andato a cinema piuttosto prevenuto: avevo letto nei giorni precedenti qualche articolo di giornale, un’intervista a Favino, qualche dichiarazione dello stesso Amelio e mi ero fatto l’idea che il film, sotto, sotto, avesse un qualche intento riabilitativo, se non addirittura agiografico, nei confronti di Bettino Craxi.

Io, all’epoca, non solo non avevo condiviso (quasi) niente dell’uomo politico-Craxi, ma – diciamolo pure – l’avevo anche cordialmente disprezzato sul piano umano. Perché incarnava l’esatto contrario del mio politico ideale e della mia stessa idea di uomo. Questo, credo, spiegasse bene lo stato d’animo con cui mi sono, dunque, recato a cinema.

Dopo aver visto il film, posso dire, invece, che le mie prevenzioni erano nel complesso del tutto infondate. Perché il film non racconta in primo luogo il Craxi politico, ma racconta soprattutto il Craxi oramai uscito dalla scena politica, distante dall’Italia e, per giunta, molto malato.

Racconta la storia degli ultimi sette mesi di vita di un uomo, che vive oramai isolato, circondato solo dall’affetto dei suoi familiari (soprattutto da quello devoto della figlia e da quello del nipotino, che lo venera come un comandante militare; la moglie è presente, ma è quasi come se non ci fosse: evidentemente non aveva mai avuto un grande ruolo affettivo nella sua vita), una persona ripiegata sui suoi ricordi, misti di nostalgia e di rancore, in lotta sempre più disperata con varie malattie, che ne minano ogni giorno di più la salute.

Il Craxi politico c’è (eccome, se c’è!), ma è sullo sfondo. In primo piano c’è il Craxi uomo, con il suo gradissimo dramma.

Un uomo sconfitto, che non si fa ragione della sua disfatta, che si sente anzi vittima di un complotto ordito ai suoi danni, che prova a spiegare le ragioni delle sue scelte, con l’arroganza di un tempo ancora ben viva, che non prova però più vero odio per i suoi avversari (“che coraggio c’è a parlar male degli altri?”), ma solo tanta rabbia.

Un uomo che si addolcisce solo con il nipotino (col quale gioca, come fanno tutti i “bravi” nonni), che vive un rapporto ambivalente con la figlia, un misto di ruvidezza burbera e di quasi languida tenerezza, che ha dei buonissimi rapporti con la comunità tunisina che lo ospita, che si esercita persino in buone azioni con poveri e bisognosi.

Amelio, insomma, ha voluto (a me pare) essenzialmente descrivere la storia di un personaggio famoso (che questo personaggio avesse le sembianze di un noto uomo politico italiano è stato per il regista calabrese quasi solo un pretesto), un personaggio che ha fatto la storia di una nazione, che ha toccato il vertice della gloria e dei riconoscimenti, e poi cade in disgrazia, rotola nella polvere, come prima di lui nella Storia è avvenuto a tanti altri illustri personaggi. E ci è riuscito benissimo.

Il dramma del racconto sta tutto nel raffronto stridente tra ciò che fu (ascesa al potere, gloria, fama, benessere economico, amori…; non a caso il film inizia con le scene del famoso XVI Congresso socialista, nel quale Craxi raggiunse l’acme della sua carriera politica) e la realtà del presente (dopo le condanne giudiziarie, la debacle politica, la perdita del potere, la fuga ad Hammamet in Tunisia, il sostanziale isolamento, la grave malattia…). Ed è reso con grande maestria narrativa.

Per carità (come già accennavo prima) nel film non è assente la dimensione del Craxi politico.

E d’altra parte essa non poteva mancare, perché Craxi era un animale politico fin nel midollo, totus politicus. Ma non poteva mancare, anche per un altro motivo: perché sarebbe venuta meno la tensione narrativa drammatica tra l’uomo politico trionfatore e quello decaduto.

E però la dimensione politica è solo la dimensione seconda, viene cioè dopo quella umana e privata. Nel film hanno dunque la possibilità di emergere con precisione tutte le tesi e le argomentazioni, che Craxi ha sostenuto fino all’ultimo, non solo per difendersi dalle accuse dei giudici, ma anche per rivendicare orgogliosamente la sua storia politica.

E il regista queste tesi e queste argomentazioni non le sposa affatto, come io (un po’ prevenuto) temevo che fosse. Anche se non le contrasta apertamente, quanto meno le dialettizza, attraverso la figura (bella trovata narrativa questa!) del figlio di un ex amico di Craxi (amministratore del partito, morto suicida) che, per capire cosa ha portato il padre a uccidersi, va a trovare il leader socialista  per intervistarlo e gli pone molte domande, spesso in aspra polemica con lui.

Io, come è ovvio, mi riconosco pienamente nella posizione di questo giovane, che pone a Craxi domande molto scomode e stringenti, che forse, almeno all’inizio, persino lo odia (tanto è vero che aveva addirittura meditato di ucciderlo) e che però, un poco alla volta, nel corso dei lunghi giorni in cui procede l’intervista (ospite a casa di Craxi) si lascia prendere dall’umana pietà di fronte all’uomo sofferente.

A voler fare una sintesi conclusiva: – Hammamet è un film anche politico, ma non in primo luogo politico; – le tesi politiche (quelle favorevoli a Craxi e quelle contrarie) vengono esposte (ovviamente in forma narrativa) in maniera abbastanza obiettiva e per nulla apologetica; – il film è in primo luogo il racconto della dolorosa vicenda umana di un uomo potente caduto in disgrazia; – probabilmente voleva suscitare umana compassione anche in chi Craxi lo ha vissuto come avversario e anche oggi non ne condivide quasi nulla della storia politica; – se questo era uno degli obiettivi, l’ha raggiunto pienamente: con me, almeno, l’ha raggiunto; è, insomma, un film riuscito.

Una menzione a parte la merita l’interpretazione di Pier Francesco Favino, che è semplicemente strepitosa, magistrale, da grande attore, di statura internazionale.

Giovanni Lamagna

Depressione e senso dell’esistenza.

Nella risposta alla lettera di una giovane lettrice, Cecilia, che raccontava la sua disperazione esistenziale e il suo desiderio di autodistruzione (lettera pubblicata su “D la Repubblica” il 17 febbraio 2018), Umberto Galimberti così scriveva:

Per noi lettori, frequentare qualche riga di questa lettera non è un male. Serve a dare la giusta misura alla nostra esistenza che si affanna e supervaluta, come se si trattasse di vita o di morte, gli obiettivi che ciascuno di noi si prefigge e insegue.

Per costoro vale il monito che traspare dalla lettera di Cecilia che non si interroga, come fanno tutti, sul senso della sofferenza, bensì… sul senso dello stesso esistere, che non è privo di senso perché è tormentato dalla sofferenza, ma al contrario appare insopportabile perché è privo di senso.”

Galimberti, appena qualche riga prima, aveva scritto: “… non ho mai trovato in nessun testo di psicologia… una descrizione così lucida del sentimento che accompagna chi ha avvertito, senza infingimenti, la radicale insignificanza dell’esistenza, da cui tutti fuggiamo, occupandoci di qualsiasi cosa (lavoro, famiglia, carriera, progetti, obbiettivi, persino sogni e amori).

Mi permetto di non essere d’accordo, questa volta, con la lettura/spiegazione che il professor Galimberti dà del sentimento o, meglio, della condizione esistenziale (che lui non nomina, ma credo siano sottintesi), che oggi vengono definiti col termine “depressione” e una volta con quello di “melancolia”.

Per il professor Galimberti (a me pare di capire) la “depressione” sarebbe la naturale conseguenza, sul piano emozionale/sentimentale, di “chi ha avvertito, senza infingimenti, la radicale insignificanza dell’esistenza”.

Coloro che non soffrono di depressione sarebbero, dunque, quelli (la grande maggioranza di tutti noi) che fuggono da questa consapevolezza (della “radicale insignificanza dell’esistenza”), occupandosi di cose che non avrebbero un reale valore; e cioè “lavoro, famiglia, carriera, progetti, obbiettivi, persino sogni e amori”.

La depressione, quindi, per Galimberti, non sarebbe lo stato d’animo di chi “è tormentato dalla sofferenza”, una sofferenza talmente grande e senza vie di uscita da rendergli insopportabile “lo stesso esistere”. Esistere che, perciò, gli “appare privo di senso”, senza valore o, perlomeno, senza motivazioni adeguate.

No, per Galimberti, la depressione sarebbe lo stato d’animo di chi trova “insopportabile” l’esistenza, a prescindere dalle condizioni esistenziali in cui essa viene vissuta, ma (mi verrebbe di dire, solo e semplicemente) “perché essa è priva di senso”, non ha ragioni valide (metafisiche?) per essere vissuta.

La depressione, quindi, come condizione esistenziale, sarebbe, per Galimberti, figlia di un atto mentale, potremmo dire anche di una riflessione filosofica sul “senso dell’esistenza”.

Sono totalmente in disaccordo con questo tipo di lettura.

E non perché ritenga che la vita abbia delle ragioni che vadano oltre la vita stessa (ragioni perciò “metafisiche”) per essere vissuta. Da questo punto di vista, sono, infatti, del tutto d’accordo con l’affermazione del professor Galimberti che l’esistere in sé “è privo di senso”.

Ma perché penso che la lettura/spiegazione che dà il professor Galimberti della depressione sia in stridente contraddizione con l’esperienza della maggior parte degli esseri umani e, quindi, con quella che possiamo ritenere essere la loro natura di base.

La grande maggioranza degli esseri umani, infatti, (come possiamo vedere osservando i bambini), dal momento in cui viene al mondo, è animata da una gran voglia di vivere. Che non è solo l’istinto di sopravvivenza, ma è proprio il piacere di vivere, la gioia di vivere, l’élan vital.

Di questa energia esistenziale primordiale hanno dato ampia testimonianza non solo la filosofia greca e le filosofie orientali, “vecchie” di duemilacinquecento anni, ma anche pensatori più recenti e a noi più vicini, quali Schopenhauer, Bergson e lo stesso Nietzsche.

Tale energia può essere perduta, per carità, anche ben presto smarrita, nel corso dell’esistenza, ma solo a causa di condizioni di vita particolarmente sfavorevoli: estrema indigenza economica, malattie organiche o psichiche, abbandoni traumatici, colpi di sventura. Non certo per una riflessione filosofica sul “non senso” radicale dell’esistenza.

Nella maggior parte degli esseri umani tale energia permane, sopravvive nonostante le sventure e i dolori che affliggono la vita di tutti noi. Questo è un dato statistico importante, oggettivo, che ha il suo valore e che non può essere sottovalutato né, tantomeno, ignorato.

Non è dunque (potremmo dire, parafrasando Marx) la coscienza (ovverossia la consapevolezza che l’esistere abbia un senso o meno) a determinare la condizione psicologica ed-esistenziale di ognuno di noi e, meno che mai, quella materiale, ma (esattamente al contrario) è la condizione materiale (e, quindi, anche psicologica) in cui si svolge (per una serie di circostanze, molte delle quali non dipendono da noi) la nostra esistenza che determina la nostra coscienza (il fatto che per alcuni di noi la vita abbia un senso, perfino grande, e che per altri non ne abbia alcuno, nemmeno uno piccolo, piccolo).

Giovanni Lamagna