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Il fantasma che orienta la nostra libido da adulti.

Ciascuno di noi – come dice Recalcati (“Un cammino nella psicoanalisi” Mimesis 2016; p. 104-105) – insegue un fantasma.

Quel fantasma che – secondo la lezione freudiana – si è formato dentro di noi dopo che il nostro desiderio primario – quello di congiungerci carnalmente col nostro genitore di sesso opposto – è stato castrato (tra i 3 e i 5 anni).

Da allora la nostra vita emotiva, affettiva, sessuale è fondamentalmente impegnata a riparare gli effetti della castrazione subita.

Sono nati, si sono formati, quindi, in noi emozioni, sentimenti, immagini, fantasie, sostituti del desiderio primario (il fantasma, appunto!), che richiedono di essere tradotti in atti.

Da questo momento in poi la nostra vita emotiva, affettiva e sessuale sarà guidata, orientata da questo fantasma.

Per alcuni – che hanno vissuto in maniera particolarmente traumatica la castrazione primaria – questo fantasma diventerà una vera e propria ossessione.

© Giovanni Lamagna

Madre, moglie e amante.

Nessuna donna potrà essere una buona madre se non sarà prima di tutto una buona moglie o compagna del suo uomo.

E, se dopo essere diventata madre e ad aver assolto per una certa fase al compito primario e impegnativo della cura e dell’allevamento dei figli, non tornerà ad essere prima o poi innanzitutto una moglie o una compagna.

O, meglio e per dirla tutta, l’amante del proprio uomo: nel senso propriamente erotico e sessuale del termine; recuperando appieno non solo la propria vita sessuale ma anche la propria femminilità e il proprio erotismo.

Cosa che, invece, non sempre accade; o, perlomeno, non è scontato che accada.

Anzi – se proprio vogliamo dirla tutta – molto spesso non accade.

Perché la donna molto spesso, una volta diventata madre, rimane prigioniera a vita, di questo suo ruolo di madre.

E, invece, – è questo che ci tengo a sottolineare qui – solo se tornerà ad essere prima di tutto l’amante del suo uomo, la donna riuscirà a trovare l’energia per separarsi dal figlio.

Così da favorirne il giusto distacco e allontanamento; e, quindi, una crescita sana, una positiva evoluzione.

Dimostrandosi in questo modo (e solo in questo modo) una buona e brava madre.

La madre, invece, che vuole tenere legato a sé il figlio (o la figlia), che fa del figlio (o della figlia) un sostituto (asessuato e sublimato) del marito, tutto è tranne che una buona e brava madre.

Anche se tenderà a spendersi questa immagine all’esterno e nell’immaginario collettivo sarà pure ritenuta, riconosciuta, confermata, come tale.

Mentre l’altra, la madre che tornerà a fare l’amante, sarà magari ritenuta una cattiva madre, solo perché non si riduce ad essere tutta “serva” e “tappetino” dei propri figli.

Perché avrà rotto il cordone ombelicale (anche quello simbolico) che correva il rischio di tenerla legata a vita in maniera simbiotica al figlio o ai figli.

© Giovanni Lamagna

La scelta della castità.

La scelta della castità da parte dei preti e dei religiosi è motivata – tra l’altro – dall’idea che nell’altra vita, dopo la morte, non esisterà più il sesso, saremo tutti esseri angelicati, quindi asessuati.

La castità vorrebbe essere quindi un’anticipazione di quella che sarà la vita ultraterrena, un’anticipazione della “beatitudine” di cui godremo in Paradiso, nel contatto, nell’unione con Dio.

Se ne deduce che, anche in questa vita, si dovrebbe vivere meglio essendo casti che non essendolo.

Ma quelli che hanno fatto una tale scelta possono davvero affermare una cosa simile: di essere più felici di coloro che hanno una normale vita sessuale?

Ho i miei dubbi.

Quindi che senso ha fare una simile scelta, fosse anche per amore di Dio?

© Giovanni Lamagna

Donna, femmina e madre.

Ogni donna, dopo essere diventata madre, ad un certo punto deve decidere se tornare ad essere femmina o se continuare a fare la madre a vita.

Cioè se dedicarsi prevalentemente al suo uomo, riprendendo una vita sessuale soddisfacente.

O se dedicarsi prevalentemente ai suoi figli, facendo dell’accudimento alla prole l’interesse principale della sua vita.

Molte donne optano per questa seconda scelta e fanno danni, molti danni.

Innanzitutto a sé stesse, come è abbastanza ovvio.

Ma anche – e questo è meno ovvio – ai loro figli.

p. s. Do per scontato – ad evitare equivoci e malintesi tra le mie lettrici – che la donna, dopo la maternità, riprenda e coltivi appieno gli interessi relazionali, sociali, professionali e culturali che aveva prima di diventare madre.

E, però, faccio notare che quasi sempre questa ripresa avviene in contemporanea, se avviene, con quella di una felice vita sessuale.

Altrimenti manco questa avviene e la donna, in questo caso, si riduce al ruolo prevalente, se non del tutto esclusivo, di madre.

Questo mi è stato dato di osservare in ormai abbastanza lunghi anni di vita.

© Giovanni Lamagna

Paternità, maternità, Legge, desiderio e godimento.

Scrive Massimo Recalcati nel suo “La legge della parola” (2022 Einaudi; pag. 106): “… ogni padre rappresenta la Legge senza però mai coincidere con la Legge. E questa non coincidenza dipende anche dal fatto che ogni padre è anche un uomo di godimento. Occorre dunque che il padre insieme alla Legge testimoni il suo desiderio singolare nelle forme del proprio godimento.

Mi riconosco molto in queste affermazioni.

Tra l’altro quello che per Recalcati vale per un padre per me vale anche per una madre.

Nel testo da me citato Recalcati nomina il padre, ma, a mio avviso, solo perché sta parlando di Noè, cioè di un maschio.

Ma io ritengo che entrambi, sia un padre che una madre, (e credo che Recalcati sarebbe d’accordo con me) devono (o dovrebbero) essere testimoni del proprio desiderio nei confronti dei figli, entrambi devono (dovrebbero) rivendicare il loro (buon) diritto al godimento.

Anteporre, privilegiare, in presenza della prole, l’interesse per i figli alla cura del loro rapporto coniugale, sacrificare i propri desideri e il proprio godimento in nome dell’amore quasi esclusivo da dedicare ai figli, sono scelte che rappresentano una deformazione, anzi una vera e propria perversione, del ruolo di padre e di madre.

In questo modo i genitori testimonieranno ai figli solo il senso del dovere: la Legge sganciata dal desiderio, come dice Recalcati e come aveva detto, prima di lui, Lacan.

Mentre la vita non è fatta solo di doveri; è fatta indubbiamente di doveri ma anche di piaceri.

E come bisogna adempiere ai propri doveri, così è giusto rivendicare il proprio diritto al piacere, quando questo è compatibile coi doveri.

Il piacere, indubbiamente, deve trovare un limite nel senso del dovere; il “principio di piacere” deve trovare il suo limite nel “principio di realtà”, come sosteneva Freud.

Ma anche il senso del dovere deve riconoscere uno spazio al piacere.

Laddove, infatti, un malinteso “principio di realtà” soffoca – oltremodo e, soprattutto, senza sufficiente motivo – il “principio di piacere”, la persona si ammala.

Quelli in cui ci si concede al piacere sono momenti nei quali possiamo metaforicamente ricaricare le batterie e ritrovare le energie utilizzate per assolvere ai nostri doveri passati, le forze necessarie ad esercitare in maniera adeguata i nostri doveri futuri.

I genitori, dunque, che (per fare un esempio tipico e molto calzante con il discorso che stiamo facendo) mortificano la loro vita sessuale (nel senso che la ridimensionano in maniera importante o addirittura vi rinunciano, come succede in alcuni casi) per dedicarsi anima e corpo alla cura e all’allevamento dei figli, tradiscono in questo modo (per venire al discorso da cui siamo partiti all’inizio) il loro desiderio in nome della Legge.

Una legge scritta da nessuna parte, ma che evidentemente è ben incisa nel loro Super-io.

Una legge legata a sensi di colpa oscuri, malsani, che nulla hanno a che fare col “principio di realtà” di cui parlava Freud.

E, in questo modo, trasmettono ai loro figli una versione sbagliata, deforme, unilaterale, sacrificale, masochista, della Legge.

Iniettando in loro veleno (sia pure senza volerlo e senza esserne consapevoli), trasmettendo loro i germi di future nevrosi e, nei casi più gravi, addirittura di psicosi.

© Giovanni Lamagna

Vita affettiva e vita sessuale.

Penso che non possano essere pienamente felici (della felicità – limitata – che è possibile alla condizione umana) né la persona che ha una intensa vita affettiva ma una vita sessuale insoddisfacente né la persona che ha una vita sessuale intensa ma una vita sessuale insoddisfacente.

Per essere felici (nella misura in cui lo possiamo essere noi umani) occorrono sia una vita affettiva piena che una vita sessuale appagante.

L’una senza l’altra (o viceversa) non garantisce la piena felicità: quella possibile ad un essere umano.

© Giovanni Lamagna

La nostra ambivalenza nei confronti della pulsione sessuale.

Nel quarto capitolo de “Il disagio della civiltà” Freud elenca molti motivi che dimostrano la tendenza della civiltà a limitare la vita sessuale delle persone.

Mi pare però che non ne abbia elencato uno che a me sembra fondamentale e forse è addirittura quello principale.

A mio avviso nei confronti della pulsione sessuale gli esseri umani hanno un atteggiamento ambivalente.

Da un lato ne sono fortemente attratti; perché, “avendo sperimentato che l’amore sessuale (genitale) … procurava (loro) il massimo soddisfacimento”, arrivano a identificare nel piacere sessuale il modello di riferimento di ogni altro piacere; e quindi della stessa felicità; per cui tendono a porre “l’erotismo genitale al centro della vita stessa”. (p. 237; Bollati Boringhieri; 2019)

Dall’altro ne diffidano, ne hanno quasi timore e persino panico; proprio perché la pulsione sessuale è dotata di una tale forza (e, mi verrebbe di dire, persino violenza) che gli uomini evidentemente temono di esserne travolti, perdendo il controllo di sé stessi; col rischio paventato di dissiparsi e quasi disintegrarsi, psicologicamente, se non fisicamente.

Questo sembra spiegare, d’altra parte, perché, da sempre, “eros” è associato a “thanatos”.

E perché i francesi (ma non solo i francesi) denomino l’orgasmo con l’espressione “petit mort” (piccola morte), come a significare che nell’orgasmo il soggetto in qualche modo si dissolve, perde i suoi confini o quantomeno la consapevolezza di essi, esattamente come quando sopravviene la morte.

La conseguenza di questo asserto è – a mio avviso e sia detto a latere del ragionamento fin qui svolto – che l’ambivalenza nei confronti della vita sessuale può essere superata, forse, solo da chi ha instaurato un buon rapporto con la morte, da chi ha fatto pace con la morte.

E chi possiamo dire ha fatto pace con la morte?

Solo chi ad un certo punto della sua vita ha avuto il coraggio di guardarla bene in faccia e di accettare e amare la vita, nonostante la morte.

Anzi di godersi le gioie che la vita – pur alternandole a molte e indubbie sofferenze e persino angosce – è in grado di donare.

In altre parole, chi è in grado di godersi la vita nonostante l’incombere della morte.

In altre parole ancora, forse solo chi ha imparato ad affrontare la morte, il “timor panico” che si accompagna all’idea della morte, non avrà paura di abbandonarsi senza resistenze alla “piccola morte”, a quel “sentimento oceanico”, di pura estasi, che l’orgasmo comporta.

Al contrario chi, per una ragione o per l’altra, con l’idea della morte (e col “timor panico” che essa comporta) non ha ancora fatto i conti molto probabilmente avrà delle resistenze a vivere una vita sessuale senza troppe ambivalenze.

Anzi, in certi casi estremi e nevrotici, ne avrà persino un vero e proprio rifiuto.

Paradosso dei paradossi, visto che, come sostiene giustamente Freud, l’amore sessuale procura il massimo soddisfacimento possibile per un essere umano e che l’erotismo sessuale è normalmente associato all’idea stessa di piacere.

© Giovanni Lamagna

La persona erotica è…

Per me la persona erotica è quella che si muove in continuità costante e consapevole con la sua vita sessuale, che è altresì viva e brillante.

La persona che fa ogni cosa utilizzando quella stessa energia primaria, primordiale, che la spinge a fare sesso.

Che non rimuove mai la sua pulsione sessuale a livello di consapevolezza, la tiene sempre presente.

Tutt’al più la sublima, come è inevitabile e indispensabile in molte situazioni, incanalandola in altre attività.

Dal lavoro, allo studio, all’arte, alla contemplazione, alle relazioni interpersonali…

© Giovanni Lamagna

Ci sono fantasie e fantasie

Ci sono fantasie che sono negative, dannose per la vita sessuale e per la vita in generale delle persone che le fanno.

Sono, le fantasie che contemplano/prevedono il ricorso alla violenza, nelle sue varie forme, da quella psicologica a quella fisica: ad esempio, le fantasie sado-masochiste.

E queste per me non solo non vanno praticate, ma vanno elaborate e, possibilmente, superate.

Ci sono, invece, fantasie che sono benefiche, positive, perché allargano gli orizzonti della vita sessuale ( e non solo) di chi le fa.

E queste, invece, vanno non solo curate, coltivate, ma, anzi, laddove è possibile, messe in pratica, realizzate.

© Giovanni Lamagna

Le tre fasi (possibili) della storia e della vita sessuale di noi umani.

Penso che la storia e la vita sessuale di noi esseri umani possa (o, meglio, dovrebbe) essere marcata da tre fasi, con caratteristiche molto diverse tra di loro.

La prima è quella che va dagli inizi dell’adolescenza fino ai limiti più avanzati della giovinezza. Di solito oggi questa fase si prolunga anche fino ai 25/30 anni.

E’ questa la fase della prima conoscenza e della progressiva esplorazione della propria sessualità e di quella dei partner che via, via si incontrano sul proprio percorso.

Questa fase è di solito caratterizzata (ed è bene che sia così) da una molteplicità di esperienze e di incontri, sia nel numero che nella qualità.

Andrebbe vissuta senza troppe inibizioni; anzi lasciando andare sempre più le inibizioni, per conoscere sempre meglio i propri gusti e le proprie preferenze nella scelta dei partner sessuali.

La seconda fase (quella che comincia, dunque, attorno ai 25/30 anni) la definirei della monogamia, se non proprio totale ed assoluta, quantomeno tendenziale e di base.

E, quindi, dalla esperienza della famiglia nucleare, formalizzata o meno, comunque caratterizzata dall’incontro con un/a partner oramai stabile, di cui ci si è innamorati profondamente, con cui si è disposti a condividere buona parte della propria vita (casa, interessi, svaghi…) e con il/la quale si decide di avere anche dei figli.

Questa fase sarebbe bene (quantomeno auspicabile) durasse almeno fino a quando i figli diventano persone adulte, cioè autonome, in grado di camminare psicologicamente da soli, sulle proprie gambe.

Quindi almeno per una ventina di anni, cioè fino ai 50 anni (poco meno o poco più) dei partner della coppia che ha messo su famiglia.

A questo punto può (o, meglio, potrebbe a mio avviso: non vedo controindicazioni in tal senso) iniziare una terza fase della vita sessuale di una persona: quella che non avrei esitazione a definire poligamica oppure della coppia aperta o, addirittura, in alcuni casi particolarmente fortunati, della “comune”.

I due partner hanno vissuto fino a questo momento un rapporto (più o meno) esclusivo o (quantomeno) privilegiato ed hanno convissuto in una famiglia nucleare per più o meno 20/25 anni.

Hanno (se li hanno avuti), figli oramai abbastanza cresciuti ed autonomi. Che non dipendono quindi più dal loro accudimento psicologico e, in alcuni casi, nemmeno dal loro sostegno economico.

Si trovano in un’età indubbiamente matura (certo, a 50/55 anni non si è più giovani!), ma sono ancora pienamente vitali e, in molti casi, ancora carichi di energia fisica e sessuale, libidica in senso lato.

E’ vero, la potenza sessuale a 50/55 anni ed oltre non è più la stessa che a 20 o 30 o 40 anni. Ma la minore prestanza fisica e ormonale viene (può essere) ampiamente compensata dalla maggiore esperienza erotica e, soprattutto, dalla maggiore libertà mentale e sociale, che di solito si raggiungono a questa età.

I partner della coppia monogamica, compagni più o meno esclusivi di un buon pezzo di vita, dovrebbero, allora, in questa terza fase, poter aprire (anzi, a mio avviso, sarebbe bene lo facessero) la loro coppia e intrecciare il loro rapporto con una molteplicità di altri rapporti erotici, le cosiddette “amicizie erotiche”.

La loro relazione, a questo punto, si trasformerebbe radicalmente: non sarebbe più di natura esclusiva e monogamica, ma entrerebbe a far parte di una rete di molteplici legami amorosi.

Ne guadagnerebbe in questo caso la stessa vitalità e freschezza del loro rapporto, che a questa età di solito tendono (quasi fatalmente) ad appannarsi, se non a esaurirsi del tutto.

L’adrenalina di una sana (perché ben accettata da entrambi) “competizione” potrebbe, infatti, rinnovare un desiderio che, con la routine e “il dato per scontato”, tende quasi inevitabilmente a venir meno, fino a spegnersi completamente.

A voler coltivare un po’ di utopia, la convivenza comunitaria (tipo “comune”) di persone legate da amicizie erotiche intrecciate, laddove si riuscisse a metterla su, sarebbe a questo punto (o, meglio, potrebbe essere) la massima e migliore espressione organizzativa possibile di questa terza fase della sessualità umana.

Cosa che – ne sono perfettamente consapevole – non è niente affatto facile da realizzare: ci sarebbe una quantità enorme di pregiudizi, sia individuali che collettivi, tra l’altro molto ben stratificati storicamente, da superare.

E però è anche vero che l’uomo, sia nella sua espressione singolare che in quella plurale (l’Umanità), non è fatto per rimanere uguale a se stesso. Quindi non è vietato (né tantomeno sbagliato) immaginare un altro futuro possibile.

Se la maternità e la paternità sono dati certi, legati alla natura, non altrettanto si può dire per la famiglia, sia quella classica patriarcale (oramai già da tempo superata, almeno nelle società industriali e postindustriali avanzate) sia quella nucleare più moderna.

E’ vero che ancora oggi la maggior parte dei sociologi, degli psicologi, dei politici e degli uomini di religione si affannano ad affermare che la famiglia è la (indispensabile e insostituibile) cellula base della società, secondo la classica formula della morale cattolica.

Ma chi ci dice che questo dato storico debba persistere anche in futuro e che non possa, invece, venir meno in un avvenire più o meno prossimo?

E’ del tutto da escludere che, accanto a forme classiche di famiglia, possano costituirsi altri nuclei associativi primari, da considerare anche essi cellule base della convivenza sociale più allargata?

Cosa vi osta, se non la nostra pigrizia emotiva, affettiva ed intellettuale, compresa quella di molti insigni maitre a penser?

© Giovanni Lamagna